Nourredine Adnane aveva 27 anni, era arrivato in Italia dieci anni fa, poco più che adolescente. Egli veniva dal Marocco e si era fermato in Sicilia, a Palermo, forse perché quella città, quel clima e quei luoghi gli ricordavano il posto dove era nato e vissuto per diciassette anni, Settat, cittadina del nord, vicino Casablanca.
Nourredine era uno di quelli che ce l’aveva fatta, lui era un immigrato regolare, era in possesso del permesso di soggiorno e pure di una licenza di venditore ambulante. Tutto il giorno si portava dietro la sua mercanzia, faceva su e giù per via Basile, vicino l’Università, lavorava onestamente e cercava di vendere e risparmiare il più possibile, perché in Marocco aveva una giovane moglie e una figlia di due anni che lo aspettavano e contavano su di lui, sul denaro che Nourredine guadagnava e mandava loro.
Ma Nourredine era stanco, stanco ed esasperato per i continui controlli della Polizia locale e venerdì 11 febbraio, durante l’ennesimo sequestro della merce, pare fosse il quarto che subiva in soli dieci giorni, ha preso un accendino e si è versato un po’ di benzina addosso, minacciando di darsi fuoco.
Un gesto estremo dettato dalla disperazione, una sorta di protesta contro quella che lui considerava un’ingiustizia. Forse tutti, passanti e vigili urbani, hanno pensato alla solita commedia del solito immigrato. Infatti il cugino racconta che sono trascorsi dieci minuti prima del tragico rogo, dieci minuti in cui nessuno ha tentato di calmarlo, di parlarci e tranquillizzarlo per trovare una soluzione. Ma la legge è legge e non si ferma davanti a nessuno, del resto Nourredine non era mica il nipote di Moubarak, nessuno avrebbe telefonato per lui, perché era solo un immigrato, uno dei tanti.
E questo è avvenuto proprio a Palermo, lì dove la mafia è nata e prospera, una città allo sfascio che annega tra i propri rifiuti e dove la legalità è un miraggio. In un’Italia dove non ci sono regole, dove chi può evade le tasse e non si riesce neanche a far rispettare il divieto di sosta per le auto in doppia fila.
No! Per Nourredine non c’era posto per il buon senso e nemmeno per la pietà, per lui solo il sequestro della merce e il rispetto della legge, la legalità a intermittenza di un Comune che sa esser forte coi deboli, ma così debole coi forti. Deve esser stata dura per lui, tanta era la rabbia e allora ha perso la testa, ha avvicinato quel maledetto accendino al suo corpo e subito ha preso fuoco, una torcia umana. Otto giorni di agonia in ospedale poi il suo fisico ha ceduto, non ha resistito, e lo scorso 19 febbraio è morto.
La guerra di Rosarno un anno fa non ha insegnato nulla, gli esseri umani vanno trattati da esseri umani, con rispetto e dignità, altrimenti la disperazione può spingere a certi gesti eclatanti. Le cosiddette politiche della sicurezza di cui si riempiono la bocca tanti, troppi nostri politici, pompano odio e discriminazione, a volte istigano alla rivolta, altre al suicidio. Attenzione c’è il fuoco sotto la cenere. Non dimentichiamo che la rivolta in Tunisia, che ha avuto come epilogo la caduta del regime di Ben Alì ed è stata la scintilla della recente rivoluzione africana, è iniziata proprio da un gesto simile, quando Mohamed Bouazizi, giovane laureato tunisino, si è dato fuoco, dopo la confisca da parte della Polizia del suo carretto di frutta e verdura perché senza licenza.
E allora riflettiamo tutti su quel che era scritto su uno striscione durante la marcia di solidarietà per Nourredine Adnane: Vittima del razzismo istituzionale.
|