Quando le cellule smettono di rispondere ai meccanismi fisiologici di controllo cellulare, a seguito di danni al loro patrimonio genetico, si formano i tumori. Questo è quello che sta succedendo nella nostra Polizia. Basta rammentarne la storia, dal dopoguerra fino al 1994, per notare una costante crescita in termini di qualità e di perfetta rappresentatività di un importante apparato dello Stato degno di una moderna democrazia. Lo slogan coniato da Vicari “Nello Stato democratico la Polizia è al servizio dei cittadini” non fu solo un mero cartello appeso nei corridoi delle questure, ma un vero e proprio principio ispiratore al quale diedero seguito i diversi Capi della Polizia che si sono succeduti e che consentì loro di trasformarla via via, fino alla riforma del 1981 ed anche in seguito, in un apparato efficiente e democratico, nel quale - occorre ricordarlo per dovere - si viveva tutto sommato bene.
Ma dal 28 agosto 1994 qualche cosa ha smesso di funzionare e tra queste, purtroppo, la deontologia della classe dirigente che, prima, era costantemente “attenzionata” dai massimi vertici e, quindi, si comportava correttamente.
Ultimamente uno sparuto gruppo di funzionari e dirigenti che, ad essere generosi, si potrebbero definire eccesivamente disinvolti (ma ad essere obiettivi si dovrebbero definire autentici mascalzoni) si sono trasformati in cellule tumorali e, come accade nell’organismo umano, non si ha un immediato coinvolgimento di tutto l’organismo stesso, si inizia con una piccola neoplasia localizzata che, se non curata celermente ed adeguatamente, si sviluppa a poco a poco, e silente provoca metastasi che, alla fine, coinvolgono l’intero corpo portandolo alle estreme conseguenze proprio come sta accadendo alla nostra Polizia.
L’eziologia, se così la vogliamo chiamare continuando ad utilizzare terminologia medica, di questa patologia sta nel fatto che molti dirigenti del passato sono usciti di scena o perché posti in quiescenza o perché, per progressione di carriera, si trovano in posizioni che non consentono di controllare direttamente ciò che avviene in periferia; dal centro partono disposizioni e indirizzi ben condivisibili, ma in periferia per uno strano senso di autonomia questi vengono puntualmente disattesi; ad aggravare il quadro clinico della nostra paziente ha sicuramente contribuito lo stravolgimento del ruolo dei commissari dove si sono attribuite qualifiche pre-apicali ed apicali a soggetti privi della necessaria esperienza e si sono imprudentemente eliminate le due qualifiche iniziali.
I padri della riforma del 1981 avevano ben compreso come un soggetto che viene dalla vita civile necessiti di alcuni anni di formazione sul campo prima di raggiungere posizioni di relativa autonomia decisionale, e come la progressione di carriera di tutti i soggetti dell’Amministrazione sia cosa di estrema delicatezza per il coinvolgimento anche emotivo che uno stravolgimento di essa provoca in tutti gli interessati. Ma dopo la fatidica, luttuosa, data del 27 agosto 1994 sembra che una banda di apprendisti stregoni abbia messo mano ad ogni principio di buon senso distribuendo qualifiche così come un pagliaccio al circo distribuisce caramelle ai bambini.
Ecco che gli assistenti si trasformarono quasi per magia in sovrintendenti senza sostenere alcun concorso e senza frequentare alcun corso di formazione, suscitando il risentimento (giusto) di tutti coloro che avevano superato un concorso interno ed erano stati sei mesi lontani dai propri affetti per frequentare il relativo corso di formazione, anzi si tentò - e quasi si riuscì - di collocare questi assistenti “travestiti da sovrintendenti” addirittura in posizioni di anzianità maggiori di quelle di coloro che la qualifica se la erano meritata. Ma lo stesso è avvenuto per il ruolo degli ispettori, con le stesse modalità: chi scrive ha frequentato un corso di sei mesi al termine del quale la propria vicina di banco, senza aver fatto un minuto di formazione in più, ha indossato direttamente i gradi da ispettore con buona pace di tutti gli altri che hanno idossato quelli da vicesovrintendente.
Ma ancor peggio è avvenuto nel ruolo dei commissari. Solo nelle repubbliche delle banane un tizio passa da essere un estraneo ad essere un ufficiale superiore perché, ricordiamolo, la qualifica di commissario capo equivale a quella di maggiore nelle Forze di polizia ad ordinamento militare e il maggiore è un ufficiale superiore: ne discendono un po’ di inconvenienti. Intanto, rispetto alle altre Forze le due qualifiche rimaste nel ruolo dei commissari ne risultano sminuite perché da qualifiche apicali divengono qualifiche iniziali, e poi si dà autonomia operativa e decisionale a soggetti che, non avendo passato un congruo periodo come funzionari addetti al fianco di funzionari più anziani ed esperti e poi un successivo periodo con incarichi via via più impegnativi, si ritrovano a dover sopportare il peso di decisioni ed incarichi per i quali non sono ancora preparati. L’effetto è devastante perché si riflette sul personale che ha perso, progressivamente, la guida di persone all’altezza del compito e, in definitiva, si è minata la fiducia incondizionata nella catena di comando che è un fattore di fondamentale importanza per il corretto svolgimento del servizio.
