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Marzo/2010 - Interviste
L'Opinione
La fabbrica dei capri espiatori
di a cura di Eleonora Fedeli

Televisione, paparazzi
e fotoricatti: l’avvocato
ci rivela il suo pensiero
sul Paese della “videocrazia”


Arrivo nel suo studio nel tardo pomeriggio. Nella borsa ho solo un registratore e un foglio di carta con qualche idea appuntata di fretta. Non è una scaletta, ma una serie di parole chiave, degli input dai quali partire senza sapere per dove. L’appuntamento con l’Avvocato Nino Marazzita, infatti, riprende con una veste nuova: saranno colloqui più che interviste, conversazioni che procederanno per libera associazione di idee. L’avvocato, del resto, è per sua stessa ammissione un uomo «a cui piace fare tutto» e che si diverte «a cimentarsi anche in ambiti che non sono necessariamente pertinenti con il diritto». Che sia un uomo versatile non è un mistero: oltre ad essere un famoso penalista nella “top ten” del diritto internazionale, Marazzita è anche conduttore radiofonico e televisivo (attualmente è in onda ogni martedì alle 23 su T9 e su GBR con Scanner), nonché collaboratore di riviste e quotidiani. Ho pensato, allora, di non imbrigliarlo nella struttura chiusa dell’intervista, dalla quale è difficile defilarsi, e di sottoporlo a degli stimoli, come macchie di Rorschach sulle quali far reagire la sua poliedricità e la sua esperienza.
Questa volta si parla di televisione. Di vallette e malcostume, di paparazzi e fotoricatti, di un Paese in cui regna la “videocrazia”, per citare il titolo del poco pubblicizzato documentario di Erik Gandini uscito lo scorso anno, Videocracy, sul potere della televisione in Italia. Un Paese fondato sul profitto «tutto e subito», in cui apparire in tv significa esistere e quindi aspirare alla fama, alle donne (o agli uomini), al seggio in Parlamento. Parliamo di televisione, dunque, e dei personaggi che vi gravitano intorno: uno su tutti Fabrizio Corona, il “Robin Hood” di nuova generazione, come ama definirsi, che ruba ai ricchi per dare a se stesso. Condannato per estorsione a tre anni e otto mesi di carcere per i fotoricatti al calciatore Adriano e altri vip, il “re del gossip” è stato recentemente colpito da un’altra sentenza che si aggiunge ai suoi già pesanti guai giudiziari: tre anni e quattro mesi di reclusione per un singolo episodio, le foto del bomber juventino David Trezeguet fatte sparire dalla circolazione dietro lauto compenso. Se si aggiungono i due anni per corruzione di un secondino e più di un anno e mezzo per i soldi falsi spesi in autostrada si arriva già a dieci anni e mezzo. Poi c’è il processo milanese per bancarotta fraudolenta ancora in fieri. Insomma, ce n’è quanto basta perché Corona possa finalmente scegliere la strada dell’esilio, come aveva annunciato prima ancora della sentenza milanese, ed andarsene da un Paese che «non lo merita» e in cui «la giustizia non è uguale per tutti».

In effetti, le altre agenzie fotografiche che hanno utilizzato il “metodo Corona” non sono state condannate, tantomeno i protagonisti del caso Marrazzo. Viene da pensare che Corona sia stato il solo a pagare per un intero sistema “malato”…
Noi viviamo in un Paese che ama fabbricare capri espiatori. Certo, Corona è un personaggio discutibile, sleale, disonesto. Però su di lui si concentra tutto quello che di male c’è in quell’ambiente. Prendiamo, ad esempio, il caso di Vanna Marchi: a lei sono state inflitte pene che non sono toccate a Cesare Geronzi [indagato per usura aggravata e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac Parmalat-Ciappazzi, rinviato a giudizio per estorsione e bancarotta societaria per il filone Eurolat, indagato per frode nel crac Cirio, n.d.r.].
E mentre Vanna Marchi è in carcere, Geronzi riveste ancora un ruolo di primo piano nei vertici di controllo dell’economia nazionale. Questo non significa che Vanna Marchi sia innocente, ma che la pena che le è stata data è eccessiva. In questo modo finisce per essere l’unica persona sulla quale la severità di uno Stato apparentemente forte si fa valere. In realtà è uno stato debole con i forti e forte con i deboli. Fabrizio Corona è vittima di questo stesso meccanismo, in quanto simbolo di un mondo malato e corrotto.

