L’importanza che l’acqua
ha avuto nella storia
della civiltà oggi sembra
ritrovare sempre più spazio
nelle cronache. Una breve storia
delle problematiche e fenomeni legati
a un patrimonio e una risorsa anche italiana
Durante un viaggio in Africa, nel 1908, Winston Churcill si fermò sulle rive settentrionali del lago Vittoria a osservare le acque del secondo lago più grande del mondo precipitare dalle Owen Falls, il fiume più lungo del mondo. In seguito, fissando i suoi pensieri su un diario, scrisse: “Una simile potenza che va sprecata. [...] Una simile leva per controllare le forze naturali dell’Africa che nessuno impugna, può soltanto contrariare e stimolare l’immaginazione. E che spesso far sí che l’eterno Nilo inizi il suo viaggio tuffandosi in una turbina”.
Dopo due guerre mondiali e la Grande depressione, nel 1954, quando Churcill era primo ministro per la seconda volta, le acque del Nilo si tuffarono nelle turbine, dimostrando come un’idea di un uomo potente avesse la forza di diventare realtà.
Oggi, le cose non sono molto differenti. Idee di uomini più o meno potenti rischiano di modificare processi naturali ed economici complessi e quindi anche la vita di tutte le persone.
In un periodo in cui l’acqua è diventata protagonista delle cronache, basti pensare alle piogge che hanno contribuito ad aumentare le frane in Calabria e in Sicilia, oppure il disastro ecologico che ha coinvolto il Po e il temuto tsunami che doveva colpire il Cile dopo il tremendo terremoto, sarebbe utile saperne di più. In fondo, lo scopo di chi scrive e informa è anche quello di evitare la profezia di Benjamin Franklin: “Quando il pozzo si secca capiamo il valore dell’acqua”.
L’uomo ha bisogno dell’acqua almeno quanto ha bisogno dell’ossigeno dell’atmosfera e dei frutti dei campi. Per la maggior parte della sua storia ha avuto bisogno dell’acqua solamente per bere. Ma da qualche millennio a questa parte se ne è servito per irrigare i campi, far defluire i rifiuti, lavare se stesso e le sue cose, e infine, più recentemente, per far funzionare le macchine e permettersi lussi. Con gli sviluppi dell’industrializzazione contemporanea, l’elevato consumo di energia e l’urbanizzazione, le società hanno fortemente accresciuto le loro capacità di convogliare l’acqua. Nello stesso tempo, però, sono aumentati anche consumo, spreco e inquinamento. In un libro di quasi 400 pagine, intitolato Un pianeta senz’acqua (uscito per il Saggiatore), Fread Pearce, dopo un’indagine lunga quasi duemila giorni, ci spiega che l’acqua che abbiamo a disposizione sulla Terra si riduce rapidamente. Ne usiamo sempre di più, ne abbiamo, ne avremo, sempre meno. La gestione dell’acqua, insomma, è un problema politico e tecnico di importanza fondamentale non sempre percepito come tale.
Nella storia del consumo dell’acqua ci sono alcune cose che cambiano, ma una rimane sempre la stessa. L’acqua è potere, oggi come ieri. Storicamente, la maggior parte delle società e degli imperi più duraturi erano basati sul controllo delle acque, in particolare quella dei fiumi.
