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dicembre/2009 - Interviste
Anni di piombo
Autoritratto di un ex terrorista
di a cura di Leandro Abeille

Accostarsi ad una persona della complessità di Giuseppe Valerio Fioravanti (detto Giusva) con la certezza di verità ideologiche preconfezionate potrebbe portare ad un errore fatale: quello di non capire.
Tutti sanno chi è stato Giusva, pochi conoscono Valerio, condividono lo stesso corpo, ma uno è l’evoluzione dell’altro.

Avrai fatto milioni di interviste, il tuo telefonino manca poco che fonde, ricevi mille inviti per i posti più disparati… Hai mai sospettato che avere al proprio tavolo Valerio Fioravanti, il nero, il terrorista, faccia “tendenza”?
Sì, per questo non vado mai da nessuna parte.

Sei mai stato nazista, fascista, neo fascista o similare?
Non lo sono mai stato.

Ma tutti ti definiscono uno neofascista…
Se non è un insulto gratuito, fa parte di quelle definizioni che accetto per brevità, mi si può definire in questo modo se da quel momento in poi si inizia un discorso costruttivo.

Ho sentito che ti definivi terrorista…


Sarò più preciso… sei stato un terrorista?
Considero stucchevole la polemica che dura da trent’anni sulle parole. Terrorista è una parola inesatta, che molti usano per metterti in difficoltà già dall’inizio del dialogo, ha un’accezione volutamente negativa, ma è inutile interrompere il dialogo e litigare sulla prima parola detta.
Terrorista è una semplificazione e tutti gli esseri umani hanno la necessità di semplificare allora io accetto questo termine purché poi si inizi a parlare di altri argomenti che stanno alla base di alcune scelte.
Accetto questa definizione e forse fa parte della mia punizione e andiamo avanti col discorso, l’accetto perché così si usa, non perché la sento mia.

Ancora non si è arrivati ad una definizione di terrorismo in ambito internazionale, hai una tua definizione?
No, io sono oggi una persona libera per una Costituzione estremamente garantista, scritta da persone che tre anni prima di scriverla erano considerati terroristi.
Il terrorismo cambia con il tempo e con i regimi politici. Abbiamo avuto israeliani che sono stati terroristi, diventati poi primi ministri e poi Nobel per la pace. Stesso discorso vale per i palestinesi, irlandesi , protestanti o cattolici. La guerra fa parte dell’essere umano, ci sono momenti in cui si fa e momenti in cui si è in pace, ci sono momenti in cui il terrorista è in minoranza e ci sono momenti in cui è al governo.
Se il terrorista è bravo con il tempo può tranquillamente parlare all’Onu, allora ha più senso fare una differenza tra terroristi efficienti e non efficienti.

La tua motivazione era politica adesso i terroristi hanno una motivazione religiosa, quale, secondo te, è la motivazione più forte?
Il terrorista religioso spesso non ha paura di morire e rispetto a quello politico, che invece questa paura la sente, è un bel passo avanti.
Ad ogni modo, il fanatico più è stupido più è efficiente come macchina di morte, più è stupido però, meno è efficiente come macchina politica. Per questo motivo la manovalanza dei fanatici religiosi hanno, sopra di loro, dei capi ben più accorti, preparati ed intelligenti che li manipolano, gestendo a livello politico le sorti dei vari gruppi. Sono questi ultimi che gestiscono le entrate finanziarie, i ricatti agli Stati, il traffico di armi.
Non è neanche un fenomeno nuovo, le grandi menti del terrorismo mediorientale sono sulla cresta dell’onda da oltre 40 anni.

Come mai il terrorismo diventa religioso?
Per l’inefficienza degli altri terrorismi che non hanno portato risultati. Migliaia di miliardi di aiuti mandati ai Paesi che combattevano per la libertà o l’indipendenza sono stati rubati, lampante appare il caso della Palestina. Non si può dimenticare la moglie di Arafat al funerale con la borsa di Chanel. E’ chiaro che la madre di un ragazzino morto durante l’intifada non può non chiedersi se un sacrificio così alto non sia servito solo per comprare una borsa alla moda.
Il terrorismo, come dicevamo, non è che uno dei tanti modi per arrivare al potere, chi ci è arrivato usando l’ideologia politica si è dimostrato spesso più disonesto dei predecessori che aveva combattuto. La speranza allora viene riposta nei religiosi che appaiono più onesti, magari alla fine si corromperanno anche loro, ma al momento rappresentano una speranza per i disperati.

