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Novembre/2009 - Interviste
Nando Dalla Chiesa
“Da mio nonno a mio figlio i valori sono gli stessi”
di Intervista a cura di Michele Turazza

Diario, romanzo, testimonianza. E’
Album di famiglia (Einaudi): la storia
d’Italia e la storia privata di quattro
generazioni. Gioie, dolori
profondissimi, ideali radicati, autentici
trasmessi da padre in figlio


“Io so. Io so che cos’è una famiglia. Anche se mai ho preteso di insegnarlo ad alcuno, né mai ho dettato prescrizioni in materia, come un farmacista infallibile. Anche se mai ho predicato l’indissolubilità del matrimonio. Anche se prima in Parlamento e poi in un referendum popolare ho votato per consentire la fecondazione assistita. Anche se ho mandato i miei figli alle scuole pubbliche. Io so. Per questo mi ribello se la vedo usare come un totem maledicente nella lotta politica, o come una frusta per sfigurare donne e uomini affannati”.
Il frutto di questa ribellione è “Album di famiglia” (Einaudi, 2009), l’ultimo libro di Nando Dalla Chiesa, sociologo, scrittore, professore universitario, fondatore di innumerevoli circoli, movimenti, organizzatore di eventi, instancabile animatore civile contro il razzismo, il degrado culturale, lo spregio delle Istituzioni, le mafie. Il suo impegno pubblico inizia con “Delitto imperfetto”, riproposto recentemente dalla sua attivissima casa editrice Melampo, per chiedere giustizia, verità, e violare l’ideologia del silenzio, della subordinazione, dell’inchino al potente di turno. La prima edizione è del 1984, due anni dopo l’uccisione di suo padre, il “Prefetto con gli alamari” Carlo Alberto Dalla Chiesa. Da allora non si è più fermato: dibattiti, convegni, incontri con gli studenti, Politica; da qualche tempo, è pure presidente onorario di Libera, la benemerita Associazione di don Ciotti contro le mafie. Nell’Album, dedicato ai suoi Gracchi (i figli Dora e Carlo Alberto), Nando Dalla Chiesa raccoglie “trentacinque brevi colloqui immaginari con gli affetti di quattro generazioni, dai miei nonni ai miei figli. Gioie inestinguibili, orgogli e umiliazioni, malinconie dolci, ferite che bruciano ancora” (dalla prefazione dell’Autore). L’abbiamo incontrato.

Che cos’è la famiglia e perché un libro sulla famiglia?
Per il desiderio di raccontare una storia, nella quale possono riconoscersi molti italiani. E’ una specie di favola, anche se può sembrare assurdo parlare proprio di favola. Ma le favole hanno i loro momenti crudeli, di cattiveria, in cui qualcuno muore. Volevo dunque raccontarla, come in un viaggio, guardando con altri occhi i protagonisti. La seconda ragione è che continuo a sentire parlare di famiglia in modo falso, ipocrita: spesso mi sono arrabbiato davanti ad un uso così abbondante e superficiale del termine. Se si credesse veramente nella famiglia, i familiari delle vittime sarebbero più rispettati, certi valori più praticati, i bambini più amati.
Non posso insegnare a nessuno cos’è la famiglia, ma sento di dover raccontare cosa è stata e cos’è tuttora per me.

Come in tutte le favole, il destino occupa un posto non secondario: cos’è per lei il destino?
Il destino è il personaggio silenzioso di tutte le favole e quindi anche del mio libro. Ci sono sempre dei segni che si ritrovano nella storia delle persone, dei rapporti con i propri cari e i propri amici, delle scelte che si fanno. Ad esempio, se io non avessi fatto la tesi di laurea sulla mafia, se non avessi studiato quella materia per dieci anni prima che mio padre fosse ucciso, non avrei saputo con quella immediatezza e convinzione reggere l’urto di quella vicenda, fare quelle denunce, e non arrendermi di fronte alle reazioni. Si viene in un certo senso allenati dal destino, che a volte però diventa pesante: si cerca allora un modo per venirne fuori, per allontanarsi da esso.
Anch’io avevo deciso di uscirne, nel 1984 con la pubblicazione di “Delitto imperfetto”: volevo liberarmene, perché non è possibile essere condizionati per un tempo troppo lungo, vivere sempre nel segno di un dolore. Ma è stato molto difficile tirarmene fuori. Cercai anche di avere delle forme di impegno pubblico più estese, che non parlassero soltanto di mafia e legalità: poi però in Parlamento sono stato eletto con un movimento che era dichiaratamente contro la mafia, la Rete, ma non ho voluto entrare in Commissione Antimafia, non potendo occuparmi solo ed esclusivamente di quei temi! E così sono stato assegnato alla Commissione Cultura.
Anche la seconda volta che sono stato eletto non sono andato all’Antimafia, mentre alla terza l’ho chiesto io di entrarci, perché mi sembrava che si facesse troppo poco. Così come nel caso del mio lavoro all’Università: insegnavo Sociologia economica, ma mi sono accorto che le nuove generazioni non avevano una formazione di base in tema di mafie. I giovani leggono libri di denuncia, conoscono i processi, ma non hanno una formazione vera. Ho pensato quindi di far istituire il primo corso in un’Università italiana di Sociologia della criminalità organizzata.
Tento di tirarmi fuori dal destino... ma prendendo la presidenza onoraria di Libera salgo spesso sul palco a leggere i nomi delle vittime di mafia! Allora, ho cercato di addomesticare il destino, ma non ci sono riuscito: un’ala vuole volare, l’altra è inchiodata per terra. L’importante è stare dignitosamente nel destino che ci è stato assegnato.