Ai miei bei tempi ormai andati, quando parlava un funzionario o un dirigente c’era la sensazione, spesso suffragata dai fatti, di avere di fronte qualcuno che sapeva bene cosa stava facendo e dal quale c’era sempre qualcosa da imparare. Oggi ci si trova sempre più spesso di fronte a funzionari e dirigenti diventati tali non si sa bene come e che fanno errori madornali anche nella gestione del personale spesso per inesperienza, più raramente anche per malafede.
Si tratta, come già detto, di un esiguo gruppo per altro minoritario, ma che ha fatto della protervia e della supponenza il faro illuminante della propria azione (dis)organizzativa.
Il guaio - e qui abbiamo la metastasi - è che gli altri funzionari e dirigenti per bene, che sono la maggioranza, forse per un malinteso senso di protezione corporativa anziché isolare questi soggetti che danneggiano, sulla lunga distanza anche loro, fanno quadrato intorno ad essi e anziché isolarli li proteggono, o almeno tentano di farlo con giustificazioni che, spesso, sono delle vere e proprie acrobazie. La conseguenza è che si ottiene una frattura netta fra il gruppo dei funzionari/dirigenti e il restante personale e si inizia ad accumulare un astio reciproco tra queste due categorie che è altamente cancerogeno. Perché questo tipo di funzionari e dirigenti supplisce alla mancanza di esperienza con furbeschi espedienti, spesso conditi da una scorettezza estrema, che hanno come unico risultato quello di mettere il personale sulla difensiva con pensieri del tipo “Il funzionario mi ha dato una disposizione oralmente; la confermerà per iscritto o la confermerà come propria se qualcosa non andasse per il verso giusto?” questo dubbio è un vulnus terribile capace di scardinare l’intero sistema; invece, in una Polizia che funzioni (come funzionava la nostra fino al 1994), il personale non deve e non può avere il minimo dubbio sulla correttezza di chi esercita funzioni direttive. Quando questo dubbio c’é, quando scorrettezza ed arroganza divengono elementi costitutivi dell’azione direttiva, quando il regolamento di disciplina o la compilazione dei rapporti informativi annuali vengono usati come uno sfollagente contro chiuque non si dimostri servile, ecco che il fenomeno dei suicidi si presenta in tutta la sua drammaticità.
Ne sa qualcosa la Polizia di un importante nazione europea a noi confinante che, negli anni ’80, ebbe una impressionante escalation del fenomeno (tanto da produrre uno studio ad hoc dell’Interpol): per risolverlo fu modificata radicalmente la gestione del personale mediante un’azione repressiva senza precedenti sul malgoverno dello stesso; bastò far “saltare” in maniera esemplare poche teste di dirigenti e funzionari scorretti - non più di dieci in tutto - per provocare un effetto correttivo generalizzato con l’immediata adozione di comportamenti virtuosi (in quella nazione, poi, nella storia sono stati specialisti nel taglio delle teste tanto che, per far prima, inventarono un’apposita macchina...).
Questo triste fenomeno sta raggiungendo livelli preoccupanti anche in Italia perché, quando un’agente arriva a spararsi alla testa durante un servizio di ordine pubblico allo stadio, ebbene è ora che i vertici comincino a chiedersi se non è il caso di intervenire essendo più che evidente che, nella dirigenza, c’è qualche cosa che non funziona. Nessuno attua un gesto autodistruttivo di tale portata senza avere prima, se non altro su impulso dell’istinto di conservazione, mandato dei segnali spesso espliciti: dove erano quei dirigenti e funzionari quando questi segnali si manifestavano? Forse in missione su Plutone, forse impegnati in una riunione nella quale con la consueta autoreferenzialità si complimentavano l’un l’altro per questa o quella furbizia grazie alla quale erano riusciti, sapientemente, a mettere una pezza a colori ad un loro guaio, scaricando la responsabilità su qualche malcapitato non facente parte del loro ruolo.
E, allora, sovviene un esempio concreto, perché altrimenti facciamo accademia fine a se stessa e non ci piace farlo.
