Claudio Giardullo, Segretario generale
del Silp per la Cgil: dopo la firma dell’Accordo
Nazionale Quadro, per la Polizia si pone
l’esigenza di affrontare problemi urgenti
che riguardano la sicurezza, il contratto
e il riordino delle carriere. Per assicurare
un livello di difesa della legalità adeguato
ed eguale per tutti, dal Nord all’estremo Sud
Dopo nove anni è stato firmato l’accordo nazionale quadro, perché tanto tempo e quali difficoltà?
Perché, pur essendo un atto di fondamentale importanza nella gestione del personale, c’è stata una lunga resistenza da parte dell’Amministrazione nell’aprire una fase di cambiamento e di modifica dell'accordo precedente. Per molto tempo si sono mantenute norme che davano minori garanzie al personale e una maggiore discrezionalità all’Amministrazione nella gestione di questo; norme che, allo stato attuale delle cose, risultano inaccettabili e anacronistiche. Dal nostro punto di vista, poi, erano norme che non giovavano neppure alla funzionalità dell’Amministrazione. Perché i diritti non sono in contrasto con l’efficienza: evidentemente, in questi nove anni, l'atteggiamento dell'Amministrazione era improntato sulla convinzione che a maggiori diritti corrispondesse un minor livello di funzionalità. In realtà, la mancanza di tutela, di riconoscimento dei diritti e di confronto con le rappresentanze del personale, hanno portato spesso l’Amministrazione ai maggiori momenti di inefficienza. Dopo una lunga negoziazione, durata quasi due anni, sono convinto che i risultati ottenuti siano assolutamente significativi: in questo accordo sono state fatte delle scelte coraggiose, che, oltre ad aumentare la funzionalità di questa, miglioreranno il livello di tutela e di garanzia del personale e accresceranno il ruolo dell’organizzazione sindacale sia nei territori che a livello nazionale. E quando è più incisivo il ruolo delle organizzazioni sindacali, maggiori sono le possibilità di tutela verso gli operatori.
Quanto è stato l’aumento pro capite sul contatto e quanto è stato stanziato per la copertura del contratto?
L’aumento medio dell’ultimo contratto è intorno a 124 euro totali, ma è stato un anno particolare, perché abbiamo potuto usufruire delle risorse che erano state stanziate dal Governo Prodi, abbastanza adeguate rispetto alle difficoltà del tempo. La quota contrattuale chiusa con il governo Berlusconi ha portato, quindi, ad un buon risultato, ma soprattutto perché le risorse erano già state stanziate nella finanziaria precedente. Siamo molto preoccupati, invece, per il prossimo contratto, visto che nella finanziaria 2009 è stanziata una cifra che va dal 50 al 60 per cento delle risorse previste dal Governo Prodi. Ovviamente noi ci opporremo a tutto questo, perché è inaccettabile che ci sia un incremento medio di 60 euro mensili lordi, 40 euro lordi per un agente. E comunque questo fa riflettere sulla reale attenzione del governo rispetto alle condizioni economiche delle forze di polizia, soprattutto considerando la crisi in cui versa il Paese in questo momento.
Riordino delle carriere. Nonostante si dica da più parti, anche dalle parti della maggioranza, che il riordino si deve fare, pensa che il Governo sia veramente intenzionato al riordino delle carriere del comparto sicurezza?
Finora c'è stato un ritardo che noi consideriamo ingiustificato, visto che quello delle carriere, come tanti altri temi che riguardano la sicurezza, è stato uno dei punti principali del programma di governo durante la campagna elettorale. In realtà, noi non abbiamo visto una volontà vera, concreta da parte del governo di andare avanti su questo terreno. Questa primavera ci era stato proposto di utilizzare le risorse esistenti, ma noi abbiamo detto no, perché alla base del riordino delle carriere non c'è solo una questione economica, ma anche professionale e strategica. Dall'ultimo riordino sono passati quasi quindici anni: dal '95 ad oggi la mappa della sicurezza nel Paese è profondamente cambiata, come è cambiato il lavoro delle forze di polizia. Quello che serve è un cambiamento mirato e radicale che adegui alla situazione esistente nuove professionalità e responsabilità. I soldi che per ora sono previsti dalla legge finanziaria non sono sufficienti per un obiettivo così ambizioso, un obiettivo che riguarda tutti e tre i settori: quello esecutivo (agenti, assistenti e sovrintendenti), quello relativo al ruolo degli ispettori e dei sostituti commissario e, infine, quello relativo al ruolo di funzionari e dirigenti. Con le somme previste dall'attuale finanziaria tutto questo non è possibile: per questo abbiamo detto no, preferendo aspettare che il governo mantenga gli impegni.