Nel suo libro sono raccontati episodi di vita domestica, legati anche all’educazione che vostro padre vi impartiva.
Si, nostro padre ci insegnava in particolare attraverso gli esempi, anche magari attraverso esempi che non hanno nulla a che fare con la vita pubblica o che hanno qualcosa di più privato. Racconto nel libro del “perché no”. Il “perché no” in casa mia era abbastanza diffuso: chiedevamo spesso di poter fare una cosa e la risposta era “no”. Alla richiesta di spiegazioni del no, la risposta era “perché no!”, e così si chiudeva il dialogo. Sulle prime poteva sembrare – e magari lo era pure – il frutto di una certa severità, ma c’era qualcosa di più importante e cioè l’idea che ci sono principi che non si negoziano.
Siamo abituati a discutere di tutto: io credo che dovremmo individuare più spesso i confini oltre i quali non si va. Se ci rendiamo conto di questo, capiamo meglio anche il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito.

Ci racconta qualche episodio legato al “perché no”?
Ero bambino, quando arriva in casa a Natale una borsetta di coccodrillo che un industriale regala a mia madre per sdebitarsi di una cortesia di mio padre. Io avevo sette o otto anni, vedo mia madre che si rigira questa borsetta con gli occhi felici: credo che nessuna donna normale negli anni Cinquanta potesse permettersi una borsetta di quel tipo. Mio padre torna a casa, vede la borsetta e dice di restituirla con un biglietto di ringraziamento, perché un ufficiale dei Carabinieri non può accettare dei regali di valore da un industriale. Non si è stati lì a discutere: l’ha vista e l’ha rimandata indietro.
Lo stesso accade quando si sposa mia sorella Simona: eravamo a Moncalieri vicino a Torino, arriva un maresciallo a dire a mio padre che l’avvocato Agnelli aveva mandato un’auto in regalo in caserma. Mio padre dice subito di rimandarla a Mirafiori. Ho assistito a questi due comportamenti uguali, a distanza di anni, non si è discusso... “perché no”.

Diversamente sembra accadere con molti principi e comportamenti della vita politica attuale.
Un giorno in Parlamento ho assistito ad una discussione surreale su qual è il valore massimo del regalo che può essere accettato da un parlamentare: un enorme contrasto tra quello che ci avevano insegnato in casa, tra l’altro non con finalità pubbliche (mio padre infatti non si era accorto che ero presente agli episodi che ho raccontato) e il modo con cui parte della classe politica intende il suo ruolo oggi.

Per non essere (giustamente) mai stato in “dignitoso silenzio” è stato spesso presentato come il figlio ribelle del generale Dalla Chiesa.
Quando hai subito di tutto per aver detto delle cose, che finiscono negli atti processuali e aiutano un processo a concludersi per la prima volta nella storia dell’Italia unita con una condanna definitiva all’ergastolo dei capi mafiosi; e quando dopo ventisette anni – sta capitando proprio in questo periodo – il figlio di Vito Ciancimino dice esattamente le cose che io ho detto quasi tre decenni fa (per averle sapute non dall’interno del mondo mafioso ma da mio padre)... ecco, se per questo, per aver detto la verità, abbiano cercato di presentarmi come il figlio degenere, questa definizione mi lascia senza parole.
E’ pesato molto, hanno ammazzato mio padre e solo per aver chiesto la verità, giustizia, sono stato presentato come il figlio indegno. Il “dignitoso silenzio” era tale solo perché silenzio... appena parlavi ti attaccavano brutalmente. Ora che la storia mi ha dato ragione, la rappresentazione del rapporto con mio padre così conflittuale è sbagliata, e possono proporla solamente quelli che non hanno conosciuto questi rapporti, e a fini di mera strumentalizzazione politica.
E il rapporto con sua madre?
Sono sempre stato legatissimo a mia madre, morta di cuore, stremata, negli anni del terrorismo. Me la ricordo guardare l’edizione notturna del telegiornale per vedere se era capitato qualcosa a mio padre.
Non è stato facile per lei seguire tutte queste vicende legate al suo lavoro: i continui trasferimenti, l’educazione dei figli, ripassare la lezione con me alle 6.30 del mattino prima di andare a scuola. Ho voluto ricordarla con un animo particolare, di estrema gratitudine.