Come si combatte il terrorismo fondamentalista?
Ho conosciuto dei terroristi del Gia e del Fis in carcere, anche uno di al-Qaeda, e devo dire che facevano paura; con loro non c’è spazio per il ragionamento, è gente estremamente determinata con un estremo potere di ricatto sui loro conterranei che temono rappresaglie in patria.
Sicuramente questi terroristi si combattono con l’intelligence, con le truppe sparse in missione nei vari punti della terra, ma soprattutto bombardandoli di informazioni. Dobbiamo farci odiare di meno, tutti abbiamo bisogno di un rapporto più disteso, credo che la reciproca conoscenza anche sui canali satellitari sia un buon inizio, anche se purtroppo i network funzionano secondo criteri commerciali e non sono interessati ad avvicinare le culture.
Mi capita spesso di lavorare con i rifugiati e questi spesso ci considerano superficiali, disinteressati ai loro problemi, nonostante ci preoccupiamo della loro permanenza, quando non addirittura corresponsabili dei loro drammi.
Ci odiano e dobbiamo far sì che questo odio diminuisca.

Considerando il percorso della nostra Repubblica, da mani pulite, al crollo dei partiti tradizionali, l’arrivo al potere di figure diverse dai politici degli anni ’70, insomma considerando il punto in cui siamo nel 2009, tutta la tua lotta ha avuto senso?
In chiave non marxista sì, nel senso che una cosa si può fare anche se non funzionerà, anche se non garantisce la presa del potere.
La nostra versione della lotta armata era poco più di un’affermazione al diritto alla sopravvivenza, proclamavamo il diritto all’inattualità, ad essere fuori dal coro. Era nelle cose che avremmo perso.
La cosa buffa è che hanno vinto dei nostri parziali compagni di strada, che oggi fanno finta di non conoscerci, ma questo succede spesso nella vita, con le ex fidanzate come con gli ex compagni di scuola che hanno avuto successo nella vita.

Insomma non ci credevate proprio ad una vittoria?
Mai conosciuto uno di noi che immaginasse la vittoria. Forse qualcuno di 3° Posizione ci sperava, ma loro erano diversi da noi, loro facevano politica, noi testimoniavamo l’esistenza, il diritto a vivere.
Non eravamo interessati a presentare istanze tranne quella di vivere.

Avevate previsto una fine temporale alla lotta?
Sì, la nostra lotta era a termine; siamo rimasti sulla piazza dopo la caccia alle streghe successiva alla strage di Bologna. Forse saremmo dovuti scappare tutti quanti il più lontano possibile, ma nessuno ci è risuscito.

Che emozioni provavi durante un’azione?
Una risposta a questa domanda potrebbe facilmente essere fraintesa e strumentalizzata. Ti faccio un esempio: esisteva la mistica dell’azione militare per cui chi rischia la propria vita diventa giudice della vita degli altri, equazione che ho sempre considerato sbagliata, può essere una sensazione viscerale ma non un ragionamento valido.
Quando ragionavo con i nostri ragazzi più esaltati cercando di spiegargli che fare una rapina non è difficile, se rapini una banca non sei un superuomo, dieci o cento rapine non ti danno il diritto ad essere giudici dell’umanità. Per far capire questa mia idea portavo i ragazzi a fare le rapine in banca, dimostravo che si possono fare rapine una dietro l’altra, più rapine al giorno e che bastava un quarto d’ora di preparazione; questa semplificazione doveva servire a smitizzare la figura del militare. Il risultato era che questi ragazzi davanti ti dicevano che non era nulla di speciale, poi andavano dai loro amici e si vantavano. Qualcuno di loro ha addirittura iniziato a pensare veramente di essere un superuomo.
Comunque ritornando alla domanda l’emozione principale era la paura.