Nel caso in cui il governo non affronti la situazione del riordino come reagirebbero i poliziotti?
Noi continueremo nella nostra iniziativa di mobilitazione e di protesta che purtroppo non riguarda solo le carriere, ma anche altri settori, dal contratto di cui abbiamo appena parlato, alla mancanza di fondi per tutte le attività delle forze di polizia. Si apre per noi un autunno di protesta. Nei prossimi giorni dovremmo incontrare il governo che metterà a punto la finanziaria, ma se non vedremo una svolta nei settori che riguardano le attività di sicurezza pubblica, il rinnovo del contratto e il riordino delle carriere, riprenderemo la mobilitazione. Ricordo che nei primi sei mesi del 2009, noi, a livello nazionale, abbiamo fatto ben cinque iniziative di protesta.
Quindi quali sono le iniziative da mettere in campo nel caso in cui l’esecutivo continui a non mantenere l’impegno assunto da voi?
Le iniziative saranno le proteste in piazza, sempre più forti, sempre più visibili, perché dobbiamo spiegare al Paese che da una parte si racconta che non ci sono problemi sul versante della sicurezza, e non è vero, e dall’altra si dice che alle forze di polizia vengono riconosciuti, sul piano economico e professionale, miglioramenti economici da una parte e migliori condizioni di lavoro dall’altra. E tutto questo non è vero.
Su questa protesta tutti i sindacati di polizia sono d’accordo?
Sostanzialmente si. In alcuni casi c’è stato qualche distinguo sui contenuti, ma il fronte di tutte le organizzazioni sindacali è abbastanza compatto attorno ai motivi della protesta e non accetta l'atteggiamento del governo che non ha mantenuto gli impegni e che penalizza sul piano professionale ed economico un settore trainante della vita del Paese come quello della sicurezza.
Quali sono le richieste nel prossimo biennio contrattuale?
Intanto, come dicevo prima, sul versante complessivo, avere almeno le stesse risorse, gli stessi aumenti dell’ultimo contratto. Poi, di questioni da risolvere ce ne sono molte. L'ora di lavoro straordinario, ad esempio. Forse siamo l’unico Paese nel mondo occidentale e forse l’unica categoria in Italia, dove ancora il lavoro straordinario non viene pagato di più del lavoro ordinario. Il lavoro straordinario è un lavoro più faticoso, più disagiato, comincia dopo le ore di servizio ordinario, quindi è inevitabilmente più pesante. Addirittura, fino all’ultimo contratto era pagato abbondantemente di meno. Tutto questo è inaccettabile, e questa è solo una delle questioni che sono rimaste aperte.
Tutti i sindacati di polizia hanno denunciato tagli alla sicurezza, riduzione di personale, di risorse, dall’altro il governo asserisce l’esatto contrario. Chi sta mentendo a danno della collettività e degli stessi lavoratori del comparto sicurezza?
Questa polemica da parte del governo rischia di diventare inutile ed incomprensibile. Basta leggersi gli atti ufficiali, la legge finanziaria, la legge di bilancio del nostro Paese, le relazioni che accompagnano questi atti finanziari, per rendersi conto che il governo per la sola sicurezza, a prescindere dal settore della difesa, ha fatto un taglio di oltre un miliardo di euro. E’ il più pesante taglio alla sicurezza che sia stato fatto nell’Italia repubblicana. Non è un’opinione, basta leggere le carte. Purtroppo il governo smentisce, consapevole che le sue dichiarazioni, rispetto alle posizioni delle organizzazioni sindacali, verranno riportate da un numero maggiore di giornali.
