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dicembre/2009 - Articoli e Inchieste
New York
L’isola delle lacrime
di Giada Valdannini

Di fronte a Manhattan, a pochi minuti
di traghetto dall’isola principale
che costituisce il cuore della Grande
Mela, c’è Ellis Island, un isolotto
che, dal 1892 al 1954, è stato
la prima tappa, per oltre quindici
milioni di immigrati, molti dei quali
italiani, che partivano dalle loro
terre di origine sperando
di stabilirsi negli Stati Uniti


Ci sono luoghi in cui il senso d’appartenenza si fa vivo più che altrove. Luoghi in cui persino un cosmopolita finisce col ricordare da dove venga. Tanto più se si è italiani, storicamente viaggiatori. Più di recente, emigranti.
Ellis Island è uno di questi luoghi, un posto in cui la storia combacia con un’Italia diversa da quella contemporanea, un Paese in ginocchio da cui si fuggiva, valigia di cartone alla mano. E’ il porto in cui, tra il 1892 e il 1954, sbarcarono 22 milioni di immigrati, in quella che fu presto definita la più grande migrazione della storia. Una visita a quel che resta di questo antico arsenale nella baia di New York è un salto indietro nel passato comune. E visitarlo d’inverno fa ancor più impressione, quando l’imbarco è al mattino con l’aria gelida che taglia la faccia.
L’isola di Ellis è a poca distanza dalla Grande Mela: una traversata veloce e il traghetto molla i turisti nel passato. Sul barcone, gente infreddolita, intabarrata nei cappotti griffati mentre Manhattan, sonnolenta, accenna il risveglio. Gente diversa dai poveracci dei transatlantici che solcavano l’oceano, ma pur sempre italiana.
“Benvenuti a Ellis Island” - fa la guida in tono stanco - “l’isola dei sogni e delle lacrime”. Ed è in quel momento che il frastuono vacanziero viene meno, che persino le comitive più rumorose si fanno pacate. La fila all’ingresso è sotto la neve mentre tutto intorno è freddo e nebbia. Al pensiero di quelli che furono i cappotti di panno consunti e le scarpe di pezza, vengono i brividi. Gli scatti d’epoca ritraggono così i nostri connazionali: facce smunte e intimorite, nocche nodose di chi ha lavorato la terra. Così, lontano dai clamori di Manhattan, sono il silenzio e il gelo a farla da padroni.
Niente centri commerciali a spezzare il freddo, niente tepore dei cunicoli della metro: il vento a Ellis Island sferza impietoso. Tanto più d’inverno quando le temperature non disdegnano di scendere sotto lo zero. Sull’isola, unico riparo è una casermone di mattoni marroni e grigi: uno stile freddo e sobrio, dal sapore britannico.
Ellis Island è alla foce dell’Hudson, a pochi metri in linea d’aria dall’isola gemella che ospita la Statua della Libertà. Novantatre metri di scultura che sovrastano l’approdo di milioni di emigranti. Tra questi, moltissimi italiani. Padri di quella generazione oggi perfettamente inserita nel tessuto statunitense. Altra solfa allora, quando gli italiani erano percepiti alla stregua di intrusi, pezzenti che poco potevano portare se non malattie e miseria. E’ per questo che loro, come gli altri emigranti del resto, venivano trattenuti a Ellis Island, rivoltati da capo a piedi e ispezionati in ogni parte prima di esser liberati e quindi spediti sul territorio americano.
Nel museo che si trova all’interno della struttura, stupisce anche questo: il trattamento cui erano sottoposti gli immigrati, con pratiche mediche fin troppo invasive, il cui utilizzo è rievocato da strumenti chirurgici da insinuare in ogni cavità possibile, esposti oggi dentro grandi teche. Stetoscopi, uncini, bisturi e persino divaricatori per le indagini cui, comunque, erano sottoposte le donne. Al Servizio Immigrazione controllavano ciascun emigrante, contrassegnando con del gesso sulla schiena quelli che dovevano essere sottoposti a ulteriore esame. Banditi già all'ingresso infermi, dementi e malati gravi. “I vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità - si legge in un documento dell’epoca - sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano”. Tuttavia solo il due percento degli immigranti fu respinto. Per gli idonei, l’accesso alla Grande Mela era immediato come anche una prima destinazione agli uffici per il collocamento, in base alle capacità acquisite in patria. Muratori, falegnami, imbianchini erano dirottati nelle zone del territorio americano in cui c’era necessità di manodopera mentre le donne nubili erano attese al molo da americani, più spesso vecchi, disponibili a sposarle. In cambio, la cittadinanza statunitense. Ma tutta questa procedura, per quanto potesse sembrare brutale, era l’unica via d’accesso al ‘grande sogno’ e se a Ellis Island si arrivava impreparati, si rischiava il rimpatrio. Chi veniva trovato in condizioni inidonee all’accesso negli States, veniva spedito indietro.
