Nella Repubblica Democratica del Congo
i crimini di violenza sessuale sono onnipresenti
in tutto il Paese, in particolare aumentano
nella regione del Sud Kivu. E per dare speranza
alle donne congolesi nasce City of Joy,
un programma congiunto di Unicef, Ospedale Panzi e V-Day (movimento globale per porre
fine alla violenza contro donne e bambine)
E’la terza nazione per estensione geografica e la quarta per numero di abitanti nel continente africano. La Repubblica Democratica del Congo ha anche il triste primato non solo a livello africano ma addirittura mondiale di essere una sorta di inferno, di ground zero per le donne.
Se la natura congolese presenta foreste, laghi, fiumi e paesaggi mozzafiato, sul versante sociale la situazione ha ben poco di idilliaco. Dal 1996 il Congo è stato teatro di uno dei conflitti più sanguinosi del dopoguerra. Oltre cinque milioni di persone sono morte, un milione risultano disperse e 45.000 persone continuano a rimanere vittime delle guerre civili e della povertà. Come in molte situazioni di conflitto la violenza di genere assume livelli endemici ed in Congo, considerato il posto più pericoloso al mondo per le donne, assume i contorni di una situazione infernale. Secondo Eve Ensler, fondatrice del V-Day, organizzazione internazionale che lotta contro la violenza alle donne, “le donne hanno pochi diritti. Non sono percepite come cittadini eguali. Penso che queste atrocità abbiano, stranamente, normalizzato lo stupro. Così ora non sono solo l’Esercito congolese e le fazioni ad esso contrapposte a violentare le donne, ora sta diventando qualcosa di ordinario. La violenza domestica è aumentata in maniera esponenziale nelle famiglie”. Lo stato incessante di guerra civile ha reso la vita delle donne congolesi estremamente pericolosa. E le violenze arrivano a livelli estremi. “I gruppi armati attaccano le comunità locali e brutalizzano, rapiscono e violentano le donne e i bambini facendoli lavorare come schiavi sessuali.” La dichiarazione di Yakin Erturk, inviata speciale dell’Onu sulla violenza, che ha visitato il Congo orientale nel 2007, non lascia adito a dubbi.
Non che la condizione femminile sia mai stata eccellente. Le tradizioni tribali misogine unite alle legislazioni coloniali hanno relegato le donne ad uno status di inferiorità sociale e politica. Se negli anni ’90 diverse donne hanno fatto il loro ingresso nella forza lavoro, pur rimanendo sottorappresentate ed essendo pagate meno dei colleghi maschi, diverse leggi apertamente discriminatorie sono rimaste nel Codice di famiglia. Le donne sono obbligate ad avere il consenso del marito per aprire conti correnti, vendere o acquistare, aprire attività commerciali, ecc.
Per le donne rurali la situazione rimane ancora più negativa. Lontano dalle possibilità di commercio informale che si presentano alle donne urbane, le contadine sono ad altissimo rischio di povertà, anche a causa dello sfruttamento massiccio delle terre, coltivate intensivamente a caffè e quinoa i cui prodotti sono destinati all’esportazione. A questo si aggiunge la tradizione che vuole che siano gli uomini a decidere come e cosa coltivare e questo rende la condizione delle donne rurali ancor più precaria. Certo, ci sono delle eccezioni. Nell’etnia dei Lemba la condizione femminile è decisamente migliore.
Alden Almquist, all’inizio degli anni ’90, ha fatto una ricerca pubblicata in “Zaire: a country study” che mostra come presso i Lemba le condizioni di salute dei bambini sia significativamente migliore rispetto ad altre etnie. E questo perché le donne, all’interno delle famiglie, tenevano da parte il cibo per loro stesse e per i figli prima di servirlo agli uomini.
A ciò si aggiunge il fatto che c’è stata, almeno finora, una scarsa attenzione alle prospettive ed alle esperienze delle donne nel lavoro sul terreno legato ai fondi per lo sviluppo provenienti dai Paesi occidentali. Tutto questo però, per quanto serio, costituirebbe un problema quasi minimo se non fosse accompagnato da un contesto di violenza estrema contro le donne che nel contesto congolese è stupro di guerra. Lo stupro di guerra è una violenza sessuale ai danni di donne e bambini perpetrata da militari o da fazioni non governative in lotta. Viene usato come mezzo psicologico per demoralizzare e distruggere il nemico. Attualmente riconosciuto come crimine di guerra e crimine contro l’umanità, lo stupro di guerra può anche essere una violenza sessuale di gruppo o con oggetti. Se nella storia lo stupro di guerra è sempre disgraziatamente accaduto, solo da poco questo tipo di violenza viene preso in considerazione con la sua specificità di genere. Salvo rare eccezioni, in cui a subire la violenza sono uomini, le vittime sono sempre donne e ragazze.