Questo dibattito purtroppo si sta un po’ immiserendo: la verità è che il governo ha fatto un taglio drastico alla sicurezza, proprio nel settore grazie al quale (e questo lo dicono gli addetti del mondo politico) ha vinto le elezioni. La mancanza di risorse, del resto, è sotto gli occhi di tutti: diminuisce il numero delle auto da impiegare, mancano i soldi per fare le riparazioni, si chiudono commissariati perché il personale è stato ridotto. La finanziaria prevede per la sola Polizia di stato una riduzione di seimila operatori nei prossimi quattro anni. Si prevede che, nei prossimi anni, tutte le forze di polizia avranno venticinquemila operatori in meno. Tutto questo non è un’opinione, sono fatti, sono cifre. E lo si vede ogni giorno nel nostro lavoro che è sempre più difficile.
Il governo usa la tattica dell’annuncio, della forzatura dei dati, specie di quelli finanziari, ma la realtà è ben conosciuta da parte degli operatori che vivono quotidianamente una condizione di difficoltà operativa e organizzativa. E se ne stanno accorgendo anche i cittadini italiani, perché quando ci sono meno volanti, quando si chiudono i commissariati, quando si riduce il personale, ovviamente si riduce il controllo del territorio. E non sono certo le iniziative come l’impiego dei militari o le ronde che possono supplire a questa mancanza del lavoro di chi è deputato sul piano istituzionale a garantire la sicurezza.
A proposito di ronde, il nostro giornale recentemente ha fatto una lunga inchiesta su questo fenomeno. Qual è la sua opinione?
Intanto è un tentativo del governo per non far vedere ai cittadini che c’è una forte riduzione di investimenti sul versante sicurezza. Si sostituisce l’impegno sulla sicurezza reale, che vorrebbe dire investimenti, personale, formazione, tecnologia, con una serie di iniziative di facciata che hanno un certo impatto emotivo sull’opinione pubblica. Evidentemente, nelle intenzioni del governo questi provvedimenti, l'impiego dei militari e delle ronde, dovrebbero contenere la visibile riduzione di impegno vero nel campo della sicurezza e limitare l’impatto negativo che questo determinerà. Entrando nel merito della questione ronde, si tratta di una risposta sbagliata ad un problema vero. Il problema vero è la domanda di sicurezza da parte dei cittadini che si sentono insicuri. La risposta è sbagliata perché le ronde non saranno di ausilio alle forze di polizia, ma un problema in più, perché intaseranno i centralini e perché gli operatori di polizia dovranno intervenire per imporre a molta gente il rispetto delle regole. In questi ultimi mesi in troppi hanno manifestato il desiderio di sostituirsi alle forze di polizia: neo-giustizialisti, patrioti dell’ultimo momento, ronde nere e di altro colore politico. Quando i Sindaci faranno le convenzioni con le associazioni dei volontari, inevitabilmente vi sarà chi (e non saranno pochi, temiamo) tenderà ad andare al di là dei confini che le norme fissano. E questo comporterà da parte delle forze di polizia un ulteriore impegno che verrà sottratto alle normali attività di prevenzione e di repressione dei reati. Quindi non un ausilio, ma un problema in più per le forze di polizia. E poi rimane, comunque, il problema centrale del rapporto, anche se non visibile, tra le associazioni dei volontari e le varie formazioni politiche. Un fattore determinante per lo svolgimento delle attività di sicurezza è l’imparzialità: qualora venisse a mancare questo requisito, il cittadino perderebbe inevitabilmente la fiducia nei confronti di chi si occupa di sicurezza. E questo è un problema in più.
Le ronde, tra l’altro, assorbiranno risorse degli enti locali, cioè risorse pubbliche. Noi pensiamo che quelle risorse dovrebbero più utilmente essere destinate al rafforzamento del controllo del territorio, all'aumento delle volanti, dei commissariati e degli operatori di polizia.