L’Italia, in particolare, è sempre stato un Paese piuttosto povero di risorse minerarie, ma ricco di acque. La storia del nostro Paese dovrebbe dunque confrontarsi, magari con un’ottica ambientale, con questa caratteristica dell’ambiente fisico. Per onor di cronaca, infatti, va ricordato che nella nostra Italia, l’acqua non è sempre e solo stata vista come risorsa. I nostri connazionali, ieri come oggi, hanno anche combattuto contro gli eccessi di acqua. La forma più significativa di questa lotta ha preso il nome di “bonifica”. L’acqua ha comunque costituito una risorsa importante per l’agricoltura, dando vita a sistemi produttivi elaborati, e talvolta assai evoluti, che hanno fatto la storia di intere regioni. Regioni, che alla fine dell’Ottocento, hanno visto nell’acqua non solo una risorsa di fonte di energia biologica (agricoltura, pesca), ma anche una fonte importantissima di energia meccanica. La storia dell’industria nel nostro Paese è strettamente legata a quella dei suoi corsi d’acqua. L’acqua è stata la risorsa energetica di base per l’industria per tutto l’Ottocento, e anche oltre, sotto forma di energia elettrica: fino agli anni sessanta del Novecento. L’Italia ha soddisfatto la domanda interna di energia soprattutto grazie alle riserve idriche accumulate in grandi bacini di ritenuta; le dighe, poi, hanno trasformato il paesaggio e portato grandi cambiamenti nella vita sociale, economica e culturale di campagne e città.
Le lotte per il potere - politico ed elettrico - hanno rimescolato acqua, economia e società. Se prendiamo ad esempio il bacino del Po, che occupa circa un sesto della Penisola e ospita circa un terzo della sua popolazione, e ne studiamo la lunga e faticosa storia di imbrigliamento e controllo, possiamo contemporaneamente leggere la storia dell’intero Paese. “I coloni romani - scrive McNeill nel suo celebre Qualcosa di nuovo sotto il sole, storia dell’ambiente nel XX secolo -, i monaci medievali, i principi del Rinascimento si diedero da fare per cercare di imbrigliare in qualche modo le acque serpeggianti del bacino. Nonostante tutti questi sforzi, nel 1890 la fascia di terra compresa tra le Alpi e gli Appennini era ricca di acquitrini, povera di strade e di industrie, infestata dalla malaria nei mesi estivi”. L’industrializzazione che coinvolse l’Europa, però, cercò di porre rimedio a questi inconvenienti anche in Italia. Negli anni novanta dell’Ottocento, qualche visionario lombardo credette di intravedere il “carbone bianco”, ossia l’energia idroelettrica, nei torrenti alpini che si gettavano nel Po. Nel giro di qualche decennio l’entusiasmo dei privati e il fondamentale aiuto statale trasformarono le zone attraversate dal Po nel più grande distretto industriale del Paese. Milano fu la seconda città del mondo a elettrificare il sistema di illuminazione urbano. “Negli anni compresi tra il 1901 e il 1927 - scrive ancora McNeill - i tre quarti dei lavoratori dell’industria lavoravano nel triangolo elettrificato compreso tra Milano, Torino e Genova. [...] L’affermazione dell’Italia quale potenza europea e imperiale dopo il 1890 si fondò su questa elettrificazione. Industrie strategiche quali la metallurgica, la ferroviaria, la cantieristica navale, l’aeronautica e altre vennero create nell’Italia settentrionale prima, durante e, soprattutto, dopo la Prima guerra mondiale”. Se questo non è potere che cos’è?
Nel XX secolo, l’uomo ha modificato l’idrosfera come mai in precedenza. Ha usato e deviato le acque in misura inconcepibile in passato. Secondo una stima, alla fine del XX secolo, il consumo diretto di acqua dolce da parte dell’uomo ammontava al 18% dell’acqua che scorreva complessivamente sulle terre emerse; della quale, inoltre, si appropriava in un modo o nell’altro nella misura del 54%. Tale sfruttamento, che ha portato nelle terre aride l’intensificarsi dell’irrigazione, ha creato problemi con la stessa rapidità con la quale ne ha risolti. Il ricorso alle acque profonde si è trasformato talvolta in una specie di attività mineraria, il drenaggio delle acque ha ampliato la presenza umana nelle aree intorno ai fiumi aumentandone l’inquinamento e, in alcuni casi, gli scontri.