Gli effetti dello stupro di guerra, quasi sempre più brutale di quello commesso in altre circostanze, sono devastanti. Malattie veneree o sessualmente trasmissibili, contagio da Hiv, gravidanze, si associano al fatto che, per le vittime, è molto spesso difficile ottenere farmaci e cure mediche adeguate o poter avere accesso alla contraccezione di emergenza o all’aborto. Dal punto di vista psicologico le vittime vivono in uno stato di paura e disperazione, ansia e depressione con correlati disturbi psicosomatici. Nei casi più estremi lo stupro di guerra avviene con l’introduzione di oggetti acuminati che provocano lacerazioni nei muscoli che separano la vagina dal retto con il risultato di gravi problemi sanitari come l’incontinenza. Oltre a questo si aggiunge lo stigma sociale che accompagna le donne vittime di stupri. Ad essere considerate sporche ed indesiderate sono le vittime, non chi commette gli atti di violenza, anche perché le donne violentate sono viste come adultere. I casi in cui ad essere oggetto di violenza sessuale sono stati uomini lo stupro si accompagna all’ostracismo sociale che circonda chiunque è anche solo sospettato di omosessualità.
Poco, di tutto questo, arriva nei media occidentali. Sempre di più sembra che l’importanza di notizie legate alla violazione dei diritti umani dipenda da chi li commette e li subisce e non dall’entità degli stessi. I media progressisti, in genere, sono molto interessati alle violazioni dei diritti umani commessi dall’Esercito statunitense e dedicano uno spazio scarso se non inesistente a situazioni in cui si presentano situazioni di violenza estrema per quantità e qualità. Il Congo e il Darfour ricevono ben poca attenzione, decisamente meno di quanto la situazione meriterebbe, come mi è stato confermato in una conversazione informale da una collega che lavora al desk esteri di un noto quotidiano italiano. Le vittime di stupri del Congo sono, agli occhi di chi decide quale notizia va pubblicata e quale no, meno importanti dei palestinesi. Sul fronte contrapposto, quello dei media conservatori, molto attenti alle derive totalitariste e liberticide dei Paesi islamici, c’è lo stesso disinteresse. Dal momento che chi commette le violenze in Congo non aderisce alla fede islamica e l’Islam è assolutamente minoritario nel Paese, allora ha ben poca importanza denunciare tali atti di violenza. Lo stesso vale per i femminicidi in Nicaragua, le centinaia di donne uccise a Ciudad Jurarez in Messico, la violenta omofobia in Giamaica o il clima di violenza di genere in Sudafrica.
L’ideologia disgraziatamente prende il sopravvento sul diritto/dovere di informazione in molti media che si riconoscono nei due opposti schieramenti politici e di pensiero.
Da contraltare proprio in Congo si levano voci coraggiose di donne che si adoperano, anche correndo grandi rischi personali per far in modo che le denuncie delle donne vittime di violenza non cadano nel silenzio.
La South Kivu Women's Media Association da alcuni anni ha raccolto in cassette e cd le storie delle donne violentate. Le testimonianze, attraverso club di ascolto locali, raggiungono le donne di diversi villaggi che apprendono informazioni relative all’aiuto medico e legale che possono ricevere. L’associazione, creata nel 2003, raggruppa una quarantina di donne che lavorano nel mondo dell’informazione, in particolare alla radio in una regione, il South Kivu, ad alto tasso di violenza sessuale. Malgrado gli sforzi lodevoli a livello locale, il silenzio dei media a livello mondiale continua e genera indifferenza in termini di aiuti umanitari e diplomatici. La piaga degli stupri di guerra non arriva mai nelle prime pagine dei giornali e, di conseguenza, non è importante.
Un altro aspetto legato al Congo, invece, attira occasionalmente l’attenzione della comunità internazionale. L’estrazione mineraria ed i conflitti e l’instabilità sociale collegati alla stessa.
Faida Mitifu, ambasciatrice del Congo negli Stati Uniti, ha dichiarato, nel corso di una conferenza stampa organizzata dal consorzio di media delle donne Womensenews per porre l’attenzione alla piaga degli stupri di guerra, che la regione del Congo orientale è sotto influenza delle nazioni vicine e di aziende straniere che trasformano minerali estratti che serviranno per computer e telefoni cellulari. Sempre secondo l’ambasciatrice Mitifu, le zone di estrazione mineraria sono quelle in cui le varie milizie concentrano le loro attività. Per questo Enough Project, una coalizione di attivisti e legislatori, si sta adoperando per esercitare pressione sulle varie aziende affinché cessino di finanziare il commercio dei “minerali da conflitto” replicando cosi’ gli sforzi effettuati per fermare il commercio di diamanti in Sierra Leone e in Liberia, la cui estrazione con le attività ad esso correlate, contribuivano al clima di instabilità e violenza nei due Paesi.
