L’uccisione di Enzo Fragalà, penalista
e politico molto impegnato, tre volte eletto
alla Camera, pone vari interrogativi, non solo
sull’identità del killer, ma soprattutto
sui motivi di questo delitto
Ora i penalisti di Palermo hanno paura. Hanno talmente paura che l’avvocato Nino Lo Presti ha consigliato a tutti di richiedere il porto d’armi per difesa personale. Una paura legittima dopo il brutale omicidio dell’amico e collega Enzo Fragalà, massacrato a sprangate la sera di martedì 23 febbraio e morto dopo tre giorni di agonia: un fatto senza precedenti, nel capoluogo dell’isola; inquietante. Così come inquietante, nel novembre del 1995, risultò l’omicidio di Serafino Famà, il penalista ammazzato dalla mafia a Catania, la città natale di Fragalà.
Aveva 61 anni, Enzo Fragalà, da sempre diviso fra toga, politica e docenza universitaria; era sposato con Silvana Friscia, figlia di un generale dei Carabinieri, e padre di due figli, Marzia e Massimiliano, entrambi avvocati. La sera del 23 febbraio un uomo lo ha atteso in via Turrisi Colonna, acquattato nei pressi del suo studio legale, a due passi dal Tribunale, e lo ha aggredito alle spalle con una spranga colpendolo ripetutamente al capo e in altre parti del corpo, poi, al sopraggiungere di alcuni testimoni, si è allontanato verso una strada adiacente dove probabilmente lo attendeva un complice in moto, portando con sé l’arma del delitto. Tre testimoni, due giovani donne e un’anziana, hanno descritto un uomo alto circa un metro e novanta, robusto, atletico, che indossava un casco integrale nero e un giubbotto dello stesso colore.
«Non riesco a capire il gesto: sembra una punizione, ma lui non meritava questa punizione», ha dichiarato la moglie di Fragalà il giorno dopo l’aggressione, quando ancora l’avvocato era sospeso tra la vita e la morte. Procura e carabinieri privilegiano il movente professionale – la “vendetta” di un cliente scontento – ma non escludono l’ipotesi che possa trattarsi di un delitto di mafia camuffato per depistare e non creare clamore. Il primo indagato, poi scagionato, era un ex assistito del penalista; il secondo è invece un picciotto di borgata legato ai boss di Porta Nuova, il mandamento mafioso che comprende il luogo del delitto.
Prima di addentrarci fra le ipotesi che potrebbero avere armato la mano dell’omicida, vediamo di ricostruire chi era, chi è stato Enzo Fragalà.
La carriera
All’inizio fu il Fuan, l’associazione degli studenti universitari emanazione del Msi cui Fragalà aderì quando s’iscrisse a Giurisprudenza e, in poco tempo, ne diventò presidente. Dopo la laurea, al Fuan si sostituì il partito di Almirante, corrente Destra nazionale, capeggiata da Pino Romualdi, e presto divenne consigliere comunale. L’elezione coincise con l’inizio di una brillante carriera di penalista, ma anche con i primi passi di assistente di Giuseppe Tricoli (esponente del Msi siciliano) alla cattedra di Storia Contemporanea alla facoltà di Scienze politiche dell’Ateneo palermitano. Durante il primo maxiprocesso a cosa nostra era fra i legali dei mafiosi, ma non ha mai difeso boss di prima grandezza.