Nel lontano passato, soltanto le società in grado di reclutare eserciti di lavoratori hanno potuto determinare grandi cambiamenti nell’idrosfera. Oggi, ai grandi eserciti si sono sostituiti armamenti tecnologici e pesantissime pressioni delle lobby, veri e propri ricatti fatti a Stati e popolazioni. Lo raccontava in modo chiaro Giovanni Porzio in un’inchiesta del 2006 del periodico Panorama. “Gli analisti della C.I.A. e gli esperti della Banca mondiale non hanno dubbi: se le guerre del Novecento sono state combattute per il petrolio, quelle del futuro avranno come oggetto del contendere l’acqua”. Il fatto poi che “i tre quinti dei 263 bacini idrici internazionali siano privi di trattati che ne regolino la gestione” non aiuta a semplificare le problematiche.
“Le zone in cui lo stress idrico minaccia di trasformarsi in conflitto armato - scrive Porzio - sono quelle dove le riserve sono più scarse, come in medio Oriente, e quelle dove laghi e fiumi sono condivisi da più Paesi: i bacini del Nilo, del Niger, dello Zambesi, del Tigri e dell’Eufrate, dell’Indo, dal Gange, del Mekong. I contenziosi in corso sono una cinquantina. E in due occasioni, sono sfociati in rappresaglie: in Sri Lanka i guerriglieri tamil hanno bloccato una diga nel distretto di Trincomalee provocando la ritorsione dell’esercito regolare (oltre 500 morti); e in Libano i caccia israeliani hanno approfittato dell’offensiva contro Hezbollah per distruggere i canali che, dal fiume Litani, irrigano la pianura costiera e la valle della Bekaa.
L’area più esplosiva è da 40 anni il bacino del Giordano, il cui livello cala a ritmi preoccupanti: l’acqua è uno dei principali problemi che ostacolano la conclusione di una pace tra i paesi della regione. Già nel 1964 Israele aveva dirottato il corso del fiume in un sistema di tubature, il National Water Carrier, che oggi trasporta mezzo miliardo di metri cubi l’anno, si estende da Haifa al deserto del Negev, abbevera le aree urbane di Gerusalemme e Tel Aviv, alimenta gli acquedotti degli insediamenti nei Territori occupati.
La guerra dei Sei giorni fu soprattutto un conflitto per le sorgenti del Giordano: le dispute sui confini erano di estrema importanza - ha scritto Ariel Sharon nell’autobiografia - ma quella sull’acqua era una questione di vita o di morte. In meno di una settimana, con la conquista del Golan siriano e del bacino fluviale, lo Tsahal si era assicurato il controllo delle risorse idriche contese, che oggi rappresentano un terzo del consumo israeliano e il 90% del fabbisogno delle colonie ebraiche”.
Non sono solo i conflitti l’unico problema, le acque dei fiumi della Terra si stanno prosciugando, e così i laghi. Abbiamo considerato le riserve idriche inesauribili, sbagliando. Un classico esempio accademico è la storia di Chicago. “Città piuttosto recente - racconta McNeill - sulle rive di uno dei più grandi laghi del mondo. Anch’essa ebbe tuttavia dei problemi d’acqua in concomitanza col grande sviluppo verificatosi nel corso del XX secolo. Per i rifiuti, la sua popolazione utilizzava il Lago Michigan e il Chicago River, che vi affluisce, contaminando così la propria riserva d’acqua. Nel 1848, gli scarichi nel lago e nel fiume dei 30.000 abitanti di Chicago non creavano gravi problemi; ma in seguito al boom della città, dopo la Guerra di secessione, non fu più possibile mantenere i vecchi equilibri. Gli amministratori locali prolungavano sempre di più le tubature nel lago onde captare acqua non contaminata dalla città, la cui rapida crescita, però, rendeva puntualmente insufficiente tale prolungamento. [...] Soltanto nel biennio 1885-86, 90.000 abitanti della zona di Chicago, un 12% dei quali residenti in città, morirono per malattie originate dall’inquinamento delle acque. Nel quinquennio 1891-95, le febbri tifoidee colpivano annualmente circa 20.000 abitanti di Chicago. Queste endemie furono all’origine