Lei crede che le misure previste da questo governo possano avere conseguenze sulle condizioni di lavoro e di vita dei poliziotti?
Assolutamente sì. E' innegabile che i tagli producano maggiori difficoltà operative. L’impegno delle forze di polizia non è mancato, e non mancherà, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ci sono state molte operazioni importanti, però non ci si può fondare soltanto sull’impegno e la buona volontà delle forze di polizia. Una strategia moderna di sicurezza pubblica richiede risposte strategiche e adeguate e un investimento finanziario che sia all’altezza dei problemi che sono sul tappeto.
Oggi, cito solo qualche esempio, in molte città italiane i poliziotti che svolgono attività investigativa sono costretti ad usare la loro auto privata, perché quella delle forze di polizia è ormai conosciuta, e non ci sono i soldi per procurarsene di nuove. Per uno dei Paesi del G8 una cosa del genere è inammissibile. Le forze di polizia, inoltre, sono spesso costrette ad elemosinare una parte della cancelleria agli enti pubblici locali e agli istituti di credito; la maggior parte dei computer portatili che vengono utilizzati nell’Amministrazione sono di proprietà degli agenti, perché mancano i soldi per comprarli. Per questi aspetti l’Italia, più che ad un membro del G8, assomiglia ad un Paese del terzo mondo, con tutto il rispetto per questi paesi.
Tutto questo ha conseguenze non solo sul lavoro quotidiano, ma soprattutto in certi settori particolarmente delicati, come quello della lotta alla mafia. Ridurre le risorse su un versante come questo vuol dire, inevitabilmente, rendere più difficile il contrasto a una delle maggiori minacce criminali che ci sono nel nostro Paese. D'altra parte il Governo sembra preoccuparsi soprattutto del problema immigrazione, un tema che, in realtà, ha un valore più politico che istituzionale. Quella dell'immigrazione è una questione che andrebbe affrontata non solo sul terreno dell’ordine pubblico, ma anche e soprattutto su quello delle politiche sociali. In Italia, invece, si impiega un ingente numero di operatori di polizia in questo settore e, inevitabilmente, se ne lasciano sguarniti altri: sono sempre meno, infatti, i poliziotti che si occupano di investigazione, del controllo del territorio, delle nuove forme di criminalità e di violenza. Basti pensare, tanto per fare un esempio, a tutti i reati informatici legati allo sviluppo della rete.
A proposito di immigrazione, visto che l’ha citata, lei crede che l’istituzione del reato di clandestinità o i 180 giorni di detenzione nei Cie possano essere provvedimenti efficaci nella gestione dei flussi di extracomunitari che arrivano nel nostro Paese?
Assolutamente no. L’introduzione del reato d’ingresso clandestino rischia, innanzitutto, di far implodere i due circuiti, quello giudiziario e quello delle forze di polizia, a causa di un sovraccarico di lavoro. Il governo, ovviamente, si guarda bene dal dire che il risultato di questo provvedimento è lo stesso che si otteneva prima, ma con un costo enormemente maggiore. Infatti, mentre prima l'espulsione era il risultato di una procedura amministrativa che aveva comunque il controllo giudiziario attraverso la pronuncia da parte del giudice di pace, adesso è decretata da un vero e proprio procedimento giudiziario, la cui parte istruttoria viene realizzata dalle forze di polizia. Il nuovo iter, quindi, comporta un enorme aggravio di lavoro per ottenere il medesimo risultato. La condanna da parte del giudice che, ricordo, consiste in un'ammenda, la maggior parte delle volte non viene pagata e determina semplicemente il provvedimento di espulsione, ovvero la fase conclusiva che nella procedura precedente si otteneva ad un costo finanziario, organizzativo e di impiego del personale enormemente minore. In pratica il governo spende di più, impiega più personale, per ottenere esattamente quello che avrebbe ottenuto prima riducendo, però, le possibilità di efficacia.
