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Marzo/2010 - Articoli e Inchieste
Trent’anni dopo
Non si può tornare indietro
di Eleonora Fedeli

La fiction di Marco Turco ha
riportato l’attenzione sulla figura
del grande psichiatra veneziano
che ha saputo trasformare i pazzi
in uomini. Una storia carica di forza
e di speranza, che racconta
di una società diversa in cui
è possibile convivere con l’altro

«Negli ospedali psichiatrici è d’uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire, nemmeno per andare al gabinetto. In caso di necessità l’infermiere sorvegliante interno suona il campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni. La cerimonia è così lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto. Questa risposta del paziente ad una regola disumana, viene interpretata come un «dispetto» nei confronti del personale curante, o come espressione del livello di incontinenza del malato, strettamente dipendente dalla malattia». Con questa immagine si apre il saggio Le istituzioni della violenza, scritto da Franco Basaglia nel 1968, dopo sette anni di direzione del manicomio di Gorizia. In esso lo psichiatra veneziano racconta dei trattamenti brutali ai quali venivano sottoposti i pazienti psichiatrici, come la «strozzina», un sistema molto rudimentale di far perdere coscienza al malato, soffocondolo con un lenzuolo bagnato. Si racconta di persone che giacciono immobili nello stesso letto, in uno stato catatonico, di metodi che rasentano la tortura, come quello per mezzo del quale l’infermiere notturno di turno, utilizzando il malato come una clessidra umana, si garantiva di essere svegliato ogni mezz’ora per poter timbrare la sua scheda di presenza. E’ interessante notare che questi macabri aneddoti siano intermezzati da altri esempi di violenza: quello della maestra d’asilo che, per non essere disturbata mentre lavora a maglia, obbliga i bambini a tacere minacciandoli di restare ore con le braccia alzate; oppure quello dei genitori che sfogano la propria frustrazione su dei figli che non soddisfano le loro aspirazioni competitive, costringendoli ad essere meglio degli altri e vivendo come un fallimento la loro diversità. Fin da subito, quindi, si capisce che il manicomio non è l’unica istituzione della violenza: la società ne produce in continuazione, sotto apparenze diverse ma con la stessa intenzione, quella di occultare i nostri “fratelli deviati”. I manicomi, infatti, riprendendo la suggestiva immagine utilizzata da Sergio Zavoli in un suo documentario, erano i “giardini di Abele”, luoghi apparentemente rassicuranti in cui la società rinchiudeva ciò che non voleva vedere, il suo lato oscuro, i suoi scarti.
A spalancare nuovamente le porte di queste istituzioni della violenza è stato Marco Turco, che con la sua fiction non solo ha saputo descrivere con precisione ed efficacia le pratiche di punizione che venivano inflitte ai malati in nome della scienza psichiatrica, ma è riuscito a rendere con estrema commozione il senso di miseria, di degrado, di abbandono e di spersonalizzazione che si respirava nei manicomi. Altro aspetto messo ben in evidenza dallo sceneggiato televisivo è il significato discriminante di queste strutture: per la follia dei ricchi, infatti, esistevano le cliniche private, in cui i malati non solo non erano automaticamente etichettati come «pericolosi a sé e agli altri e di pubblico scandalo», ma venivano tutelati dal rischio di essere «destorificati», cioé separati dalla loro realtà. Il ricovero “privato”, infatti, non interrompeva per sempre il continuum dell’esistenza del malato, né aboliva in maniera irreversibile il suo ruolo sociale: superato il periodo critico, egli poteva essere reinserito nella società.
Franco Basaglia parte proprio da qui: dalla constatazione che la psichiatria a un certo punto aveva messo il suo sapere a disposizione di una società che non vuole farsi carico dei suoi “figli problematici” e dei loro disagi. Egli propone una soluzione opposta: l’accettazione da parte di questa stessa società di quel problema, da sempre inquietante, che è la follia. Questa, secondo Basaglia, «è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come è la ragione. Il problema che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una neuroscienza, la psichiatria, per tradurre la “follia” in “malattia” allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’irrazionale».
Nel momento in cui entra il manicomio, il folle perde la sua soggettività, diventando puro oggetto, privato del proprio passato e dei ricordi, dei propri abiti e dei propri effetti personali: per questo l’approccio basagliano prevede che gli operatori sanitari si tolgano i camici e i loro orpelli istituzionali. Il loro potere medico, infatti, è nullo in un luogo che assomiglia in tutto e per tutto a un lager, in cui le anime sono svuotate, le bocche mute e gli occhi persi chissà dove. Il medico e il paziente, allora, devono trovarsi in una situazione di parità, in cui sono entrambi soggetti: solo allora, quando il folle diventa uomo, si può costruire un rapporto di scambio e di reciprocità. Si scoprirà che, in quanto uomo, il malato ha dei bisogni, gli stessi del medico che lo cura: una famiglia, del denaro, qualche risposta. L’utopia basagliana consiste proprio in questo: nel trasfomare il manicomio in un laboratorio in cui le relazioni da “oggettivanti” divenissero “umane”, attraverso la creazione di servizi di salute mentale diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, attività alle quali partecipavano maestri, educatori e attori.
Un’utopia che ha portato alla legge 180, entrata in vigore il 13 maggio 1978. Due anni dopo Basaglia si spense nella sua casa di Venezia, troppo presto per veder realizzato il suo sogno avveniristico. Era in ogni caso riuscito a far passare un riforma assolutamente rivoluzionaria, alla base della quale c’è l’idea che è possibile far recuperare alle persone con problemi mentali quel rapporto col mondo che il manicomio esclude. Un anno prima di morire aveva scritto: «Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo “vincere”, perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo “convincere”. Nel momento in cui convinciamo, vinciamo, cioé determiniamo una situazione da cui sarà più difficile tornare indietro». E noi ce lo auguriamo, che da questa grande lezione non si torni mai indietro.