Nel ’94 arriva la grande occasione: lo svelamento di Tangentopoli e di Mafiopoli ha smantellato i vecchi partiti, il “nuovo che avanza” ha il “sorriso di plastica” di Silvio Berlusconi, la rete organizzativa di Publitalia di Marcello Dell’Utri e Gianfranco Micciché, la capacità di penetrazione e di persuasione delle reti televisive Fininvest, il consenso della mafia (a Palermo, le bandiere di Forza Italia sventolavano dai balconi dei boss, raccontano le cronache dell’epoca); Enzo Fragalà, in quota ad An, viene candidato ed eletto alla Camera, dove entra a far parte del comitato per i procedimenti d’accusa, della commissione Giustizia e della commissione bicamerale d’inchiesta sul terrorismo e le stragi. Rieletto nel ’96 (l’anno dei 61 a 0), viene confermato in commissione Stragi, dalla commissione Giustizia passa agli Affari Costituzionali ed è anche membro della commissione speciale della Camera finalizzata all’esame dei progetti di legge per prevenire la corruzione. Nel 2001 arriva la terza elezione: torna in commissione Giustizia, dov’è capogruppo di An come nella neonata commissione d’inchiesta sul dossier Mitrokhin; torna anche a far parte del comitato per i procedimenti d’accusa. Nel 2006 non è ricandidato e l’anno successivo torna in Consiglio comunale.
Dagli incarichi parlamentari, si evince che Fragalà non sia stato uno dei tanti peones che affollano la Camera; dalla sua attività, poi, emerge con enorme chiarezza: decine di disegni di legge presentati e, in commissione Stragi, ben undici relazioni di minoranza: un vero stacanovista. Noto per le sue posizioni “garantiste” in tema di giustizia, durante i tre mandati parlamentari si è pubblicamente distinto per le continue polemiche con la Procura di Palermo, all’epoca retta da Gian Carlo Caselli, sull’utilizzo dei cosiddetti pentiti: memorabile lo scontro su Balduccio Di Maggio, l’uomo del bacio fra Riina e Andreotti, tornato in Sicilia a metà anni 90 per regolare i conti coi suoi nemici a colpi di revolver.
Trame e stragi
Dalle dichiarazioni e dagli atti parlamentari risulta evidente come Enzo Fragalà, benché fosse docente universitario di Storia Contemporanea, fosse attivamente impegnato a riscrivere la storia recente d’Italia: il tentato golpe del generale De Lorenzo? Inventato dalla propaganda del Kgb, l’ormai disciolto servizio segreto dell’ex Unione Sovietica. Il golpe Borghese? Idem: inesistente, inventato dal Kgb. La strage di piazza Fontana? Opera dell’anarchico Pietro Valpreda, con la regia del Kgb; Giuseppe Pinelli ne era a conoscenza e, messo alle strette dalla Polizia, preferì suicidarsi.
Il terrorismo brigatista italiano? Un fenomeno sovranazionale riconducibile all’Urss, in cui spiccava «la figura di Gian Giacomo Feltrinelli [morto nel 1972, n.d.r.], uno dei generali del terrorismo mondiale, personaggio di altissimo livello che ha impresso il decisivo e forse definitivo impulso al progetto di integrazione dei vari movimenti ed organizzazioni eversive internazionali».
La strage di Ustica? «Un incidente aereo trasformato in una gigantesca mistificazione, in un enorme tentativo di truffa». La strage di Bologna? «Una ritorsione nei confronti dell’Italia» per la condanna ad alcuni anni di carcere di Abu Anzeh Saleh, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp). Saleh era in contatto col terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, «legato a Stasi e Kgb», e sarebbe stata proprio l’organizzazione capeggiata da Carlos a mettere la bomba alla stazione. Così come quella sul treno di Natale del 1984.
E la strage di Capaci è opera dei boss mafiosi? Ma no: «Cosa nostra è un’organizzazione militare della quale i contadini di Corleone potevano avere idea solo andando al cinema». Non sappiamo, però, se anche in questo caso ci sia lo zampino del Kgb.
