Intervista al segretario nazionale del Silp
Federico Schillaci, un racconto ed un’analisi
di ciò che è accaduto e di ciò che potrà accadere
alle Forze di polizia impegnate
nella lotta alle mafie
Quando la lotta alle “mafie” è efficace e puntuale, le risposte sono molto spesso violente ed eclatanti. La bomba esplosa a Reggio è un chiaro segnale da parte delle famiglie appartenenti alla ’ndrangheta, ora temono di essere colpite seriamente. I processi d’Appello sull’omicidio di Salvatore Fortugno, sulla strage di Duisburg e sulle infiltrazioni mafiose sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria mettono paura, e l’unico modo per reagire è intimidire magistrati ed investigatori.
Ora, la nostra società deve superare la prova più dura, rimanendo compatta e affrontando il futuro con l’insegnamento del passato.
La guerra alle “mafie” si è sempre rivelata una questione delicata e pericolosa, si tratta di uno scontro asimmetrico e senza divise, in territori spesso ostili e senza l’uso di armi pesanti. Vista così sembra la descrizione di uno dei tanti conflitti in Medio-oriente, ma le cose sono anche peggiori. Prima di tutto è una guerra combattuta contro i nostri stessi concittadini, secondo le “mafie” tentano in tutti i modi di infiltrarsi e destabilizzare le Istituzioni.
Per questi motivi, e forse tanti altri, l’impegno contro la criminalità organizzata deve essere collettivo e mai scontato e per questo ogni tanto bisogna ricordare quello che di buono è stato fatto.
In una intervista al segretario nazionale del Silp per la Cgil Federico Schillaci, ripercorreremo con la memoria un momento delicato della lotta alla mafia siciliana. È lui stesso che in modo puntuale circoscrive e delinea il contesto in cui si svolsero gli eventi.
“Eravamo all’inizio del 2002, la società civile non si sentiva più impegnata nel costruire iniziative antimafia, e i partiti avevano cancellato dalla loro agenda la parola mafia, era scomparsa l’emergenza. Dopo la reazione delle Istituzioni e della società civile agli attentati del 1993, l’iniziativa antimafia si era sostanzialmente esaurita”.
“Le due sole iniziative di memoria rimaste sul territorio - [continua Schillaci con tono calmo ma fermo, tipico delle persone che sanno quello che dicono e lo dicono da anni] - erano solo quelle legate agli anniversari dei due attentati. La strage di Capaci e di via D’Amelio. Dove oltretutto - in quelle occasioni - si vedevano auto blu e politici, ma pochissima gente comune. Si era persa la spinta emotiva ed era rimasta la forma istituzionale”.
È in questo clima che irrompe l’iniziativa dell’allora ministro dell’Interno del II governo Berlusconi, on. Claudio Scajola?
Sì esatto, emanando una circolare sulle scorte. Formalmente senza rimuoverle, sostanzialmente declassandole tutte.
La circolare del 15 settembre 2001 chiedeva agli organismi territoriali di Pubblica sicurezza di ridurre le scorte in quel momento esistenti di almeno il 30%. Una richiesta pericolosa, la valutazione del rischio è infatti l’attività più delicata che gli organismi di Sicurezza pubblica affrontano, sul versante della protezione, se si commette un errore per eccesso, si corre il rischio di usare più risorse di quelle che sono assolutamente necessarie e quindi si sprecano risorse preziose. Se si sbaglia valutazione per difetto, purtroppo ci sono persone che corrono un rischio reale, rischiando la vita senza alcuna protezione e copertura da parte dello Stato. La valutazione del rischio è dunque un’attività estremamente delicata.
La circolare capovolgeva quest’ottica, partendo da un’esigenza economica, riducendo i costi. Dunque, invece di valutare attentamente i rischi e poi cercare di risparmiare qualche risorsa, l’allora Ministro decise di dare un taglio netto, ridurre le scorte del 30%. Questo, di per sé è un elemento che condiziona la scelta di prefetti e questori che leggevano in quella circolare l’indirizzo, il vincolo, la direttiva a ridurre di almeno il 30%, ma rispetto ai quali si era creato un clima, un orientamento che veniva dal centro e diceva “il bravo prefetto, il bravo questore deve ridurre ben oltre il 30%”. Un’ottica aziendalistica che in una materia delicata come questa non era decisamente adeguata.
Altra questione fondamentale, che condizionò pesantemente le scelte fatte dall’Autorità di Pubblica sicurezza in quel periodo, fu la condizione determinante per la concessione o il mantenimento della scorta, cioè la presenza, in ogni caso, di minacce concrete e attuali alla persona scortata. Il problema è che non tutte le persone scortate sono protette perché hanno avuto delle minacce concrete e attuali, vi sono alcune persone che devono essere scortate per il solo fatto che svolgono determinati incarichi. Ad esempio, il Procuratore Antimafia di Palermo o il Procuratore Antimafia nazionale, per il solo fatto che svolgono attività di contrasto da un punto di vista giudiziario delle organizzazioni mafiose, sono a rischio.
