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dicembre/2009 - Interviste
Afghanistan
“Piaccia o no, per loro siamo occupanti”
di a cura di Michele Turazza

“Ma se diventi amico, si privano del cibo
per dartelo”. Intervista ad Alessandra
Vaccari – giornalista de l’Arena – embedded
a Kabul nei giorni dell’ultimo attentato
contro militari italiani (settembre 2009)


Tra la gente: è qui che il giornalista dovrebbe stare, per Alessandra Vaccari, dal 1992 redattore de “l’Arena”, il quotidiano di Verona. Dietro la scrivania c’è sempre stata poco, l’indispensabile per scrivere i suoi pezzi, e poi via, ancora fuori, sul campo, tra la gente, a raccogliere testimonianze e raccontare la vita di provincia, solo apparentemente piatta e monotona. Fino a ricevere in passato anche minacce di morte, per il suo coraggio e la sua grinta, la sua ostinazione nel voler esserci, capire e... raccontare. Soprattutto quando si tratta di casi complicati di cronaca nera, dai quali talvolta l’opportunità, talvolta il rischio a cui espongono chi li tratta, consiglierebbero di tenersi a debita distanza. Ma lei vuole esserci, semplicemente perché è il suo lavoro. Tali sono la passione e la motivazione che non si è fermata, né davanti alla frontiera della Birmania, Paese in cui è entrata clandestinamente per raccontare la storia del popolo Karen, né di fronte ai pericoli della guerra, aggregandosi come cronista embedded alle truppe italiane inviate in Afghanistan, per essere con loro in prima linea. Ancora una volta, tra la gente, proprio nei giorni dell’attentato dello scorso settembre in cui persero la vita sei giovani soldati italiani. L’abbiamo incontrata.

Cosa significa giornalista embedded e quali motivi l’hanno spinta ad aggregarsi come tale alle truppe italiane inviate in missione in Afghanistan?
Essere embedded significa essere aggregati. Quindi nel periodo in cui si va in missione si fa la stessa vita dei militari: si mangia, si dorme e si vive in caserma, con tempi scadenzati dal lavoro dei militari. Si esce anche con loro in pattuglia. Si fanno insomma le loro stesse cose con l'unica differenza che non si è armati. Ai giornalisti americani aggregati, invece, viene consegnata anche una pistola.
Ho scelto di andare per documentare il lavoro delle nostre truppe, ed è stato relativamente semplice perché sono inserita in un elenco speciale del ministero della Difesa. Non era la prima volta che facevo un'esperienza simile, seppur, stavolta, per un tempo più lungo rispetto al passato.

Cosa accadde il 17 settembre?
Appena atterrata con il C130 a Kabul, i militari iniziarono a dividerci in gruppi per spostarci in sicurezza, quindi sui Lince, nei luoghi cui eravamo destinati. Partì il primo gruppo e ci fu l’attentato. Morirono in sei. Erano ragazzi con cui avevo condiviso il viaggio, scambiato quattro chiacchiere, quelle che il rumore assordante dell'aereo militare aveva consentito.
Ho visto questi soldati sorridere e dormire tranquilli durante le cinque ore di volo da Abu Dabi a Kabul. Poco dopo ho saputo che erano morti. E mi sono resa conto che ero in un Paese in guerra. Che tutti all'improvviso eravamo diventati dei bersagli e che la nostra vita poteva non esistere più nell'arco di qualche chilometro.

Quale fu la reazione dei militari?
Ho visto militari piangere, imprecare, battere i pugni sui mezzi blindati. Ma li ho visti anche reagire, uscire dall'aeroporto a pattugliare le strade in cui c'era stato l'attentato. Ho visto uomini addolorati, ma non piegati dalla disperazione. Credo che l'addestramento in questo serva molto. Ti insegnano, tra le altre cose, a dominare le tue reazioni.

E quella della “gente comune” di Kabul?
Gli afghani sono in guerra da sempre. Prima gli inglesi e i russi, ora gli americani e noi. E' un popolo fiero, rassegnato. Quando accade un attentato scappano, se ci riescono. Vanno a prendersi quello che resta, cose che possono riutilizzare o rivendere. In qualche caso, come durante un altro attentato, accaduto una settimana dopo a Herat, aiutano. Quella volta vennero feriti due nostri militari, uno di Legnago (in provincia di Verona).
Il bilancio sarebbe stato peggiore se la popolazione locale non avesse avvertito che c'era un'imboscata e non avesse soccorso i nostri feriti.

L’obbedienza agli ordini è un dovere per ogni soldato: ma i giovani impegnati in Afghanistan come considerano la missione in Afghanistan? Sono veramente convinti di poter contribuire al cambiamento del Paese, oppure ultimamente prevalgono sentimenti di sfiducia e rassegnazione?
Mai sentito frasi di scoramento, di abbattimento. Ho conosciuto militari preparati e convinti di quello che fanno. Certo, eseguono ordini. Lì vengono mandati e lì vanno. Le opinioni non contano. Chi sceglie di fare il militare sceglie di ubbidire, sapendo che può morire in un attentato, per uno sbaglio, per fuoco amico. E' un rischio che sanno di correre. Come lo sanno i loro familiari.
Non lo fanno per soldi. Rischiare di saltare per aria, morire o restare mutilato per cinquemila euro al mese? Non c'è nessuno che lo farebbe. Non per soldi.

Come vedono gli afghani la massiccia presenza di Forze militari straniere?
Difficile capirlo. Noi siamo occupanti, piaccia o no. In tv vediamo le città come Herat e Kabul, ma non la maggior parte della popolazione che vive tra le montagne, non ha un televisore o un cellulare. Non ha acqua corrente o energia elettrica. Il livello è tribale. Come possono accettare di vedere mezzi blindati che passano sulla loro terra?
Quelli a contatto con i militari accettano gli aiuti, vanno negli ospedali che noi abbiamo costruito, si fanno dare medicine e cibo. Ma non sono molti ad amarci e non perché siamo italiani, ma perché facciamo parte di una coalizione che è in Afghanistan per ragioni, almeno quelle ufficiali, che, da sole, non convincono alcuno.

Tornerà in Afghanistan?
Ci tornerei adesso. Ci tornerò per lavoro e un giorno magari da viaggiatore. Sarebbe un Paese stupendo, pieno di contraddizioni, ma affascinante. Si mangia molto bene. Se ti conosce, e sa che sei amico, l'afghano ti ospita a casa, si priva del proprio cibo per dartelo. Dorme a terra vicino al tuo letto per proteggerti come mi era accaduto qualche anno fa quando nel Panjshir intervistai il figlio di Ahmad Massoud, ucciso il 9 settembre 2001, da sedicenti giornalisti. E la fierezza di certi sguardi non può che ingenerare rispetto.

FOTO: Alessandra Vaccari (al centro) con un gruppo di bambini afghani

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