Ad esclusione di quest’ultima opinione, espressa nel 2001, conversando coi giornalisti, a margine di un convegno, tutte le altre «verità» sono contenute in relazioni parlamentari firmate col senatore di An Alfredo Mantica. I due, inoltre, insieme all’ex radicale Marco Taradash e al forzista Ruggero Manca, sono firmatari della relazione di minoranza in commissione Stragi “L’ombra del Kgb sulla politica italiana”, il cui succo consiste nel prendere tutte le trame italiane del dopoguerra e sostituire alla Cia il Kgb. Resta da capire come mai partiti di indubitabile fede atlantica come la Democrazia cristiana, il Partito repubblicano e quello liberale si siano resi complici dei comunisti nel celare agli italiani tutte le nefandezze dei Servizi sovietici lasciando invece intravedere le complicità degli spioni d’oltreoceano e di quelli nostrani con l’eversione neofascista italiana e con la mafia a partire dello sbarco angloamericano del 1943 fino alla P2.
«Promesse
non mantenute»
Il 7 settembre 2002 il quotidiano la Repubblica dà ampio risalto a un rapporto del Sisde che considera “a rischio attentati” da parte della mafia sette avvocati siciliani eletti in Parlamento nelle liste del centrodestra, nonché Cesare Previti e Marcello Dell’Utri; la notizia era vecchia di almeno un mese e mezzo (la Stampa aveva dedicato una pagina allo stesso dossier, il 26 luglio) ma succede un putiferio: si strilla alla “fuga di notizie”, i ministri Frattini e Pisanu annunciano la presentazione di una «denuncia all’Autorità giudiziaria», mentre l’ex ministro Previti accusa il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari di volere addirittura «armare la mano di qualcuno per farmi fuori».
Era successo che, in occasione del decennale della strage di Capaci, il consiglio dei ministri aveva approvato un d.d.l. per estendere all’intera legislatura la durata del 41/bis, il cosiddetto carcere duro, introdotto nell’ordinamento penitenziario dopo le stragi siciliane dell’estate del ’92 e prorogato periodicamente per decreto. La cosa non era piaciuta ai boss detenuti sottoposti al 41/bis che, il primo luglio, avevano avviato uno sciopero della fame. La protesta era partita dal carcere di Marino del Tronto, dove era rinchiuso Totò Riina, e si era via via propagato agli altri penitenziari italiani.
Il 12 luglio, durante un processo in corso a Trapani, Leoluca Bagarella, cognato di Riina, lesse in teleconferenza, dal carcere dell’Aquila, «una petizione» contro il carcere duro «a nome di tutti i detenuti» ristretti in sciopero: «Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche», esordì. E concluse con presunte «promesse non mantenute».
Negli stessi giorni, mentre alcuni esponenti radicali particolarmente sensibili «alle condizioni inumane» del 41/bis erano in tournée nei penitenziari italiani, dalle carceri partirono alcune lettere firmate dai svariati boss di cosa nostra, indirizzate all’allora segretario radicale Daniele Capezzone (oggi esponente del Pdl) e, per conoscenza, a esponenti delle Istituzioni, dei partiti e agli organi d’informazione: «E dove sono gli avvocati delle Regioni meridionali in cui più sono i detenuti sottoposti a questo regime – lamentavano i carcerati –, che hanno difeso molti degli imputati di mafia, e che ora siedono negli scranni parlamentari, e sono nei posti apicali di molte Commissioni preposte a fare queste leggi. Loro erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41/bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa».
Il Sisde, all’epoca diretto dal generale Mario Mori, indicò, dicevamo, sette avvocati siciliani come potenziali bersagli. Fra questi c’era Fragalà, che, nel merito, fu intervistato dal settimanale Avvenimenti: «Quella di Bagarella è una dichiarazione di resa, non una minaccia. I boss sono disponibili a sciogliere cosa nostra e a consegnare armi e latitanti. Serve una pacificazione nazionale, come in Sudafrica». Queste parole, attribuite a Fragalà, provocarono reazioni indignate di molti esponenti politici; l’onorevole negò di averle pronunciate e, di fronte alla conferma del settimanale, annunciò la presentazione di una querela. Ma restò solo un annuncio: ad Avvenimenti non è mai arrivata.