Per quanto riguarda il prolungamento della permanenza nei Centri di Identificazione ed Espulsione, anche questo, invece di risolvere i problemi, li aggraverà, perché un periodo più lungo evidentemente riduce la disponibilità dei posti nei Cie. Questa norma, quindi, oltre che essere dispendiosa, inefficace e inutile, è anche inapplicabile, specie in questa prima fase. Il governo, infatti, prima di realizzare i posti disponibili per accogliere gli immigrati, ha approvato la norma sul reato di ingresso clandestino. Per questo spesso siamo costretti a mandare la persona fermata in udienza con un semplice provvedimento, non essendoci i posti disponibili nei centri di identificazione: in pratica noi gli consegniamo in mano un provvedimento e la lasciamo libera. E' chiaro che la stragrande maggioranza delle volte quella persona non si presenta all’udienza, rimane nel territorio del nostro Paese o in Europa. Quindi il risultato è peggiore rispetto a quello di prima, dove anche grazie alla minore permanenza di persone fermate c’era più disponibilità e comunque c’era un controllo di chi era presente regolarmente.
Oggi aumenterà il numero delle persone che circoleranno nel territorio perché non ci sono disponibilità nei Centri.
A proposito della lotta alla mafia, non le sembra che l’opinione pubblica, anche l’informazione, sembra preoccuparsi più dei fenomeni di microcriminalità, piuttosto che della grande criminalità? Non le pare, ad esempio, che si parli poco della lotta alla mafia?
Questo è un problema di sempre nel nostro Paese. Purtroppo, in Italia, l’impegno antimafia ha avuto livelli alti soltanto nei momenti connessi alle grandi stragi e agli omicidi di personalità dello Stato. Il nostro Paese ha sempre avuto un impegno e una attenzione altalenanti, ad intermittenza rispetto alla mafia, pur essendo la mafia la prima delle minacce criminali nel nostro Paese. E’ ovvio che questo fenomeno si sta ampliando da quando il Governo ha iniziato a mettere in primo piano esclusivamente le questioni di sicurezza urbana, riproponendo l'equazione tra immigrazione e criminalità. Un'equazione, questa, assolutamente infondata, che alimenta la paura e che costringe il cittadino a guardare con maggiore attenzione alle questioni di criminalità, di insicurezza e di delinquenza urbana. Personalmente ritengo che si tratti di una strategia mediatica, di una politica della sicurezza che mira a raccogliere il consenso del cittadino. Questo, d'altra parte, non subendo direttamente le conseguenze dell’attività criminale, guarda alle questioni della mafia con minore partecipazione, dimostrando un'attenzione generalmente allentata.
Quali sono, secondo lei, le misure necessarie per attuare una nuova ed efficace politica di sicurezza per l’Italia?
Intanto ricordarsi che, nel mondo occidentale, il nostro Paese ha un primato non invidiabile, cioè il maggior numero di persone in servizio permanente effettivo tra le file delle organizzazioni criminali mafiose. Questa è una cosa che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. In Italia, infatti, rimane insoluto il problema del ruolo e del peso delle organizzazioni mafiose nell’economia e nella vita sociale del Paese. A monte, ovviamente, resta il problema dell’investimento finanziario; abbiamo già detto che il governo, da questo punto di vista, ha fatto scelte in senso diametralmente opposto, riducendo le risorse invece che incrementarle. Poi, bisognerebbe agire sul versante della capacità di risposta delle forze dell’ordine, quindi sulla capacità di controllo del territorio. Il lavoro nell'ambito della sicurezza si fa quasi esclusivamente sul campo: un computer aiuta tantissimo, ma non potrà mai sostituire la persona, l’uomo o la donna delle forze di polizia che lavorano nel controllo del territorio e nell’investigazione. Quindi la questione degli organici delle forze di polizia resta una questione fondamentale se si vuole garantire una rete di controllo adeguato del territorio. Certo, non è solo un problema numerico, ma anche di qualità delle funzioni: fondamentale è la questione della formazione del personale, della tecnologia messa a disposizione delle forze di polizia, del coordinamento delle cinque polizie, un problema ancora aperto nel Paese. Quest'ultimo, in particolare, è uno strumento attraverso il quale si dovrebbero fare sinergie tra le forze di polizia per evitare che ci siano duplicazioni e interferenze, estremamente dispendiosi sul piano finanziario e operativo. Inoltre, è necessario realizzare vere politiche di sicurezza integrata nel territorio, senza far confusione tra il ruolo degli enti locali e il ruolo degli organi dello stato. Sbagliare su questo versante vuol dire spendere soldi e non raggiungere l’obiettivo. Solo un sistema di vasi comunicanti tra organi dello stato e forze di polizia è in grado di realizzare risultati eccellenti. Il che vuol dire che ognuno faccia il suo mestiere. Il Sindaco è il rappresentante della collettività, conosce bene le paure dei suoi cittadini, lo sviluppo economico e sociale della comunità di cui è rappresentante ed ha un ruolo fondamentale da questo punto di vista. Ma non deve sostituirsi con chi, invece, ha compiti di programmazione e di realizzazione delle vere e proprie attività di polizia. Solo se c’è integrazione, sinergie e non interferenze tra queste figure, tra organi locali e lo Stato, allora si possono realizzare efficaci politiche della sicurezza.