di uno dei più grandi progetti americani prima della costruzione del canale di Panama: nel 1900 il Chicago Metropolitana Sanitation District invertì il corso dei fiumi Chicago e Calumet, in modo che non riversassero più le loro acque nel serbatoio d’acqua potabile di Chicago, per defluire, invece, verso il fiume Illinois e, quindi, il Mississippi. Insomma, gli scarichi di Chicago, di cui facevano parte, tra l’altro, i rifiuti di uno dei più grandi parchi bestiame al mondo, smisero di costituire una minaccia per gli abitanti della città, e imboccare la via (acquatica) di Joliet, St Louis, New Orleans. Le endemie di tifo e di altre malattie originate dalle acque inquinate diventarono un ricordo”. Ma quello che andava bene agli abitanti di Chicago non sempre andava altrettanto bene ai loro vicini. E se, cari lettori, pensate che questa storia appartenga esclusivamente al passato vi sbagliate. Il caso del Lago d’Aral in Asia centrale ne è il simbolo più emblematico. Il lago fino a 40 anni fa copriva un’area grande quanto il Belgio e Paesi Bassi, con oltre 1.000 km cubi d’acqua. Ora è un deserto, le acque dei due fiumi che lo alimentavano sono state deviate per irrigare le piantagioni di cotone. L’Onu ha definito questa storia “la più grande catastrofe ambientale del XX secolo”. E di queste catastrofi ne sono piene le cronache di tutti i continenti.
Il compito di ogni cittadino, anzi il dovere di ogni italiano, a prescindere dalla propria posizione sociale e culturale, è quello di ricercare sì un discreto livello di benessere e salute ma lasciando contemporaneamente la possibilità di farlo anche ai propri figli. Noi dobbiamo impedire che disastri ecologici ed economici come quello avvenuto al lago Aral avvengano nel nostro territorio. Secondo Paolo Rumiz - ho letto i suoi articoli con passione e rispetto - la situazione nel nostro Paese è simile a quella americana degli anni Trenta raccontata nell’esempio di Chicago. “È come negli anni Trenta: crisi del capitalismo, opposizione inesistente, criminalità diffusa. Ma con in più (e in peggio) la desertificazione dei territori, lo spopolamento della montagna. Il “Paese profondo” si è talmente indebolito che oggi l’atteggiamento predatorio che abbiamo rivolto prima verso la Libia o l’Etiopia e poi verso l’Est Europa, può essere rivolto verso l’Italia medesima senza il rischio di una rivoluzione. Anche noi diventiamo discarica, miniera, piantagione. E anche da noi i territori deboli sono lasciati completamente soli di fronte ai poteri forti. Come le tribù centro-africane”.
Il nostro Paese, insomma, non ha più forse la forza di un tempo, la nostra economia è debole, il debito pubblico ci strangola e le nostre forze - giovani preparati (a spese di tutti) e intelligenti - emigrano in cerca di fortuna e riconoscimento e i nostri politici quotidianamente perdono la loro autorevolezza. Queste cause, unite ad altri complicati processi economici e sociali che attraversano il mondo e l’Europa, rischiano (uso il termine rischiano per non essere troppo catastrofico) di rendere un bene comune come l’acqua una merce. Il termine merce chiama in causa multinazionali potenti come la Suez, Vivendi, Impresilo e RWE che sperano di approfittare dell’aumento del 15% dei consumi nei prossimi 20 anni.
Le forti multinazionali vedono nel nostro paese un mercato florido e facilmente “penetrabile”. Siamo, noi italiani, troppo igienisti e troppo spreconi. Ogni cittadino, in media, consuma circa 250 litri di acqua al giorno. Uno dei consumi procapite più alti del pianeta, siamo dietro solo al Giappone, Canada, Usa e Australia. Un consumo così alto non è affiancato da una efficienza ed omogeneità del sistema di distribuzione. Il “sistema acqua” in Italia coinvolge 63mila dipendenti, 291mila chilometri di rete che perde in media un terzo dell’oro blu che trasporta e ha, sempre in media, 32 anni di vita.
