home | noi | pubblicita | abbonamenti | rubriche | mailing list | archivio | link utili | lavora con noi | contatti

Giovedí, 22/10/2020 - 15:05

 
Menu
home
noi
video
pubblicita
abbonamenti
rubriche
mailing list
archivio
link utili
lavora con noi
contatti
Accesso Utente
Login Password
LOGIN>>

REGISTRATI!

Visualizza tutti i commenti   Scrivi il tuo commento   Invia articolo ad un amico   Stampa questo articolo
<<precedente indice successivo>>
Novembre/2009 - Pubblicazioni
Ieri/Oggi
Quando le Brigate rosse uccisero un sindacalista comunista
di Emilio Belfiore

Un libro di Paolo Andruccioli ricostruisce
il tragico episodio della morte di Guido Rossa,
operaio e delegato all’Italsider di Genova,
ucciso il 24 gennaio 1979,
e elabora una precisa analisi della situazione
politica e sociale di quegli anni, che segnarono
a fondo il Paese in cui viviamo


“E qui sta l’altro aspetto importante di questa ricerca che mi ha coinvolto progressivamente portandomi su piani di riflessione che non avevo preordinato. Si tratta infatti di cercare di cogliere profondamente il senso della scelta di Guido Rossa. Nel periodo in cui ho lavorato al libro mi è capitato di parlare con tanta gente, con i compagni di Guido Rossa, con sindacalisti e politici, con colleghi giornalisti, con ex dirigenti del Pci genovese, con studiosi. Ho cercato di leggere tutto quello che è stato scritto in questi anni, a partire dal libro della figlia di Guido, Sabina Rossa. Ho avuto la sensazione impalpabile che quel gesto, quella scelta, non siano stati compresi appieno. Aleggia cioè, insieme a tutte le altre domande, un’altra domanda: perché lo ha fatto? Era davvero necessario esporsi fino a quel punto? E accanto a questo, un’altra domanda, ancora più insidiosa, che anche Sabina non ha rinunciato a rilanciare alla fine del suo libro inchiesta: ma ne è valsa la pena? Ecco, credo che qui ci sia la chiave di volta, una questione che parla al presente e forse anche al futuro della nostra democrazia. A questa domanda non si può rispondere con la retorica, né con formule semplicistiche o peggio ad effetto, che vanno bene per i convegni, ma non servono a tutti coloro che vogliono capire. Per poter decidere della propria vita”.
Con queste riflessioni Paolo Andruccioli chiude l’Introduzione del suo libro “Il testimone – Guido Rossa, omicidio di un sindacalista” (prefazione di Guglielmo Epifani, con una conversazione con Eligio Resta, Ediesse editore, pagg.174, euro 20), distribuito unito al dvd del film di Giuseppe Ferrara “Guido che sfidò le Brigate rosse”. Un libro sull’operaio dell’Italsider di Genova, delegato di fabbrica, ucciso trent’anni fa dai terroristi delle Br, potrebbe apparire - in tempi di rarefatta, e spesso confusa, memoria - una rituale commemorazione, un doveroso omaggio a una vittima illustre. Ma non è questo il caso del libro di Paolo Andruccioli che - come del resto si intuisce da quanto scrive nel brano citato sopra - va molto al di là della valutazione di un uomo insieme “normale” e “esemplare” quale era stato Guido Rossa, e della stessa rilettura di un tragico episodio di quegli anni detti “di piombo”. Anni difficili, e anche difficili da spiegare. Non tanto per una conflittualità sociale legata ad una ristrutturazione economica e industriale che certamente ha avuto aspetti positivi accompagnati da scelte pesantemente sbagliate. E ancor meno per un clima di “guerra civile” che non è mai esistito se non nelle farneticazioni dei terroristi di ogni colore, e nelle sapienti dissertazioni di alcuni sociologi. Anni resi ambigui, e inquietanti, da una lunga serie di interventi eversivi più o meno nascosti dei quali appariva solo l’aspetto esterno: le bombe, le stragi, gli assassinii. “La notte della Repubblica”, secondo il titolo di una precisa e completa ricostruzione televisiva diretta da Sergio Zavoli.
Di quegli anni, dei tragici episodi che li hanno segnati, Guido Rossa rende ancora oggi una testimonianza che richiede attenzione.