Cosa succede alle persone in azione?
Succede che le persone danno il peggio e il meglio di sé, quando ci si deve salvare uno con l’altro, o quando si deve portare a casa l’amico ferito, i rapporti di amicizia e di affetto si cementano in maniera quasi indissolubile.
A me sono rimasti forti rapporti di solidarietà e amicizia, tanta ammirazione per chi, nei momenti difficili, ha privilegiato salvare il proprio amico anziché fuggire.

In guerra si predilige ferire il nemico così da fargli impegnare più risorse, i Nar spesso utilizzavano il colpo di grazia, è un comportamento contrastante con le tue idee organizzative…
Il gruppo è stato composto e capitanato da persone diverse, io ho sempre rivendicato che dopo 50 e più rapine non ho mai ucciso e nemmeno ferito, nessuno. Era per me un vanto considerare solo il minimo uso della forza, era così che concepivo il ruolo del terrorista.
Se devi scontrarti con lo Stato sulla base del volume di fuoco, lo Stato sarà sempre superiore. Non ha senso scendere ad un confronto basato sulla violenza pura. Lavoravo sempre nell’insegnare ai ragazzi che il terrorista sorprende e convince laddove porta a compimento, in maniera pulita, azioni in cui la stragrande maggioranza dei criminali userebbe brutalità.
Se vuoi fare politica le cose stanno così, altrimenti fai il mafioso; il camorrista campa terrorizzando il quartiere. Nonostante il nome, il terrorista, se davvero ama la politica, se davvero vuole convincere qualcuno delle sue idee, non può semplicemente presentarsi come il più cattivo di tutti.
Ho sempre creduto che il rapporto con gli avversari e i nemici avesse delle regole di rispetto, la mia regola non prevede il colpo di grazia, so che molti invece l’hanno fatto, ma per un motivo meschino, questi pensavano di giocare con la rivoluzione, e lasciare un testimone vivo poteva impedirgli, un domani, di tornare a fare la vita di sempre.
Uccidere per non lasciare testimoni non mi appartiene, si può, secondo me, uccidere un nemico come punizione esemplare, mai per la comodità di non avere una persona che ti può riconoscere. Credevo allora, e credo tuttora, che uccidere una persona per questo motivo sia un gesto vile.

Se Valerio potesse ritornare indietro nel tempo cosa direbbe a Giusva?
Direi a Giusva le stesse cose che mi diceva mio padre, a cui non ho dato ascolto proprio perché venivano da mio padre. Il Valerio di oggi, sopravvissuto a 20 anni di carcere, di cui 8 in isolamento, direbbe a Giusva che la coerenza ed il rispetto per se stesso e per gli altri gli appartengono, e alla lunga pagano; anche se a livello interiore, anche se non portano ad un favoloso stipendio o alla promozione sociale.
A Giusva darei gli stessi consigli saggi che mi dava mio padre anche se a diciotto anni non si ascoltano. A quell’età si capisce la differenza tra bene e male, ma credo che per una questione “ormonale” si ha bisogno di appartenere a qualcosa, un’idea o un gruppo, spesso per evitare l’accusa di vigliaccheria ci si schiera, per una banda o per l’altra, senza essere sicuri della bontà o della giustezza delle idee ma solo per fare “qualcosa”.
Sapendo che c’è questo demone e siccome da un punto di vista emotivo, è meglio schierarsi dalla parte sbagliata piuttosto che non fare nulla per gli altri, consiglierei il giovane Giusva di evitare errori troppo clamorosi, e se proprio non potesse farne a meno, di cercare di salvaguardare quello che sono riuscito a salvaguardare io nella maturità, amicizie vere, affetti, rispetto.