Alla quantità d’acqua trasportata dagli acquedotti, con relative perdite, deve essere sommata quella usata in agricoltura e nelle industrie. Basti ricordare che per produrre un litro di benzina sono necessari 10 litri d’acqua, e per assaporare un hamburger da 200 grammi è indispensabile sacrificare 11mila litri di acqua. Ma il vero paradosso del nostro pPaese si riscontra nelle concessioni che noi, cittadini di buon cuore, rilasciamo quasi in forma gratuita ai 252 marchi di acqua minerale in commercio figli di 150 aziende che imbottigliano e vendono il nostro oro blu.
Il giornalista Maurizio Ricci, in un articolo scritto per Repubblica, ci racconta il meccanismo fornendo come esempio la prassi seguita dalla multinazionale svizzera Nestlè. “Nestlè e concorrenti pagano a noi, oggi, come collettività, l’acqua che finirà sugli scaffali del supermercato o dei bar gli stessi 60-70 centesimi a metro cubo che noi, singolarmente, paghiamo per l’acqua del rubinetto. A fare i conti, si finisce sommersi da virgole e zeri: nei 40 centesimi della bottiglia del supermercato, la materia prima, l’acqua, vale oggi, al massimo, 25 centesimi di centesimo. Praticamente invisibile. Compriamo acqua, ma in realtà paghiamo la plastica della bottiglia, il gasolio per trasportarla, gli spot per pubblicizzarla”. Ricci, proseguendo, ci spiega anche come la materia riguardante le concessioni sia stata modificata negli anni. “Fino a pochi anni fa, la materia era regolata da una legge del 1927, quando l’acqua minerale era il bicchiere che si andava a riempire alle terme. La concessione, dunque, si pagava in base agli ettari di terreno occupati per gli impianti. Spiccioli, anzi meno: da 5 a 60 euro per ettaro. Questo spiega come la Nestlè potesse pagare poco più dell’equivalente di 2.500 euro per imbottigliare la San Pellegrino (uno dei marchi più famosi al mondo) o 15mila euro per la Levissima. In totale, la Nestlè spendeva probabilmente meno di 50mila euro l’anno, in tutta Italia, per avere l’acqua, su cui realizzava un fatturato di 500 milioni di euro. Il Veneto, dove si imbottiglia un quinto dell’acqua minerale italiana, per un fatturato di 600 milioni di euro, ne incassa tuttora, dalla concessione per ettaro, solo 300mila.
La situazione è cambiata nel 2001, quando la riforma federalista ha dato alle Regioni la competenza sulle acque minerali”.
Secondo la tesi elaborata da Giuseppe Marino, però, a mettere le mani sulle redditizie concessioni sono stati pochi privati legati alla politica. “Solo sette gestioni su cento sono davvero affidate ad aziende private - spiega Marino - oltre la metà parte è rimasto, senza gara d’appalto, a società interamente pubbliche. La parte restante è costituita da società miste in cui il socio privato è spesso rappresentato dalle ex municipalizzate, dunque aziende che non sono estranee, ancora oggi, all’influenza della politica”.
L’idea centrale del libro - La casta dell’acqua - si concentra sulla futilità del dibattito tra gestione pubblica e privata dell’acqua. Il vero nodo tematico, secondo Marino, è l’assenza di regole e parametri che obblighino a una gestione sana dell’oro blu, e la mancanza di un controllore dotato di competenze e poteri di intervento per controllare chi ha in mano gli acquedotti e sanzionare disservizi e storture. “La riforma varata nel ’94 ha diviso l’Italia in 91 zone grosso modo corrispondenti alle province e affidato questo compito agli «Ato», una sorta di mini-parlamentini formati dai rappresentanti dei comuni della zona. Altre poltrone per politici locali - spiega Marino - che costano ai cittadini quasi 50 milioni di euro l’anno e si sono dimostrati incapaci di assolvere ai propri compiti. Nei consigli d’amministrazione delle società che avrebbero il compito di controllare ci sono esponenti della stessa maggioranza che nomina (e domina) gli Ato. E infatti, nonostante i disservizi, raramente dagli Ato arrivano serie contestazioni ai gestori”.