Simbolo del male, ma anche della fama e del successo…
Sì, è diventato un modello in un mondo di marketing, vendendo mutande dalla sua finestra. In realtà l’attrazione nei confronti del male, del detenuto c’è sempre stata.
Tra i casi che ho seguito c’è stato quello di Marco Caruso, un giovane di quattordici anni che per difendere la madre dalle violenze del padre lo aveva ucciso con un colpo di pistola. Lui riceveva migliaia di lettere di solidarietà. Per non parlare del caso Pasolini, durante il quale avrò ricevuto due trecento lettere di persone che dichiaravano di aver assistito all’omicidio o, addirittura, di essere i colpevoli. Sono fenomeni di mitomania che sono sempre esistiti. Nel caso di Corona, poi, è tutto amplificato dal marketing: ha saputo costruire un’immagine accattivante, accompagnandosi con donne bellissime, guidando macchine costose. Tutto questo eccita la fantasia di molti italiani.

E’ proprio questo che mi lascia perplessa. Che il male eserciti un fascino è indubbio, mi stupisce che lo eserciti la volgarità. Paradossalmente riesco a capire di più chi spedisce lettere d’amore ad Amanda Knox (condannata per l’omicidio di Meredith Kercher), piuttosto che l’ammirazione per un uomo grossolano e immorale.
La volgarità arriva a te, ma non ad altri. Nella media non viene colta, viene percepita come forza, come carattere. In realtà Fabrizio Corona è solo un piccolo e banale delinquente.

Mille anni luce della dolce vita, quando il geniale paparazzo era Tazio Secchiaroli e il cacciatore di gossip era il malinconico Marcello Mastroianni, non credi?
Il paparazzo della dolce vita era una figura romantica. Io la dolce vita l’ho vissuta nel suo luogo simbolo, il Café de Paris. Quando ero studente, infatti, abitavo all’angolo tra via Sicilia e via Veneto. Non dormivo mai e anche se avevo voglia di dormire, puntualmente passava qualcuno dei miei amici a citofonarmi.
Al contrario di oggi, in quegli anni il paparazzo non era ricco: era un uomo che si prendeva un sacco di botte e a cui spesso rompevano la macchina fotografica, strumento principale di vita e di lavoro. Un uomo che correva non pochi rischi per riuscire nell’eroica impresa di cogliere un’Anita Ekberg ubriaca.
Oggi il paparazzo si è trasformato in un investigatore privato, uno che ti entra nella vita senza limiti: esistono strumenti talmente sofisticati che permettono di fotografare in ogni situazione. In più si è allentato il concetto di privacy.

Anche gli obiettivi del gossip sono molto diversi rispetto a cinquanta anni fa. Divi celebri, aristocratici e reali sono stati sostituiti da politici, calciatori, “grandi fratelli”, naufraghi famosi e vallette. L’abbassamento di livello è notevole...
Io vado spesso in televisione e mi accorgo che il livello è veramente basso. Credo che se un giorno prenderanno come reperto una di quelle trasmissioni che vanno in onda il pomeriggio, la nostra passerà alla storia come una fase di minus habens. In generale, la situazione della televisione italiana è veramente preoccupante. Innanzitutto perché risente di un livello di legalità che si abbassa sempre di più. In secondo luogo perché in Italia si registra un’anomalia incredibile relativa al servizio pubblico, cioé quella della commissione di viglilanza sulla Rai. Questa è la negazione della libertà di stampa, peché sono i giornalisti che dovrebbero vigilare sul Parlamento e non viceversa. Il giornalismo è il quarto potere, il potere di controllo del potere. Quando esiste una commissione che stabilisce come fare informazione hai già ucciso il sistema infomativo.