___________________________________

Chi era Franco Basaglia?

Franco Basaglia è nato a Venezia l’11 marzo del 1924. Dopo tredici anni di lavoro all’università di Padova, nel 1961 aveva vinto il concorso di direttore nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove avviò l’esperienza di apertura del manicomio divenuta nota attraverso due libri, Che cos’è la psichiatria? (Einaudi 1967) e L’istituzione negata (Einaudi 1968), che ebbe un impatto straordinario: otto edizioni di cui due nel corso del ‘68, sessantamila copie vendute in Italia di cui cinquantamila dal '68 al '72, premio Viareggio per la saggistica, rapidamente tradotto in francese, tedesco, olandese, finlandese. Nello stesso anno uscì un altro libro di grande successo, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Einaudi) che Basaglia aveva curato con Franca Ongaro (1928 –2005), sua moglie dal 1953 e collaboratrice nel gruppo di Gorizia. Con lei Basaglia scriverà gran parte dei lavori degli anni successivi e condividerà l’impegno nei movimenti degli anni ’70. Nel 1969 Basaglia fu invitato come visiting professor al Community Mental Health Centre del Maimonides Hospital di New York, e da quella esperienza scrisse Lettera da New York. Il malato artificiale ( Einaudi 1969) e La maggioranza deviante ( Einaudi, 1971 ). Per un anno, nel 1970, diresse l’ospedale psichiatrico di Parma, ma l’esperienza si chiuse tra difficoltà burocratiche e dissidi politici, e alla fine dell’anno successivo andò a dirigere l’ospedale di Trieste, dove riuscì a portare avanti il progetto di chiudere il manicomio e di dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute mentale. Negli anni di Trieste Basaglia scrisse molti saggi e una ricerca collettiva, Crimini di pace, cui partecipano tra gli altri Michel Foucault, Erving Goffman, Ronald Laing, Noam Chomsky e Robert Castel e che testimonia dell’ampiezza del suo impegno intellettuale, in una fase in cui anche anima il movimento di Psichiatria democratica e il Réseau, la rete europea di psichiatria alternativa. Il 13 maggio del 1978 il parlamento approvò la riforma psichiatrica, nota come “legge 180” anche sei mesi dopo viene inserita negli articoli 33, 34, 35 e 64 della legge di riforma sanitaria n.833. Basaglia era a Berlino, in uno dei suoi numerosi viaggi, quando si sentì male la prima volta, dopo una conferenza nell’aula magna della Freie Universitaet. Erano i segni della malattia che lo porterà alla morte il 29 agosto nella sua casa di Venezia.

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