Anche le nuove modalità dei servizi di tutela trovarono forti critiche. Si richiedevano scorte in divisa e su auto d’ordinanza (dunque non blindate) anche a Palermo, abbassando così il livello di protezione e capacità di reazione degli agenti di scorta.
La locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati, con una protesta tanto eclatante quanto apprezzata dalle Forze di polizia, rifiutò ogni tipo di scorta formata da poliziotti in divisa e su auto di ordinanza.
La circolare del ministro Scajola, quindi, era un vero e proprio passo indietro nei confronti della lotta alle organizzazioni criminali. Il Silp per la Cgil, nella veste del suo segretario Giardullo, lanciò immediatamente l’allarme. “La riduzione delle scorte a chi lotta contro la criminalità organizzata è un messaggio inquietante di chiaro disimpegno dello Stato, ma anche di isolamento nei confronti di chi sta in prima linea”.
A questo punto quale fu la reazione del Silp?
Abbiamo riunito la Segreteria provinciale del sindacato e abbiamo affermato con chiarezza il nostro no!
Questo provvedimento sarebbe stata una pietra tombale della speranza nelle persone che tutti i giorni combattono contro la mafia. Per impedire ciò abbiamo deciso di mobilitarci, con la convinzione che nell’arco di tempo necessario all’organizzazione della mobilitazione il governo facesse un passo indietro.
A prescindere dal provvedimento, era prioritario che non passasse l’idea che se ti impegni contro la mafia - a qualsiasi livello - resti solo. Per il Silp, lo Stato deve rimanere accanto a chi si sacrifica tutti i giorni.
Decidete, quindi, di indire una fiaccolata di solidarietà ad agenti di Polizia e magistrati a Palermo? Perché partire proprio da quella città?
Sì, partimmo da Palermo perché era lì il banco di prova delle politiche nazionali sulla sicurezza e sulla legalità, ed era lì che per fortuna trovammo un alleato inaspettato.
Noi del Silp, appoggiati e spinti da tutta la Cgil, decidemmo di indire una fiaccolata a cui aderì anche il neosindaco di Forza Italia Diego Cammarata.
Fu una sorpresa per voi?
Esattamente, e le sue dichiarazioni ci fecero molto piacere e furono molto utili per trovare una mediazione con il Ministro dell’Interno e il governo. “Gli agenti diPolizia di Palermo - disse Cammarata - avranno sempre il loro sindaco al fianco, per qualunque iniziativa. E se organizzeranno una fiaccolata io sarò in prima fila con la fascia tricolore. Sono disponibile ad appoggiare qualunque richiesta che arrivi da Palermo indirizzata al Ministero dell’Interno”.
La nostra iniziativa, la mobilitazione dei magistrati, le dichiarazioni del sindaco e la sua adesione eccellente aprì una discussione all’interno della stessa maggioranza di governo. Il ministro Scajola decise di compiere un mezzo passo indietro, dichiarando che, fermo restando che la circolare si applicava in tutta Italia, nel contesto di Palermo - dove le cose sono molto più complicate - veniva sospesa.
Un vero e proprio segnale politico. L’ex presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Giuseppe Lumia, in una sua dichiarazione lo spiegò bene: “La protesta intelligente e seria dei magistrati e delle Forze dell’ordine ha fatto breccia in un muro che si sta alzando a danno della lotta alla mafia. Adesso bisogna continuare su questa strada e fare delle scorte uno strumento serio e rigoroso a tutela di chi s’impegna ogni giorno nel difficile compito della lotta a Cosa nostra. È bene che il ministro Scajola ritiri la riduzione tout court del trenta per cento delle scorte per affidare la scelta a chi, come i comitati per l’ordine e la sicurezza e i magistrati stessi, ha gli strumenti per valutare realmente chi ha bisogno delle scorte e chi no”.
Senza troppa pubblicità, il governo fece marcia indietro sulla circolare riguardante le scorte ai magistrati di Palermo. Niente tagli alle scorte, almeno non a quelle dei magistrati Antimafia. Niente agenti in divisa, niente auto d’ordinanza. In sostanza, tutto rimaneva come prima. Quella che il ministro Scajola, solo il 21 ottobre scorso, aveva definito una “vergogna nazionale”, almeno a Palermo non era più tale. Il presidente della sezione palermitana dell’Associazione nazionale magistrati Massimo Russo smorzando i toni della polemica affermò: “Per noi la questione è definitivamente chiusa. Se mi chiedete chi ha vinto, rispondo che ha vinto la ragione. Se un merito abbiamo avuto in questi mesi è stato quello, anche alzando la voce, di avere stimolato un ragionamento che ha visto prevalere l’opportunità nell’affrontare in modo non burocratico temi importanti quali appunto la sicurezza dei magistrati impegnati nella lotta alla mafia. Evidentemente, alla fine, i tutori della Sicurezza pubblica devono avere ritenute fondate le nostre obiezioni e hanno dunque rinunciato a tagli che rispondessero alla logica matematica della riduzione del trenta per cento dei servizi di scorta”.