Vedendo le trasmissioni degli anni Sessanta e confrontandole con quelle di oggi, ci si domanda: è possibile che nel giro di cinquant’anni il declino sia stato così netto? Io non credo che il pubblico di allora fosse più istruito, eppure si appassionava a trasmissioni che oggi seguirebbero in pochi.
Oggi, al contrario, il livello di istruzione è migliorato, ma ciò non toglie che accettiamo quello che ci viene proposto. Il fatto è che la televisione è un mondo chiuso e impenetrabile, controllato dalla politica. La classe politica che eleggiamo, poi, è costituita da gente molto nella media, se non al di sotto. Non credo che al momento ci sia qualcuno in grado di scardinare un sistema in cui non esiste meritocrazia, accessibile solo agli “amici di”. Quello che ci viene proposto in televisione è il risultato di questa situazione.
Le trasmissioni cosiddette “popolari”, quelle inventate da Guardì, fatte con la consapevolezza di essere leggere, in cui si piange e si battono le mani, sono degenerate in forma ibride. Rai e Mediaset propongono gli stessi prodotti, incroci fra i programmi di Maria De Filippi e “Carramba che Sopresa”.

Tutti si lamentano di questi programmi però nessuno spegne la televisione. Perché?
Perché la televisione è l’unica finestra aperta sul mondo per tutti noi. Che alternative ha la gente? E’ inutile dire che esistono i libri e i giornali, perché buona parte di quelli che guardano la televisione non legge. E’ l’unico strumento che hanno per informarsi, per mantenersi in contatto con la vita.

Questo significa che non c’è speranza che le cose cambino?
C’è speranza. Pensiamo al fascismo: quando si è arrivati a certi livelli di bestialità, all’accordo con Hitler, all’assenso sulle leggi razziali, alla guerra che andavano a perdere, allora l’Italia si è rivoltata.

Questa situazione, però, mi sembra diversa. Un conto è un accordo con Hitler e un conto è abituarsi al Grande Fratello.
Il discorso è che oggi entrano in gioco una serie di coincidenze. Pensiamo, ad esempio, al fatto che negli ultimi anni il femminismo è praticamente morto. Quando c’è stato lo scandalo della Gregoraci, tutti si sono scagliati contro di lei. Nessuno, però, ha parlato di Salvatore Sottile. Poi c’è un altro fatto. C’è una magistratura che, come nel caso citato di Corona, giudica non sulla basi delle leggi, ma di quello che la gente si aspetta.
Ti faccio un esempio recente: io ho difeso in secondo grado Doina Matei, la ragazza romena che ha ucciso con un ombrello Vanessa Russo nella metropolitana di Roma. In primo grado era stata condannata a 16 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, sentenza che volevano trasformare in omicidio volontario, equivalente a 30 anni di carcere. Io ho fatto notare che alla base dell’aggressione c’era stato un fatto provocatorio, un alterco tra le due e per questo sono stato aggredito dalla mamma in aula. Alla fine vinco la causa, l’omicidio resta preterintenzionale, ma la pena rimane di 16 anni. Ora, per una ragazza incensurata, prostituta, con due figli, al limite della maggiore età, il massimo della pena con il massimo aumento degli aggravanti mi sembra eccessivo. Il tribunale ha lasciato la pena invariata, perché se l’avesse ridotta con la mamma che gridava in aula la gente non sarebbe stata d’accordo. A volte il magistrato decide non in base alla legge, che spesso è sinonimo di impopolarità, ma sulla base di quello che la gente si aspetta.

Per questo credo che il nostro tempo sia estremamente diverso dal fascismo. Oramai tutto è governato da regole televisive, dal consenso. In una società di questo tipo difficilmente riesce a crescere una generazione in grado di ribellarsi.
Io ho difeso ragazzi delle Brigate Rosse, gente che si illudeva che il mondo sarebbe cambiato con loro. Le loro erano motivazioni pseudoideologiche, fanatiche, ma almeno erano motivazioni. Oggi, se ci pensi, si uccide per noia: in molti casi, anche se si scava a fondo, non si riesce a trovare alcun movente. C’era uno scrittore che diceva: “bisogna recuperare l’odio”. Certo, è un sentimento negativo, ma almeno è un sentimento. Ora i ragazzi invece di ribellarsi con il mondo fuori si autodistruggono, si drogano.
Il fatto è che sono esclusi dalla società, non sono coinvolti nella politica, perché questa non riesce più ad appassionare. Ai giovani arrivano solo messaggi di paura: nessuno parla con loro utilizzando un linguaggio che li faccia sentire vitali nel corpo della società civile. Quello è il deterrente della droga, non il divieto.


FOTO: Roma, 1960. Con il periodo della dolce vita nasce contestualmente
la figura del ‘paparazzo’

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