Bisogna, quindi, saper mettere nella giusta scala di priorità le minacce criminali del nostro Paese. La criminalità organizzata, e segnatamente quella mafiosa, non può non essere considerata la maggiore minaccia criminale del nostro Paese. Poi ci sono ovviamente, problemi di sicurezza urbana, dove bisogna saper intervenire con politiche integrate, sociali, economiche e di sicurezza pubblica vera e propria. Se si riesce a fare questo lavoro, molto equilibrato, strategico e non fondato sulle iniziative di facciata, allora si può realizzare anche nel nostro Paese una moderna ed efficace strategia di sicurezza.
Secondo lei, esiste in Europa un modello nel campo della sicurezza al quale ispirarsi?
Un modello complessivo a cui ispirarsi no. Ovviamente il modello deve tener conto anche delle particolari condizioni culturali, economiche e sociali di un paese, del suo ordinamento. Qualche volta in Italia si è tentato di scimmiottare, ad esempio in relazione all’impegno dei Sindaci, il sistema statunitense, dove il Sindaco ha la responsabilità sulle forze di polizia. Si è dimenticato, però, che il nostro ordinamento prevede cose diverse e soprattutto è strutturato in modo diverso. Negli Stati Uniti, a monte di tutto, c’è una distinzione tra reati federali, che sono di competenza della polizia federale, dell’Fbi, e reati locali, statali, che sono di competenza delle polizie statali o di contea. Questa distinzione che c’è a monte consente di non fare confusione dell’impiego delle forze di polizia. L’obiettivo non può e non deve essere quello di prendere per buono un qualunque modello di un altro Paese fondato su un diverso sistema istituzionale, politico e amministrativo. Ci sono sicuramente degli aspetti, dei settori dove c’è una maggiore efficienza in un Paese piuttosto che non in un altro. Il nostro modello, che vuole essere tendenzialmente federalista, deve tenere conto che c’è ancora uno Stato centrale che, come dice il titolo quinto della Costituzione, si deve occupare della sicurezza, considerata funzione nazionale.
La sensazione è proprio questa, che ci sia una federalizzazione anche della polizia.
Non è così. La questione viene agitata, ma in realtà tutto questo in Italia non è possibile, se non altro perché c’è una Costituzione che dice cose diverse. Secondo la Costituzione, infatti, la sicurezza è una questione nazionale ed è, di fatto, un fortissimo elemento di coesione per il nostro Paese. Insieme alla difesa e alla giustizia, anche la sicurezza deve restare a livello centrale. Il che non vuol dire che tutti i programmi e le iniziative devono essere calate da Roma nel territorio, ma esattamente il contrario. Queste devono essere costruite nei territori, sulla base delle specificità economiche, sociali e criminali, tenendo ben presente che il livello nazionale della sicurezza deve garantire parità di trattamento a tutti i cittadini. Chiunque, infatti, che sia vittima o autore di reato, dal Nord all’estremo Sud del nostro Paese, ha diritto ad aspettarsi lo stesso trattamento da parte delle forze di polizia.
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