Non potevi rimanertene negli Stati Uniti e aprirti un ristorante italiano invece della vita incasinata che hai avuto?
Non avrei mai fatto il ristoratore, amo la politica e avrei voluto fare l’avvocato internazionale, uno di quelli che si occupa dei rapporti tra gli Stati, il mio destino naturale sarebbe stato diventare un lobbista alle Nazioni Unite.
Quello che mi ha distratto da questo obiettivo è stata una scelta affettiva, avevo un fratello alla deriva che quando gli facevo discorsi troppo ragionevoli non li capiva, sosteneva che per me la vita fosse facile mentre per gli altri era dura. Questa affermazione mi turbava, la mia vita era effettivamente facile, forse perché la prendevo per il verso giusto, ma comunque sentivo in me il peso di un’accusa ferocissima, quella di non essere in grado di occuparmi delle vite degli altri o meglio, che la mia idea fosse quella di occuparmi degli altri ma standomene, comodamente, alle Nazioni Unite.
Mio fratello invece a sedici anni era sempre ingessato o ferito per le risse causate dalle diverse idee politiche, io lo consigliavo di pensare al futuro e all’Università, ma quando è stato il momento non è riuscito ad arrivare neanche all’economato per iscriversi che l’hanno riconosciuto e attaccato a colpi di spranga.
Io andavo all’Università e c’era gente che moriva, l’Onu avrebbe dovuto aspettare, c’erano cose a me più vicine di cui occuparmi.

La tua è stata lotta armata ma anche politica, avendo la possibilità di cambiare le cose quali scelte politiche ed economiche avresti voluto vedere in Italia?
Avrei mescolato, come ho fatto al mio interno, una cultura protestante di tipo bergmaniano, basata sul silenzio di Dio, sul fatto che Dio c’è ma con te non ci parla, e che non devi illuderti di decifrare le sue intenzioni; nella vita quotidiana Dio non interviene, lo fa solo nelle grandi questioni.
Avrei mescolato, una visione conservatrice sulle questioni economiche o spirituali, riferita all’intangibilità e alla forza dell’individuo rispetto allo Stato, ad una visione estremamente progressista dei diritti civili e umani. Avrei voluto un’ingerenza limitata dello Stato nella vita dell’individuo sul lato interno, mentre avrei preferito un impegno statale forte all’estero per garantire le libertà ed i diritti a livello internazionale.
Se fossi rimasto negli Stati Uniti sarei stato un liberal, mentre in Italia mi sento più conservatore.

Insomma non sei fascista, appena leggermente conservatore, con idee liberal… sei sicuro di essere di destra?
Non sono affatto sicuro di esserlo. Sono di destra perché mi diverte l’accezione negativa che ne danno.

Lo spontaneismo armato nasce dalla rabbia. Durante gli anni di piombo erano arrabbiati i camerati e lo erano i compagni, trenta anni dopo, alcuni giovani sono ancora arrabbiati, sono quelli che mettono a soqquadro le città durante i grandi eventi internazionali e che bruciano banche e McDonald’s, ti sembra la stessa rabbia?
La rabbia è un termine quasi neutro che appartiene alla gran parte dei giovani, la nostra rabbia era dovuta alla convinzione di non essere compresi. Rabbia portata dalla disperazione per non avere nessuno che potesse ascoltarci, che veniva dalla negazione del dialogo e dalla impossibilità ad esprimersi.
La scuola apparteneva ai ragazzi di sinistra, era un luogo in cui potevano fare il bello e il cattivo tempo, per i ragazzi di destra non c’erano spazi. La scelta violenta derivò dalla profonda convinzione che non potevano esserci altri modi di essere ascoltati. I ragazzi di oggi sono più fortunati, hanno a disposizione tanti mezzi, da Internet ai media alternativi, per cui il rischio che si creino sacche di disperazione con la conseguente rabbia è molto minore.
Non c’è da dimenticare però che in tutti i Paesi esiste una sacca di disagio sociale, e a volte di disagio mentale, esiste inoltre una certa percentuale di irriducibili che non hanno voglia di ragionare e di confrontarsi con i problemi veri. Non c’è da stupirsi, come esiste una percentuale di persone che crede nei dischi volanti o che teme l’invasione degli ultracorpi, teme il colpo di Stato, le multinazionali, Berlusconi o i comunisti, esistono sacche di irrazionalità che sopravvivranno sempre.
Ricostituire nel 2009 le Br o i Nar è insensato, fuori dal tempo, oggi mancano i presupposti che portarono alla nascita dello spontaneismo armato… certo rimane sempre la quota di irragionevoli e irriducibili di cui si diceva prima.