* * *
La mattina del 25 ottobre 1978, a Genova, nello stabilimento dell’Italside di Cornigliano (11mila dipendenti), viene rinvenuta una busta contenente un pacco di copie di una risoluzione strategica delle Brigate rosse del febbraio 1978. Il 16 marzo c’era stata la strage della scorta di Aldo Moro in via Fani, e il rapimento del presidente della Dc, ucciso 55 giorni dopo. Un operaio consegna la busta a Guido Rossa, membro del Consiglio di fabbrica, quel giorno esentato dal lavoro per sostituire uno dei responsabili sindacali assente. Già altre volte i documenti brigatisti erano apparsi all’interno dell’Italsider di Cornigliano, e il Consiglio di fabbrica aveva alzato il livello di vigilanza: si trattava di scoprire la “talpa” dei terroristi, il “postino” dei loro messaggi, la spia che - come sarà poi confermato - raccoglie e trasmette informazioni sulla fabbrica, dai nomi e rispettivi incarichi ai numeri di targa delle auto.
Quella mattina del 25 ottobre il postino, già da qualche tempo sospettato, viene scoperto, fermato, consegnato alla vigilanza della fabbrica, e poi ai Carabinieri: è Francesco Berardi, un operaio di 50 anni trasferito per motivi di salute a compiti di cancelleria, conosciuto come un estremista senza appartenenze, incline a lasciarsi andare a violente diatribe contro tutti. Ad arruolare Berardi era stato Enrico Fenzi, professore all’Università di Genova, uno di quei “cattivi maestri” passati attraverso l’esperienza terroristica con la disinvoltura (ma in questo caso, il cinismo) di chi frequenta un seminario universitario o si concede un anno sabbatico.
Andruccioli cita un dialogo (da lui stesso riportato nel suo libro “Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate Rosse”) che il professore ebbe con Rocco Micaletto, uomo di punta della colonna genovese delle Br: “Non possiamo girarci attorno - disse Micaletto - Se non riusciamo in qualche modo a mettere il Pci in crisi con la sua base operaia a entrare nelle grandi fabbriche, qui possiamo pure chiudere bottega e andarcene. Questo scontro non possiamo evitarlo”. Un concetto chiaro, condiviso dalla “dirigenza” delle Br che vedeva (giustamente) nel Pci e nel sindacato i maggiori ostacoli alla loro azione eversiva. In un comunicato della Segreteria del Pci del giugno 1976, l’obiettivo delle Brigate Rosse era quello di colpire “il regime democratico e impedire che il popolo italiano compia, nella libertà, nella democrazia, nell’unità, nuove scelte che facciano uscire il Paese dalla crisi e dal disordine”. Agendo come pedine nello scenario composito della ben nota “strategia della tensione” che puntava, appunto, sul caos provocato da bombe, stragi, omicidi (da parte di “rossi” e “neri”) per giungere a soluzioni antidemocratiche, più o meno nettamente autoritarie.

* * *
A partire dal 26 ottobre 197l la notizia dell’arresto di Francesco Berardi appare sui giornali, e al nome del “postino” delle Br viene affiancato subito quello di Guido Rossa, il delegato sindacale che lo ha denunciato. “Ma - scrive Andruccioli - facciamo per un momento un salto dalla cronaca locale genovese alla cronaca politica nazionale. In quell’autunno del 1978 si stavano consumando definitivamente la rottura dell’equilibrio politico nazionale e la fine del tentativo del Partito comunista di entrare nel governo. E oltre tutto si manifestavano nuovi segnali della crisi di rappresentanza del sindacato. Dopo l’uccisione di Moro ed esaurito definitivamente il progetto del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, di dar vita alla formula del compromesso storico, anche l’epoca della solidarietà nazionale stava ormai tramontando. Il dibattito parlamentare sul caso Moro si era inasprito in un modo che forse nessuno avrebbe potuto prevedere. Il Pci era in rotta di collisione sia con la Democrazia cristiana, sia con il Psi, il Partito socialista italiano in cui era emerso il nuovo leader Bettino Craxi. Nel corso del dibattito parlamentare sulla gestione politica del caso Moro si era registrato uno scontro diretto tra Craxi e i dirigenti del Pci, che non hanno mai rimesso in discussione la loro politica della fermezza, ovvero del rifiuto di qualsiasi tipo di trattativa con le Brigare rosse che avevano rapito Aldo Moro […] Abbiamo ricordato questi fatti politici semplicemente per completare il quadro di insieme in cui si collocano gli avvenimenti che coinvolsero Guido Rossa. Erano giorni di grande inquietudine sia sul piano politico sia su quello sociale: l’Italia era scossa da scioperi e divisioni sindacali; i sindacati confederali avevano scoperto di dover fare i conti con un sindacalismo di base che spesso assumeva decisioni e comportamenti incontrollabili e in alcuni casi perfino simpatizzanti verso una certa area dell’estremismo”. Quanto al Pci, “era entrato pienamente nel mirino del terrorismo rosso, come si era reso evidente con la pubblicazione su l’Europeo dei contenuti della Risoluzione strategica 9/78 delle Br, dove si parlava del Pci e dei sindacati come di stretti alleati della ristrutturazione capitalistica”.