Oltre 1.000 donne vengono violentate in Congo ogni giorno secondo le Nazioni Unite. Numeri così alti si spiegano solo con la situazione volatile che regna nel paese. Ci sono, comunque, delle voci che si stanno levando per sostenere le donne del Congo.Gli attivisti di Enough attraverso eventi nei campus stanno sensibilizzando una parte dell’opinione pubblica a sostegno di iniziative legislative che possono aiutare a riportare il Congo in una situazione più vivibile. Il Congo Conflict Mineral Act ha lo scopo di fare in modo che il commercio dei minerali cessi di contribuire a situazioni di conflitto, stabilendo altresì che una parte dei proventi vada direttamente alle popolazioni locali. Inoltre si stabilisce che le compagnie dichiarino con precisione la miniera di estrazione dei singoli lotti. L’attuale vicepresidente Joe Biden, da sempre molto attento alle questioni legate alla violenza di genere, è stato uno dei co-sponsor dell’Internation Violence against Women Act il cui scopo è assistere finanziariamente programmi sociali anti-violenza, stabilendo al contempo una strategia precisa per la riduzione della violenza sessuale in una decina di nazioni, tra cui il Congo, in cui i tassi di violenza risultano essere particolarmente elevati. Al fine di neutralizzare chi commette violenza, compito certo non facile, gli attivisti suggeriscono di offrire aiuti economici ed educativi a tutti coloro che rinunciano alla lotta armata e alla violenza. Porre fine al clima di impunità nei confronti di chi commette violenza è un altro obbiettivo a lungo termine non facile.
Le poche donne che hanno il coraggio di sporgere denuncia vedono molto raramente i propri aguzzini perseguiti e condannati a causa della corruzione del sistema giudiziario locale. Spesso, anche dopo i rari processi, i violentatori escono dal carcere dopo aver pagato sottobanco. Tutte le analisi relative alle cause che contribuiscono all’estrema e barbara ondata di violenza sessuale in Congo portano alla stessa conclusione: la lotta tra le fazioni armate per il controllo di una parte del commercio dei minerali ha avuto come effetto l’esplosione di comportamenti sempre più disumani di violenza estrema che si vanno ad innestare su un contesto già difficile per le donne.
In mezzo a tanti uomini che si comportano come delle bestie ce n’è invece uno il cui comportamento è esemplare. Denis Mukwege è il direttore e fondatore del Panzi General Referral Hospital a Bukavu, nella regione del South Kivu. Lì il dottor Mukwege pratica operazioni chirurgiche che portano le donne colpite dalla fistula o da altri danni all’apparato riproduttivo a seguito di violenza sessuale estrema, a guarire e a poter vivere normalmente. Mukwege, uno dei leader del movimento V-men, composto da uomini che lottano attivamente contro la violenza alle donne, definisce la violenza sessuale “terrorismo sessuale”. Tramite un tour di sensibilizzazione promosso dall’associazione V-Day, il medico congolese racconta al pubblico le storie intime e personali delle donne che ha aiutato. E spiega che gli uomini congolesi devono cambiare e denunciare i sorprusi che vengono commessi da parte dei loro connazionali nei confronti delle donne. L’ospedale Panzi è solo il primo passo. V-Day e Unicef stanno collaborando per la costruzione della City of Joy, rifugio per donne che sono sopravvissute alla violenza ed alla tortura e che si trovano sole. La City of Joy sarà per loro un luogo dove rinascere, imparare un mestiere che garantirà l’indipendenza economica e, auspicabilmente, spingere queste donne a diventare le future leader del Congo.
Recentemente un aiuto importante è arrivato dagli Stati Uniti. Hillary Clinton, ora Segretaria di Stato, ha promesso 17 milioni di dollari per prevenire la violenza ed aiutare le vittime. “Crediamo che non ci debba essere impunità per la violenza sessuale e di genere commessa da così tanti e che ci debbano essere arresti, processi e condanne” a dichiarato la Clinton che è riuscita a strappare all’attuale presidente Joseph Cabila l’assenso per consentire il lavoro di un team di esperti statunitensi che facciano specifiche raccomandazioni su come combattere la violenza sessuale.
La visita della Clinton e la sua determinazione ad incontrare ed ascoltare i gruppi di donne che lavorano contro la violenza e alcune delle stesse vittime ha lasciato uno spiraglio di speranza in una delle zone del mondo più disgraziate. E, purtroppo, in massima parte dimenticate.
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