Esiste un antidoto alla rabbia?
La mia generazione è stata punita da un eccesso di retorica, ci hanno consegnato una versione della storia italiana palesemente falsa, i nostri genitori, sia di destra che di sinistra, che quei fatti li avevano vissuti, ce lo dicevano, la storia della Repubblica Italiana non è andata esattamente come è stato scritto; è stato tutto più controverso e spesso più sporco. Invece ci obbligavano ad una rilettura estremamente buonista, dove i buoni erano tutti da una parte e tutti i cattivi dall’altra.
I giovani percepiscono la falsificazione della storia e ne traggono deduzioni incredibili. Credo che l’antidoto alla disperazione e alla rabbia sia quello di ridurre il tasso di retorica e cominciare a raccontare, nei limiti del possibile, le cose come realmente sono andate, senza pretendere che ci si schieri tutti con le versioni ufficiali, ma lasciando spazio anche a quelle non ufficiali.

Un leader politico italiano che hai apprezzato?
Forse Craxi, per la sua abilità a portare un piccolo partito a fare l’ago della bilancia, barcamenandosi tra Dc e Pci senza farsi fagocitare. E’ stato un uomo politico molto abile e per molti versi ideologicamente corretto. E’ uno di quelli che ha governato tentando di non spaccare il Paese, senza cavalcare la strategia della tensione o il pericolo rosso.
Un uomo quasi costretto alla corruzione, in quanto capo di un partito che doveva sopravvivere in mezzo agli squali e doveva farlo anche macinando denaro.

Oggi lavori per “Nessuno Tocchi Caino”, in passato i tuoi (dei Nar) sono stati sia giudici sia carnefici…
No lo siamo stati tutti, anche il fondatore dell’associazione era un ex terrorista di “Prima linea”…

Sei favorevole o contrario alla pena di morte?
Negli Stati Uniti si sta affermando un movimento di pensiero: in tanti sono favorevoli, in linea astratta di principio, ad una pena che nelle sue estreme conseguenze possa arrivare alla morte, gli stessi però, considerando che l’errore è sempre in agguato, sono molto restii a pensare ad una sua applicazione reale. Mi trovo molto vicino a questa posizione.

Questo oggi, e trenta anni fa?
Ero favorevole allo scontro, anche armato, a viso aperto. Sono sempre stato contrario alla decisione “burocratica” di uccidere qualcuno, saltavo sempre la parte in cui, a tavolino, si pianificava un omicidio. Ovviamente facendo parte di un gruppo se la decisione era stata presa davo il mio contributo.
Ai tempi della lotta armata, per ovviare alla mia incapacità di mettere una firma su un omicidio, forse in maniera vile, mi convincevo, non di compiere una sentenza di morte ma di accompagnare un amico, per guardagli le spalle durante un’azione pericolosa.

Perche sei andato a lavorare a “Nessuno tocchi Caino”?
Perché volevo dimostrare che un criminale anche feroce se trattato in un certa maniera, senza troppe umiliazioni, senza troppe percosse e con la speranza di una via d’uscita, può cambiare e questo ritornando alla domanda di prima, rende la pena di morte superata.
Con il mio lavoro quotidiano e con la mia presenza vorrei inoltre testimoniare che non tutti i processi sono giusti, ho subito dei processi giusti per cose gravi e su quelle c’è stato spazio di recupero e ragionamento, e alcuni su cose gravissime in cui sono stato condannato e non sono colpevole. Ed io non sono l’unico caso.

Sei stato tu a mettere la bomba nella stazione di Bologna?
No.

Si dice in giro che hai contattato i familiari delle persone che avete ucciso… è vero?
Sì.

Con qualcuno c’è stato un chiarimento?
Con qualcuno sì…


FOTO: Valerio Fioravanti

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