Intervista a Nicola Minasi, diplomatico, autore
di “Mille giorni a Kabul”. I talebani non sono
un gruppo omogeneo, ma una galassia
che va dalla criminalità al terrorismo. E l’ottica
predominante nel Paese è quella tribale
“A Kabul ogni cosa sembra provvisoria, le giornate possono prendere pieghe inaspettate, non si sa mai quello che può succedere. L’imponderabile fa parte del presente immediato. Di certo viene più facile pensare alla vita e alla sua fine e si capisce meglio che ogni momento è strappato alle grinfie della morte solo se viene vissuto. E’ un sentimento strano, notevole. Altrove sarebbe forse più difficile averlo così presente”.
“Mille giorni a Kabul” di Nicola Minasi offre molto di più di una semplice “immagine d’insieme corretta” sulla realtà afghana, obiettivo che l’Autore ci segnala nella premessa al suo lavoro, edito da Rubbettino. Il lettore attento si troverà immerso nelle contraddizioni di un Paese segnato da anni e anni di sanguinosi conflitti, nelle chiassose viuzze del mercato vecchio di Kabul, tra la sua gente. E gli sembrerà pure di partecipare alle numerosissime conferenze e riunioni tra i rappresentanti di Stati ed organizzazioni internazionali che l’Autore ci racconta con dovizia di particolari, o di esser presente nei concitati momenti che precedono la liberazione del giornalista di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, sequestrato dai talebani nel 2007. “Da uno sguardo personale emergono la sfida di una missione avvincente, i pregi e i limiti dell’impegno internazionale e l’emozione di una scoperta continua”.
Dott. Minasi, cosa l’ha spinta, dopo la laurea ed il master a Londra, ad intraprendere la carriera diplomatica? Quali sono le sue aspettative e i suoi timori?
In realtà l'idea di entrare nella carriera diplomatica è stato il motivo dietro il mio master, per ampliare gli studi con nuovi approcci alle relazioni internazionali.
Dell'attività diplomatica amo molto la possibilità di conoscere realtà lontane dall'interno e l'incredibile varietà di lavoro, che a volte, nello stesso giorno, può riunire attività di promozione culturale, indagine politica, studio economico e anche attività militare. Se si riesce a restare curiosi non c'è timore di annoiarsi, ma richiede notevole impegno.
Dove è stato assegnato per il primo incarico?
La prima sede è stata Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. È stata una grande occasione per esaminare dall'interno come funziona uno Stato e ho avuto la fortuna di farmi introdurre da vari amici nella cultura locale.
Cosa la affascina dei Paesi di lingua e cultura araba?
La loro ricchezza culturale e, in molti tratti, una somiglianza sociologica con il mondo mediterraneo dell'Europa, in particolare l'Italia meridionale. Forse perché ho origini calabresi mi sento a casa tra gli arabi.
Trovo anche una certa saggezza che a volte è difficile conoscere per gli stessi arabi e che va riscoperta e diffusa con un certo sforzo.
Qual è stato, nel 2005, il suo primo pensiero dopo la notizia dell’incarico in Afghanistan?
Avevo domandato io di andare, ma al momento di formalizzare la domanda era in corso il rapimento di Clementina Cantoni, una ragazza italiana che lavorava a Kabul per una Ong (l'ho conosciuta quando sono rientrato da Kabul! Tra l'altro, è molto umile e gentile). Quindi sapevo che avrei dovuto stringere i denti.
Lei scrive: “Questo è il loro Paese, il loro mondo, ma io, noi, non lo vediamo mai con i loro occhi: è sempre un ‘qualcos’altro’ che va ridotto, aggiustato e interpretato e, alla fine, diventa artificiale”. Quanto è importante per un diplomatico un atteggiamento “empatico” nel rapportarsi con le persone del Paese che lo ospita, soprattutto in contesti culturalmente assai diversi dal nostro?
Dipende dai caratteri e dalla propensione personale. Un diplomatico lavora sempre per il proprio Paese, ma naturalmente le possibilità di successo dipendono dalla capacità d'interagire con i settori giusti della società che lo ospita.
Tenere presente l'ipotesi che ci sia “altro” rispetto ai soliti punti di riferimento e stabilire un'intesa con gli interlocutori può aiutare a capire meglio la realtà circostante e le sue sorprese.
In contesti lontani, specie quelli complessi come l'Afghanistan, credo che un errore da evitare sia di tenere un atteggiamento di superiorità e giudizio negativo sulla cultura locale.
Un bravo diplomatico deve riuscire a conciliare le proprie idee, la propria coscienza, con le scelte del Governo che rappresenta: non le è mai capitato di vivere conflitti tra posizioni contrastanti, trovandosi in difficoltà davanti ai suoi colleghi di altri Paesi?
Fare gli interessi del Paese richiede di usare tutte le risorse e le possibilità per perseguire una linea particolare, se necessario. Del resto la funzione della diplomazia di carriera è proprio questa: mettere una competenza al servizio del Paese e del governo, qualunque esso sia.
Può senz'altro accadere di doversi opporre ad altri Paesi, ma l'importante è non metterla sul piano personale; del resto, sarebbe grave decidere sulla base della simpatia!
La strada verso la pacificazione dell’Afghanistan pare davvero ancora lunga, e tutta in salita: secondo lei la strategia attuale può portare a dei risultati o è necessario ripensare al ruolo della comunità internazionale?
Personalmente credo che l'Afghanistan sia un caso di studio di come la complessità della ricostruzione in Paesi di post-conflitto richieda un particolare sforzo di coordinamento internazionale.