Qualche mese dopo, mentre il Parlamento e il Paese erano attraversati dalla possibilità di un indulto per i detenuti, invocato persino dal Pontefice, l’onorevole Enzo Fragalà e il suo collega avvocato palermitano Nino Mormino (vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, anch’egli fra i soggetti “a rischio”, secondo il Sisde), presentarono un emendamento al d.d.l. sull’indulto che prevedeva potessero beneficiarne anche i mafiosi. L’emendamento non passò e Fragalà, sconfessato dal suo stesso partito, si dimise da capogruppo di An in commissione Giustizia. Giuseppe Ayala, ex pm nel primo maxiprocesso di Palermo e all’epoca senatore ulivista, definì quello di Fragalà e Mormino «un emendamento salvavita».
L’ultima arringa
Nel 2006 né Fragalà né Mormino sono stati ricandidati ed entrambi sono tornati a dedicarsi a tempo pieno, o quasi, all’attività forense: Mormino, fra gli altri, difende Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri; mentre per Fragalà non ci sono nomi eccellenti. È proprio fra i suoi assistiti che oggi investigatori e inquirenti cercano il killer del penalista.
La mattina di martedì 23 febbraio, il legale aveva pronunciato parole appassionate per una ragazza che con lui si era costituita parte civile contro il patrigno che la faceva prostituire nei salotti della Palermo bene. Fragalà aveva ribadito le accuse della giovane verso alcuni insospettabili clienti che organizzavano incontri a luci rosse nei loro studi professionali, negli yacht, nelle case di villeggiatura. Uno di loro è stato condannato col patrigno, gli altri restano ancora senza nome. Le indagini sono affidare al sostituto procuratore Carlo Lenzi, che indaga anche sull’omicidio del penalista col collega Nino Di Matteo, della Dda, coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia.
La presenza di Di Matteo fa intuire che, malgrado si privilegi la pista professionale, non si sottovaluta quella mafiosa. Ché negli ultimi tempi Fragalà aveva difeso prestanome dei mafiosi e imprenditori vittime dei soprusi di cosa nostra che avevano collaborato con la giustizia denunciando i boss.
Il governo e il 41/bis
Più di un giornale, dopo l’omicidio, ha ricordato il dossier del Sisde del 2002. Oggi, come allora, il 41/bis è al centro del dibattito. La scorsa estate il governo ha inasprito la durezza di un provvedimento che, negli anni scorsi, era stato parecchio annacquato; un rigore denunciato dal boss Giuseppe Graviano (uno dei firmatari delle lettere del 2002) nel processo Dell’Utri e sottolineato dalle minacce anonime di morte arrivate ai ministri Alfano e Maroni, responsabili della riforma legislativa. Fra i minacciati degli ultimi mesi, inoltre, c’è anche Renato Schifani, oggi presidente del Senato, ieri fra i soggetti “a rischio” indicati dal Sisde di Mori.
Verrebbe da pensare che i boss, stanchi di «promesse non mantenute» e di una maggioranza parlamentare che continua a sfornare soprattutto leggi pro-Berlusconi («Iddu pensa sulu a iddu», Berlusconi pensa solo a se stesso, secondo i mafiosi), possano avere deciso di inviare un “messaggio” al centrodestra ma che, per evitare il clamore di un omicidio “firmato”, possano avere deciso di colpire uno di quegli avvocati-parlamentari non rieletti. E Fragalà, in quest’ottica, era il bersaglio ideale, ché l’altro, Mormino, essendo il legale di Cuffaro e Dell’Utri, è troppo visibile per chi non intende sollevare polveroni. Per questo è stato «punito» (parole della vedova) Enzo Fragalà? Per le «promesse non mantenute» da esponenti del centrodestra e per avere accettato di difendere clienti che hanno inguaiato qualche boss?
Ipotesi, solo ipotesi. Intanto magistrati e Carabinieri indagano, gli avvocati hanno paura e Palermo, tanto per non cambiare, si interroga su cosa accadrà nell’immediato futuro.
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