Una cosa è certa, il “comparto acqua” in Italia è un caos, e i politici non aiutano a chiarire la faccenda. Per Nichi Vendola “privatizzare l’acqua è una bestemmia in chiesa”, la Lega Nord vive - anche per colpa della riforma che vedremo tra poco - una delle contraddizioni più grosse della loro storia. Sono passati dal federalismo e alla gestione locale delle risorse alla totale privatizzazione. Emma Bonino, candidata alla presidenza della Regione Lazio, minimizza affermando che “mancano le condizioni”. Le “idee chiare” dei nostri politici si sommano ad una realtà distributiva e commerciale tanto disomogenea quanto caotica. “A Milano si pagano tariffe pari a un quarto di quelle di Terni, che sono appena più alte rispetto alle bollette di Latina. O di Agrigento, dove l’acqua è un bene raro e prezioso. Per non parlare degli sprechi. Ogni anno, secondo un documento della Confartigianato, il 30,1% dell’acqua immessa in rete non arriva ai rubinetti: per fare un paragone europeo, in Germania le perdite non arrivano al 7%. Come se buttassimo dalla finestra 2 miliardi e 464 milioni, somma che basterebbe a compensare l’abolizione dell’Ici per la prima casa”. I problemi sembrano quasi insormontabili, se prendiamo ad esempio l’acquedotto pugliese, uno dei più grandi d’Europa, negli ultimi anni tra i suoi 20 mila chilometri di rete si è riuscito a recuperare 40 milioni di metri cubi di perdite. Le quali sarebbero così scese al 35% dal 37,7%. Bene. Anzi, benissimo. Ma se ai tubi rotti e agli allacci abusivi si sommano le perdite amministrative, calate comunque dal 12,8% all’11,8%, l’emorragia economica dell’azienda sfiora ancora il 47%.
Cerchiamo di fare chiarezza, per essere concisi e precisi usiamo le parole del già citato Paolo Rumiz. “La storia parte da lontano, nel 2002, con una legge che obbliga i carrozzoni delle municipalizzate a snellirsi, diventare S.p.a. e lavorare con rigore. L’Italia viene divisa in bacini idrici, i Comuni sono obbligati a consorziarsi e le bollette a includere tutti i costi, che non possono più scaricarsi sul resto delle tasse. Anche se i Comuni hanno mantenuto la maggioranza azionaria, nelle ex municipalizzate son potute entrare banche, industrie e società multinazionali. Ma quella che doveva essere una rivoluzione verso il meglio si è rivelata una delusione. Nessuno rifà gli acquedotti, le reti restano un colabrodo. Il privato funziona peggio del pubblico, parola di Mediobanca, che in un’indagine recente dimostra che le due aziende pubbliche milanesi, Cap ed Mm hanno le reti migliori e tariffe tra le più basse d’Europa. Col voto del 6 agosto si rompe l’ultima diga. L’acqua cessa di essere diritto collettivo e diventa bisogno individuale, merce che ciascuno deve pagarsi. Questo spalanca scenari tutti italiani: per esempio i contatori regalati ai privati (banca, industria o chicchessia che incassano le bollette), e le reti idriche che restano in mano pubblica, con i costi del rifacimento a carico dei contribuenti”. Per dimostrare la sua tesi, Rumiz porta degli esempi, noi ne usiamo uno: “Recoaro, provincia di Vicenza. Una pattuglia di “tecnici dell’acqua” (così si presentano), fanno visita a una vecchia che vive sola in una frazione di montagna. Le chiedono di poter fare delle verifiche alle falde. La donna pensa che siano del Comune. Il lavoro dura un mese. I tecnici trivellano, trovano acqua. Poi chiudono il pozzo aperto con dei sigilli. A distanza di mesi si scopre che la fabbrica di acque minerali giù in valle sta facendo un censimento delle fonti potabili in quota, in vista della grande sete prossima ventura della Terra in riscaldamento climatico. I parenti della donna si accorgono del maltolto e sporgono