La chiave della ripresa potrebbe essere un'analisi degli snodi passati e di cosa non ha funzionato e l'individuazione di una sintesi tra i vari orientamenti nazionali, a cominciare dai Paesi vicini all'Afghanistan.
Quali le differenze tra le operazioni Isaf ed Enduring freedom?
“Enduring Freedom”, che tuttora esiste anche se ha cambiato nome, era ed è destinata ad eliminare attivamente al-Qaeda e i suoi terroristi, mentre Isaf - Forza Internazionale di Sicurezza e Assistenza - è rivolta al mantenimento della stabilità. Nei fatti, però, le due missioni sono sempre più sovrapposte, anche perché la maggioranza dei militari stranieri in Afghanistan viene dagli Usa ed è sotto il comando di un generale Usa, che comanda anche Isaf.
Intere province del sud del Paese sono tuttora controllate dai talebani: chi sono, cosa rivendicano, e perché lo Stato afghano non riesce ad esercitare il suo potere (la sua “sovranità”) anche in questi territori? I talebani sono un gruppo omogeneo o esistono anche fazioni più, come dire, “moderate”, da coinvolgere eventualmente, a determinate condizioni, nel processo di pacificazione del Paese?
Fin dall'unificazione dell'Afghanistan, nel 1747, il governo di Kabul ha sempre avuto problemi a farsi rispettare nell'intero territorio. Stare con o contro il governo è sempre stata una questione affrontata in un'ottica tribale e con interessi immediati. Purtroppo con il lungo periodo di guerra iniziato negli anni '80, e di fatto quasi mai chiuso, la logica tribale è stata condizionata anche da altri fattori economici e di interessi illegali. Questo rende ancora più difficile per lo Stato ottenere la lealtà dei cittadini, specie fuori dei centri urbani.
Allo stesso tempo i talebani non sono un gruppo omogeneo, ma una galassia che si appoggia su molte posizioni antigovernative, dalla criminalità al terrorismo vero e proprio. Di certo una strategia di inclusione di vari settori può fare abbandonare la lotta armata e questa è una delle opzioni fondamentali su cui si sta lavorando oggi.
Nella garanzia e protezione dei diritti fondamentali della persona, quanto ‘pesa’ oggi lo Stato afghano e quanto, invece, ancora è lasciato al lavoro delle Ong?
È un processo lungo e lento, con alti e bassi. Sicuramente lo Stato non ha né la storia, né la capacità per assicurare da solo il rispetto dei diritti della persona.
Sono in corso grandi sforzi e lo stabilimento della cultura della legalità non può che essere il risultato di un intreccio paziente e continuo tra Stato, popolazione, Ong e Organizzazioni Internazionali.
Le persone comuni, quelle per intenderc iche incontrava per strada, come vedono la massiccia presenza straniera? Come tentativo di poter finalmente costruire assieme un futuro o semplicemente come una delle tante “invasioni” del loro Paese?
Gli afghani hanno già visto venire ed andarsene molti stranieri e ciò crea una tendenza a prendere il più possibile da loro finché si può, senza fare affidamento sul futuro. Questo è il risultato di molte invasioni e del crollo di fiducia subito dalla gente per lo stesso sistema afghano. Occorre che la popolazione, anche nei villaggi, capisca che gli stranieri stanno lì con una missione di aiuto vera e che conviene attuare un circolo virtuoso con loro.
Convincere tutti che ci possa essere un futuro migliore è la prima sfida da vincere. Ma è difficile, anche perché gli stranieri dovrebbero tutti parlare all'unisono, e non è sempre così.
Lei ha avuto la fortuna di incontrare la Principessa India – figlia di Amanullah, il Re che nel 1919 dichiarò l’indipendenza dagli inglesi, allacciando due anni dopo relazioni diplomatiche con l’Italia – con la quale visitò la vecchia Kabul, quartiere dove il tempo sembra essersi fermato. Come era l’Afghanistan ai tempi della monarchia?
La monarchia di Amanullah Khan - il padre della Principessa India - e di quello successivo, concluso con l'altro ramo di re Zaher, esiliato nel 1973, è stata largamente pacifica, ormai ricordata come una sorta di età dell'oro. Era tuttavia anche un periodo di libertà politiche limitate e dove già si allungavano gli interessi contrastanti delle varie potenze all'epoca della Guerra Fredda.
Che cosa le ha lasciato l’Afghanistan e quale futuro auspica per questo Paese?
L'Afghanistan mi ha mostrato i rischi di lavorare in un Paese complesso sulla base di stereotipi e mi ha fatto intravedere meglio cosa lo sforzo internazionale possa realizzare per un Paese da ricostruire: anche gli errori mostrano le potenzialità ed indicano come migliorare.
Penso che in Afghanistan serva ancora molta pazienza e auspico che i Paesi più coinvolti sappiano riorganizzare la propria presenza, così da massimizzare i risultati nei confronti della popolazione e creare una fiducia costruttiva.
FOTO: Nicola Minasi - Segretario di legazione dal 2005 al 2008 presso l’Ambasciata d’Italia a Kabul – è nato a Roma nel 1973 (pur di origini calabresi). Entrato nella carriera diplomatica nel 1999, dopo una laurea in Scienze Politiche alla Luiss di Roma e un Master in “Studi dello Sviluppo” conseguito alla “London School of Economics”, lavora attualmente all’Unità di Crisi del Ministero degli Affari Esteri.
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