Oggi, su quell’isolotto, resta una forte memoria degli italiani che vi transitarono: talvolta reietti da tenere in quarantena; soprattutto ‘diversi’ da tenere d’occhio. Di loro, centinaia di scatti, documenti, suppellettili e decine di valige di cartone. Niente accessori né mobilio, giusto il minimo indispensabile. Le famiglie, quelle sì, numerose e sempre al seguito. Non a caso, quindi, a un certo punto arrivò l’alt: erano troppi gli immigrati che tentavano di raggiungere lo Stato di New York. Così, dopo il picco del 1907 con 1 milione di ingressi, si corse ai ripari e dal 1917 furono modificate le norme d'ingresso con un limite ai flussi che fu imposto per legge. Al nuovo test d’alfabetismo da somministrare agli arrivati, dal 1924 si unirono le quote d’accesso: 17mila dall’Irlanda, 7mila dal Regno Unito, 2.700 dalla Russia e un massimo di 5.800 dall’Italia. Ma poi fu la Grande Depressione del ’29 a fare il resto con un taglio naturale dell’afflusso dal Vecchio Continente. E dai 241.700 ingressi del 1930 si arrivò ai 97mila del ’31.
A quel punto Ellis Island si trasformò in centro di detenzione per i rimpatri forzati dove dissidenti politici, anarchici, disoccupati e senza mezzi venivano trattenuti prima di essere imbarcati nuovamente alla volta dell’Europa. Uomini e donne al mittente: andata e ritorno in un solo viaggio. Un esercito di espulsi che va dai 62mila del 1931, ai 103mila dell’anno successivo, fino ai 127mila del 1933. Nonostante ciò più del 40 per cento della popolazione americana - circa 100 milioni di persone - è diretto discendente degli immigrati approdati ai moli di Ellis Island. Il museo, all’interno, mantiene la stessa struttura degli anni in cui il centro era in attività: una grande stanza al piano terra dove gli immigrati sbarcavano, una al primo piano dove erano smistati e dove restavano in attesa ore e persino giorni. Tutt’intorno, al piano superiore, un camminamento su cui si affacciano le stanze adibite a ostello per chi era costretto a fermarsi più del dovuto. A giudicare dalle foto alle pareti, la permanenza non era affatto piacevole tra letti impilati e promiscuità a più non posso. Una convivenza forzata al termine d'un viaggio lungo mesi, senza prospettiva, molto spesso, del futuro.
A raccontare quegli anni ci ha pensato di recente una splendida pellicola di Emanuele Crialese, Mondo Nuovo che tra realismo e poesia descrive gli emigranti italiani negli States. Una baraonda di gente spesso disperata che della nuova patria sapeva poco ma che sperava in un destino migliore di quello che avrebbe avuto in patria. A riprova di questo, alcuni documenti affissi a Ellis Island in cui l’imbarco per il nuovo continente era detto per “La Merica”. Pochi, tra gli emigranti, i benestanti che raggiungevano Ellis Island, servitù al seguito.
Sta di fatto che l’Isola di Ellis, non fu il primo porto a riceve gli immigrati negli States: prima lo stesso compito era assolto dal Castle Garden Immigration Departement di Manhattan dove transitarono, prima del 1892, 12 milioni di aspiranti statunitensi. La procedura era la stessa: sbarco, fila, riconoscimento, ingresso per New York o permanenza per ulteriori controlli.
In sostanza, Ellis Island non era nient’altro che una stazione di controllo sanitario e di identificazione che registrava arrivi alla media di 5mila al giorno con punte che raggiunsero le 10mila unità. Un mare di esseri umani di cui oggi, grazie alla tecnologia, resta traccia. Non a caso ogni visitatore di Ellis Island fa la coda al terminale del museo per dare una sbirciatina alla ricerca di un parente che ha lasciato l’Italia per stabilirsi negli States. Ma oggi la rete può molto di più: grazie al sito www.ellisislandrecords.com è possibile accedere a un archivio con 22 milioni di nomi, diviso per Paese di provenienza, città di partenza, nome della nave e altre indicazioni personali. E se siete in cerca del vostro passato, basta un clic: sarete tra i 9 milioni di persone che ogni giorno accedono al sito.

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