denuncia. Scoprono di essersi mossi appena in tempo per evitare l’usucapione del pozzo. Il sindaco tace”. A questi problemi si somma il nuovo decreto, quello che prende il nome del Ministro per le Politiche Comunitarie Ronchi. Con 320 voti a favore e 270 contrari la gestione di acqua e rifiuti passerà progressivamente nelle mani di privati mentre la proprietà della rete idrica resterà agli enti locali. Il decreto nasce per recepire i principi comunitari di “economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione e parità di trattamento” dei servizi pubblici locali. Il decreto, inoltre, stabilisce che nelle società già quotate in borsa che si occupano della gestione di servizi idrici la quota di capitale in mano pubblica non sia superiore al 30%, lasciando quindi la maggioranza ai privati. Durissima l’opposizione e dolorosa la scelta - a lungo termine porterà anche a delle conseguenze elettorali - della Lega Nord, sintetizzata dalla dichiarazione del suo leader: “Non si può far saltare il governo. Non si muore per una legge”. Per il governo il decreto è accettabile, anzi buono. Rende libero il mercato e quindi migliora i servizi. A questo ritornello molti cittadini non credono più, soprattutto quelli che hanno già vissuto altre liberalizzazioni. A spiegarci la mancanza di efficacia del provvedimento legislativo è Antonio Massarutto dell’Università di Udine. “Senza certezza sul futuro del servizio e con simili costi fissi nessuna banca al mondo finanzierà le piccole imprese, e così finiranno per vincere le grandi aziende quotate, capaci di autofinanziarsi e di imporsi semplicemente con la forza del nome”.
In linea con questa idea ci sono anche molte Regioni (alcune governate dalla stessa forza politica al potere) e le associazioni dei consumatori. Piemonte, Emilia Romagna, Puglia e Marche pensano ad un ricorso alla Corte Costituzionale. Il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua, ha ricevuto l'adesione di 150 sigle, che comprendono un sostegno variegato da parte di tutta la società civile, per la manifestazione che si è svolta nella capitale il 20 marzo. Urlando lo slogan: “L'acqua è di tutti e deve essere pubblica. Difendiamo i beni comuni'”, hanno sfilato per le strade di Roma cercando di sensibilizzare anche quei cittadini che tendono a lamentarsi solo quando vedono lievitare le bollette. Il sindaco Alemanno, infatti, avrebbe l’intenzione di portare la quota pubblica in Acea dal 51 al 30% anticipando di ben 5 anni i tempi previsti dal decreto Ronchi. Il decreto lo prevede entro il 2015, a Roma si vuol fare entro il 2010.
Alla fine della nostra riflessione ripassiamo dal contesto locale di Roma a quello globale. Come abbiamo già detto, la debolezza della nostra economia e la poca chiarezza della nostra legislazione - è chiaro a tutti che manca un organi di controllo e repressione di eventuali distorsioni - fanno correre il rischio di mettere in mano a tre sole multinazionali (due francesi e una tedesca) una delle risorse più importanti del nostro Paese. Noi come nazione dovremmo evitare di commettere lo stesso errore degli abitanti di Chicago, che ritenevano il lago Michigan cosí grande da assorbire facilmente tutti i rifiuti che la loro città poteva scaricarvi. Il tempo ha dimostrato che si ingannavano, speriamo che con noi il tempo sia più clemente.
Per evitare un suicidio idrologico dobbiamo ripensare le tecniche, le infrastrutture e il nostro approccio alle risorse acqua. Il mio contributo è un aforisma di Lao Tzu: “L’acqua è un bene: reca benefici a tutte le cose e non è in guerra con loro. Se ne sta in luoghi piacevoli trascurati da tutti”.
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