Una vittoria per i magistrati ma anche un traguardo concreto raggiunto dal sindacato.
Fu un successo quindi.
In effetti fu un bel traguardo. Noi, nella veste di semplici rappresentanti delle Forze di polizia, potevamo ritenerci soddisfatti, gli uomini della scorta, a Palermo, continuavano ad operare in borghese, mantenendo la situazione pressoché inalterata. Ma noi del Silp e la Cgil di Palermo decidemmo di dare un segnale, un segnale preciso. Volevamo cogliere l’occasione per dare una scossa al Paese. L’obiettivo era ricominciare a mobilitare la società civile.
Il segretario generale del Silp, Claudio Giardullo, in una dichiarazione di allora descrisse chiaramente le problematiche su cui si doveva continuare a discutere: “Raccogliamo questo primo successo della nostra iniziativa, ma consideriamo la vertenza ancora aperta. La questione delle scorte in generale, l’insufficienza degli organici nei commissariati, il rafforzamento tecnico delle strutture di Polizia, l’assegnazione delle risorse necessarie, sono temi da affrontare senza ritardo se si vuol evitare un pericoloso disimpegno dello Stato su un versante fondamentale della vita del Paese come quello della lotta alla criminalità”.
In concreto cosa decideste di fare?
A questo punto entra in gioco il grande intuito dell’allora segretario della Cgil di Palermo, Francesco Cantafia, di impegnare tutta la Camera del Lavoro di Palermo. La fiaccolata venne confermata, ma su base diversa, e nacque lo slogan “La lotta alla mafia non si spegne”.
A partecipare furono tutti - [continua, con voce piena di soddisfazione, Schillaci] - i Segretari generali di categoria, le sigle della Cgil e la Fiom. Facendo della fiaccolata un impegno centrale dell’organizzazione sindacale.
Alla manifestazione parteciparono centinaia di persone, il corteo si snodò dalla questura alla Prefettura.
Lì presentammo un documento dove venivano descritte tutte le carenze di organico, di mezzi delle strutture dell’apparato giudiziario. Una specie di libro bianco della sicurezza e della legalità palermitana e siciliana. Contemporaneamente, tutti i Segretari regionali e provinciali del Silp e della Cgil consegnarono un documento sulla propria realtà provinciale a tutti i prefetti della provincia.
Il 19 marzo 2002, in modo tragico e sorprendente, cambiò tutto.
Marco Biagi, consulente dell’allora ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Roberto Maroni, venne ucciso, a 51 anni, da alcuni militanti delle Nuove Brigate Rosse, in un agguato a Bologna in via Valdonica, sotto casa sua. Il ministero dell’Interno (il già citato onorevole Claudio Scajola) aveva privato Marco Biagi della scorta, richiesta da Biagi solo pochi mesi prima proprio per timore di attentati da parte dell’estremismo di sinistra. Dopo che gli fu tolta la scorta ne fece nuovamente richiesta al ministero del Lavoro, presso cui operava, in quanto non si sentiva sicuro e riceveva minacce di continuo. Questa non gli fu accordata. I colpevoli stessi, in un secondo momento, ammisero che avevano deciso di colpire proprio lui in quanto era un personaggio di grande visibilità e allo stesso tempo poco protetto.
Oltre che giudicare e condannare le responsabilità individuali sarebbe opportuno riflettere su quelle politiche. Intorno al contenuto della famosa circolare e dalla esigenza, che veniva in quel momento dal governo, di applicazione di una circolare che doveva tagliare le scorte, a volte in maniera indiscriminata. Si era creato un clima di pressione nei confronti delle Autorità della Pubblica sicurezza perché il numero delle scorte doveva essere drasticamente ridotto.
Quello fu un momento molto delicato, la morte di Biagi e la frase infelice del Ministro - è opportuno ricordare che il 30 giugno del 2002 alcune testate nazionali pubblicano una chiacchierata tra l’onorevole Scajola (in visita ufficiale a Cipro) e alcuni giornalisti: “A Bologna hanno colpito Biagi che era senza protezione ma se lì ci fosse stata la scorta i morti sarebbero stati tre. E poi vi chiedo: nella trattativa di queste settimane sull’articolo 18 quante persone dovremmo proteggere? Praticamente tutte. Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza” - portarono alle dimissioni del Ministro e ad una totale marcia indietro del governo sul tema Sicurezza.