In una piccola questura di confine della Lombardia, il 6 ottobre 2009 una dirigente scrive una “riservata” al questore (a proprosito: le riservate sono vietate perché non consentono all’interessato di conoscerne l’esistenza ed, eventualmente, di produrre controdeduzioni. Le riservate di littoria e vile memoria sono un cazzotto in faccia ai principi di trasparenza amministrativa. Esiste il regolamento di disciplina che prevede istituti di garanzia per l’Amministrazione e per il personale: se si è sicuri di ciò che si sostiene si formulino delle contestazioni di addebiti nelle forme previste a che l’interessato possa rispondere - ma forse proprio questo si vuole evitare -, l’uso di mezzucci alternativi e non previsti è la prima spia di malafede) nella quale sostiene che un’ispettore non ha prodotto l’istanza per poter risiedere fuori Comune. In realtà l’istanza era stata regolarmente prodotta il 13 maggio 2009, ben cinque mesi prima, ma c’é di più: il Ministero in data 30/6/2009 su quesito del solerte questore (lascia perplessi che un questore senta la necessità di scomodare il superiore Ministero per decidere su una questione così marginale, a che serve un questore in periferia se ogni decisione di dettaglio viene “scaricata” sul Ministero che ha cose ben più importanti da fare?) aveva dato l’assenso a che l’ispettore risiedesse fuori Comune. E’ quindi evidente che l’istanza era stata presentata. A questo punto, in una Polizia normale un questore degno di questo nome prende carta e penna e scrive al Consiglio centrale di Disciplina deferendogli la dirigente per il dimostrato comportamento scorretto della stessa non solo nei confronti dell’ispettore, ma soprattutto nei confronti dello stesso questore e dell’Amministrazione tutta. Invece nulla, nemmeno un piccolo rimprovero. Che garanzie di affidabilità e di fedeltà può dare un soggetto che informa un questore in maniera distorta?
Va ricordato, con l’occasione, un episodio del passato che ancora oggi si insegna quando si parla di ordine pubblico. Nel 1800 un signore di nome Bava Beccaris, informando in maniera distorta e criminale il ministero dell’Interno, paventando inesistenti tumulti a Milano e denigrandone il Prefetto, riuscì a farsi autorizzare ad aprire il fuoco sulla folla. Fu un massacro dal punto di vista umano e dal punto di vista politico perché i tumulti non c’erano e le manifestazioni di piazza si stavano svolgendo regolarmente senza incidenti. Forse questo questore ha amnesie (perchè non vogliamo credere che non conosca la storia e quindi non percepisca la gravità del comportamento di questa dirigente), sta di fatto che l’ispettore avvisa il questore di questa discrasia, ma ancora nulla accade; ci si aspetta che un questore, in una situazione del genere, per lo meno ed anche solo a tutela del buon andamento della sua questura chiami la dirigente e l’ispettore nel suo ufficio e dica loro “ Signori qui c’è stato un grosso equivoco e sicuramente una leggerezza. Lei dottoressa, in futuro, stia più attenta alle accuse che fa e a ciò che firma; lei, ispettore, ben capirà che tutti si può sbagliare. Strappiamo questa riservata, non prevista da nessun regolamento, e dimentichiamo tutti l’accaduto”.
Invece no. Si porta l’ispettore a dover presentare una denuncia all’Autorità giudiziaria per tutelarsi anche perché, nel frattempo, la dirigente persevera nel suo discutibile comportamento.
Ora il nostro ispettore (ex pubblico ministero e con più di 20 anni di servizio) dispone di forza e competenza necessari a contrapporre adeguati mezzi alla forza d’urto di questa dirigente e di questo inerte questore, ma un altro soggetto più debole, meno preparato e con meno esperienza in situazioni come questa, che non sono più tanto rare e anzi, sempre più frequenti, viene colto da spinte depressive e, in un momento di particolare crisi può giungere - e spesso giunge - a gesti irreparabili. Orbene nessun magistrato potrà mai accusare questori inerti e/o protervi dirigenti per il suicidio di un dipendente, ma la responsabilità morale, quella, non gliela leva nessuno: comportamenti scorretti protratti nel tempo e disinteresse per i dipendenti portano a questo. E poi sarebbe da discutere se il Ministero non sia titolato ad agire, almeno civilmente, contro di essi per culpa in vigilando. Resta comunque la dimostrazione di inidoneità a svolgere funzioni direttive.
Ci si chiede come un uomo di indubbie capacità e di innate doti umane come l’attuale Capo della Polizia (veramente degno dell’autorità dei suoi illustri predecessori fino al 1994) non si sia ancora deciso a prendere provvedimenti esemplari contro chi danneggi il bene più prezioso che l’Amministrazione possiede, ossia il personale. Basterebbe individuare una decina di dirigenti e funzionari scorretti verso il personale e destituirli come esempio. Una sterzata di questo genere farebbe diminuire i suicidi, ripristinerebbe l’armonia tra i dipendenti di qualsasi qualifica e, automaticamente, farebbe aumentare la qualità del servizio, e tutto senza spendere un euro.
Perché se il rutilare del bastone fa rinsavire anche il peggior somaro, la consapevolezza che leggi e regolamenti vanno rispettati sempre e comunque da tutti, unitamente all’uso del buon senso e dell’umanità, consentono a qualsivoglia organizzazione articolata e complessa, come è la Polizia di Stato, di far vivere in pace e in serenità il proprio personale che, così, fornirà ai cittadini quel servizio che essi meritano.
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