* * *
Il processo a Francesco Berardi viene istruito e celebrato nel giro di una settimana dal giorno dell’arresto. E per decisione del pm, che rifiuta altri testimoni di accusa, Guido Rossa è l’unico chiamato in Tribunale a sostenere la denuncia contro il “postino”. E quando Berardi entra ammanettato in aula, fa un gesto che sembra indicare proprio Rossa. Un gesto diretto a chi? Poi Berardi conferma la sua collaborazione con le Br, e il processo si conclude rapidamente con una condanna a quattro anni e mezzo per apologia di reato e partecipazione a banda armata.
Da quel momento Guido Rossa diventa un bersaglio dei terroristi, o meglio viene designato come vittima emblematica dell’offensiva delle Br contro i “berlingueriani”.
E il 24 gennaio del 1979, l’agguato mortale. Guido Rossa era uscito di casa poco dopo le 6 del mattino per recarsi in fabbrica. Abitualmente andava al lavoro con i mezzi pubblici, ma da qualche tempo, per motivi di sicurezza, gli è stato raccomandato di servirsi della sua auto, una vecchia 850. Un commando brigatista lo attendeva a bordo di un furgone, e quando Rossa era entrato nella sua auto due di loro gli avevano sparato, colpendolo prima alle gambe e poi al cuore.
La risposta di Genova fu immediata, spontanea, corale. Si bloccò il lavoro prima all’Italsider e all’Ansaldo, poi in tutte le altre fabbriche. Operai, impiegati, cittadini, si riunirono in piazza De Ferraris, a una finestra del Comune apparve una bandiera tricolore con un grande nastro nero. E lo sciopero spontaneo si diffuse in altre città. “I brigatisti che hanno uciso Rossa sono le iene di sempre - disse, parlando sul palco improvvisato in piazza De Ferraris, Paolo Perugino, operaio, delegato e compagno di lavoro di Rossa - Quelli che nel ’21 avevano un unico obiettivo: colpire gli operai e le loro organizzazioni”.

* * *
Come abbiamo premesso, il libro di Paolo Andruccioli non si limita a ritracciare il percorso degli avvenimenti di trent’anni fa. La sua è insieme una ricostruzione accurata, basata su dati e testimonianze, e un’analisi senza pregiudiziali di quei fatti, delle cause e delle reazioni ad esse legati. Certo, anche se è assurdo, e deviante (nel senso di giustificare in qualche modo le azioni dei terroristi), parlare di clima di “guerra civile”, sono stati anni cupi, nei quali si sono intrecciate crisi sociali e manovre politiche di vario genere. E anche incertezze ed errori di valutazione. Senza dimenticare i non pochi “misteri” ancora non chiariti.
“Il testimone” è senza dubbio uno strumento valido per aiutare a comprendere, il passato e il presente.
_____________________________________________________
La sfida democratica di Guido Rossa

Il film di Giuseppe Ferrara “Guido che sfidò le Brigate rosse” (distribuito in dvd insieme al libro di Paolo Andruccioli “Il testimone”), ricostruisce la vicenda dell’uccisione di Guido Rossa nel gennaio 1979, inserendola nel quadro delle azioni criminali dei terroristi. In particolare viene focalizzato il rapimento, con la sua feroce conclusione, di Aldo Moro, tema di un precedente film di Ferrara, “Il caso Moro”.
Il regista inserisce nel film (interpretato da Massimo Ghini, Anna Galiena, Gianmarco Tognazzi, Elvira Giannini, Mattia Sbragia) materiale d’archivio, sottolineando così il carattere documentario di adesione alla realtà di questa opera. E mette in luce la figura di Guido Rossa, operaio, militante del Partito comunista, sindacalista, esperto alpinista che ha rinunciato a “andare sui sassi” per “scendere giù tra gli uomini e lottare con loro”. Per Rossa i brigatisti non sono “compagni che sbagliano”, ma nemici dei lavoratori e della democrazia, e si attiva per impedire che in fabbrica entri il materiale della loro propaganda.
Il film di Giuseppe Ferrara traccia un ritratto semplice, umano della vita in famiglia di Guido Rossa, con la moglie e la figlia Sabina, una vita serena, incrinata dalla consapevolezza del pericolo. Un pericolo previsto, e accettato con piena coscienza. E sono anche descritte le giornate dei brigatisti nel loro covo di via Fracchia - per ironia del caso a poche decine di metri dall’abitazione di Rossa -, con le loro armi e i loro discorsi di morte.
Con “Guido che sfidò le Brigate rosse” Giuseppe Ferrara realizza un grande film, autentico, originale, a tratti violento per la violenza della realtà, in linea con le altre opere della sua lunga carriera, da “Il sasso in bocca” a “Il caso Moro”, da “Giovanni Falcone” a “Cento giorni a Palermo” (su Carlo Alberto Dalla Chiesa, “Segreto di Stato”, “I banchieri di Dio”.

<<precedente indice successivo>>
 
<< indietro

Ricerca articoli
search..>>
VAI>>
 
COLLABORATORI
 
 
SIULP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
 
Cittadino Lex
 
Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!
 
 
 
 
 

 

 

 

Sito ottimizzato per browser Internet Explorer 4.0 o superiore

chi siamo | contatti | copyright | credits | privacy policy

PoliziaeDemocrazia.it é una pubblicazione di DDE Editrice P.IVA 01989701006 - dati societari