Noi avevamo anticipato i tempi, purtroppo non ci fu una mobilitazione nazionale, ma comunque l’iniziativa diventò uno spartiacque che viene sempre ricordato all’interno del Silp e della Cgil. Da lì la Cgil nazionale a Palermo costruisce una rivendicazione nazionale contro la mafia. Progettando una vera e propria piattaforma rivendicativa contro le organizzazioni criminali.
Alla luce del suo racconto e delle sue riflessioni è significativo ricordare le parole del successore dell’allora segretario della Cgil di Palermo. Quando Maurizio Calà sostituì Francesco Cantafia affermò con chiarezza che i suoi sforzi si sarebbero concentrati contro la mafia: “Darò priorità alla lotta alla mafia, condizione per lo sviluppo, punteremo sui protocolli di legalità e intensificheremo il rapporto con i movimenti e con le associazioni impegnati su questo fronte”.
È esattamente quello che intendevo - [mi incalza Schillaci] -, , la fiaccolata non fu solo una vittoria contro il governo, ma fu una vera e propria svolta politica, che poi in parte non coinvolse il solo sindacato. Molti partiti, infatti, decisero di introdurre un codice etico, rinacque insomma una discussione sul tema della mafia e sull’ordine pubblico che ne deriva. Da lì sono state accelerate alcune riforme, come la stazione unica appaltante a livello provinciale che fa capo alla Prefettura, hanno preso avvio una serie di iniziative politiche e la lotta alla mafia rientrò nell’agenda politica dei partiti.
Fu un vero e proprio spartiacque, eliminare la scorta al Presidente della Sezione Fallimentare di Palermo, ad esempio, sarebbe stato veramente pericoloso e poco lungimirante. Le ripercussioni sulla società civile sarebbero state catastrofiche, quella sì che sarebbe stata una vittoria della mafia. In fondo è così che la mafia conquista terreno all’interno del tessuto civile.
Teorizziamo per un istante la sospensione della scorta al presidente della Sezione Misure di Prevenzione, che eseguiva i sequestri dei beni mafiosi. Il vero problema con le mafie è proteggere non solo i pm ma anche i funzionari medi in posizioni strategiche - [qui Schillaci si fa serio e pensieroso] - loro sono molto più fragili e facili bersagli della mafia, che prima di sparare o usare le bombe intimidisce. Alimentando il colpevole detto, su cui la mafia prolifica, “chi te lo fa fare”. Questo arrendersi, prima a livello psicologico e poi economico e sociale è un fenomeno tanto pericoloso quanto centrale nella lotta alla mafia. Il funzionario che non sente, non parla e non denuncia per paura è un problema più grave della semplice corruttibilità. È più pericoloso e, su lunghi periodi, crea dei veri e propri disastri. Avendo vissuto quel periodo in prima persona ho sempre cercato di accentuare le iniziative di contrasto alla mafia. Vedevo che il problema mafia era tornato ad essere un problema per la sola magistratura e per le Forze dell’ordine. Era tornato ad essere un problema specifico, mentre, se si vuole sconfiggere la mafia bisogna aggredirla su tutti i fronti, anche quello riguardante la società civile. Si possono arrestare anche 10 mafiosi al giorno, ma se non si riesce a scardinare il sistema che regola l’assegnazione degli appalti, ad esempio, non si riuscirà mai a sconfiggere le organizzazioni criminali.
Il problema è compiere una scelta politica. Se noi desideriamo semplicemente, intendo come società civile, non assistere a sparatorie per le strade, furti e in generale a gesti criminali eclatanti (regolamento di conti e omicidi), una politica d’immissione nella lotta alle mafie è più che sufficiente. Ma se invece, cerchiamo la legalità (invece che la semplice sicurezza) dovremmo agire con nuovo spirito e con sempre nuove iniziative, sia legislative, sia investigative e sia sociali. Lo Stato dovrebbe innanzitutto lottare contro qualsiasi arricchimento illecito, qualsiasi connubio tra imprenditoria e mafia e tra politica e mafia. In questo caso assisteremo ad una concreta emersione dell’impegno per la lotta alla mafia.
La lotta per la legalità deve andare oltre il coraggioso lavoro delle Forze dell’ordine, loro vanno motivati e non lasciati soli. Solo con iniziative coordinate - repressione e arresti e legislatura illuminata - si può pensare concretamente di infliggere duri colpi alla mafia.
Le sue parole devono far riflettere tutti, e il racconto, di un singolo evento nel passato del nostro Paese, deve servire da fiaccola per illuminare un futuro che, visto la bomba esplosa in Calabria, si preannuncia in penombra.
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