Si possono conciliare sentimenti e vita pubblica?
Non li ho mai messi in contrasto: sono convinto anzi che i sentimenti aiutino le qualità politiche. Guai a chi ne fa a meno. Non raccontare certe cose, sarebbe stato come amputare la favola: non si possono separare. Posso pure sostenere che la morte di mia madre sia un fatto privato, ma esso è dentro ad una vicenda pubblica. Privato e pubblico non si possono scorporare così facilmente: forse un cittadino impara a partecipare alla vita pubblica, a provare solidarietà, a pagare le tasse... indipendentemente da quello che gli viene insegnato in famiglia? Impara che cos’è un’Istituzione prescindendo dai principi che gli vengono trasmessi?
Da mio nonno a mio figlio i valori sono gli stessi, perché nel corso degli anni sono stati trasmessi dalla famiglia. Ovviamente i tempi cambiano: non è che i valori si interpretano e si rappresentano sempre nello stesso modo, però rimangono quelli.

Così come si abusa del termine "famiglia", c'è un uso spropositato di "sicurezza". Tutti la promettono, ne parlano, e moltissimi politici votano provvedimenti col plauso della stragrande maggioranza dei cittadini, che si credono più sicuri. Ronde, militari nelle città, ordinanze dei sindaci: garantiscono reale sicurezza?
Se sento dire che le città dovrebbero essere più sicure sono d’accordo e ritengo che alcuni provvedimenti potrebbero anche andare nella direzione di garantire maggiore sicurezza: è però estremamente sbagliata la tendenza a pomparli ideologicamente. Non sono a prescindere contro ai militari nelle città ma a condizione che si utilizzino al meglio, ad esempio per presidiare i punti sensibili liberando così più risorse di Polizia per il controllo del territorio (come è stato fatto in Sicilia dopo le stragi del 1992).
Far andare in giro qualche soldato assieme a Carabinieri o Polizia, invece, non serve a niente, se non a mostrare visivamente la sottostante ideologia della forza e del pugno di ferro. Altri provvedimenti invece sono pura retorica, segno di grande confusione: addirittura spesso offendono anche i più elementari principi civili ed umani.

E le ronde?
Le ronde così come sono state disciplinate non servono: i cittadini devono riappropriarsi dei propri spazi ed è ciò che è avvenuto anche nel quartiere dove vivo, che conosceva il problema della prostituzione. Siamo scesi in strada, ci siamo seduti, abbiamo creato spazi comuni anche bevendo assieme del buon vin brulè per scaldarci. Ma ora saremmo fuorilegge in quanto eravamo sicuramente più di tre e pure con qualche cagnolino che ci accompagnava! Un conto sono forme di partecipazione di questo tipo, che aiutano anche a conoscersi meglio, a condividere problemi cercando assieme una soluzione; altra cosa le ronde.
Inoltre vorrei chiedere ai signori che predicano sicurezza il motivo per cui le mafie si stanno radicando proprio nelle regioni del nord Italia e, tra queste, nelle città apparentemente più “sicure”: sarebbe opportuna un’analisi più seria dei problemi, senza ideologizzazioni di parte.

A tutti è nota la situazione delle Forze di polizia, lasciate con pochissimi fondi e mezzi, ormai al collasso. Nel 2001, dopo il G8, sostenne, in un articolo su l'Unità, che si era creato uno strappo tra giovani e Forze dell'ordine a cui sarebbe servito molto tempo per ricucirsi. A distanza di otto anni, come vede quel rapporto?
Ritengo che serva ancora del tempo. I giovani di destra tendenzialmente difendono a priori l’operato delle Forze dell’ordine, mentre molti di sinistra si pongono in posizioni di contrapposizione. Sono sbagliati entrambi gli atteggiamenti. Per essere veramente con la Polizia bisogna saperla criticare quando sbaglia: la difesa a priori infatti è tipica espressione dello spirito di clan.
Penso comunque che alla base della Polizia italiana vi sia un Dna democratico che le consente di respingere continui messaggi di incitamento alla forza i quali, se accolti da una Polizia debole, porterebbero a conseguenze deleterie.

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