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Agosto-Settembre/2009 - Contributi
Una lezione d’Abruzzo forte e gentile
di Ennio Di Francesco



Può la “regione” di un Paese, descritto da commentatori stranieri alle soglie di decadimento e depressione, diventare un punto di riferimento virtuale? La risposta sembra darla quel che abbiamo potuto vedere e sentire dai primi giorni del terremoto, sino ad ora. Quella bambina ferita che dal letto d’ospedale rispondeva, con voce composta, all’intervistatore: “Mi sento un po’ male, ma sto meglio di altri”. Quella mamma che con lividi e ferite sul viso ringraziava i vicini di casa che, pur loro stessi in grave pericolo, erano corsi a salvare lei e i suoi figli.
I visi emaciati ma franchi degli studenti sopravvissuti dopo giorni sotto cumuli di cemento “frullato”. Il volto scolpito di dolore e amore del padre che con sommesso tono sacrale ritirava la laurea per il figlio perso nella Casa dello studente, divenuta sua tomba. Il redattore de Il Centro che quasi intingendo la penna nel cuore, descriveva l’indicibile scempio della sua famiglia, dei vicini e delle macerie di Onna.
Nessuna autocommiserazione. Nessun tono o gesto sopra le righe. Né rabbia o lamenti. Nessuna parola, ben strutturata o dall’incerta grammatica, che non trasudasse dignità. Un amore per la propria terra che ha obbligato tutti gli italiani a riflettere dentro. I tanti politici, accorsi per obbligo istituzionale tra le valli e i monti d’Abruzzo, si sono trovati contagiati da quella sobrietà non lacrimevole. Qualcuno è stato anche ammonito da ogni tentazione di far passerella, pianamente, da un’implacabile suora.
Nelle lunghe file di tende blu, gelate di brina al mattino o riarse dalla calura del sole, o infiltrate dalla pioggia che forma pozzanghere e fango, gli “sfollati” attendono in febbrile composta speranza di tornare all’operosa vita di sempre. Sopportano pazienti, ma non sottomessi, l’odore stantio nell’aria che manca, l’imbarazzante fila dei bagni, il pudore per un’intimità persa, l’irrequietezza e il pianto dei bimbi, le litanie delle nonne, l’ansia delle madri, l’estenuante star fermo di chi è rimasto senza lavoro. Coabitano lutti e dolori, angoscia e inedia, famiglie distrutte, separate, private delle proprie “cose”, del proprio tetto.
Ci sono e ci saranno problemi, promesse e delusioni, ma aleggia dovunque la straordinaria lezione di una gente più forte della classe politica, certamente più sana.
“E’ grande la prova collettiva di dignità, fermezza e senso del futuro che gli abruzzesi stanno offrendo all’Italia”, ha detto con grata saggezza il Presidente della Repubblica. Non c’è autorità istituzionale, governativa e sociale, ma soprattutto persona comune, che non abbia espresso analoghi sentimenti. Ugualmente nel mondo, il Santo Padre e numerosi Capi di Stato. “Ci faceme curagge e guardeme avante”, sentenzia l’anziana signora, vergognosa della dentiera smarrita, al nostro esuberante Primo ministro. E’ l’atavica cortese fermezza che fece coniare per gli abruzzesi nei tempi il detto “forti e gentili”.
Sullo sfondo il profilo dolce e severo della Maiella, le cui viscere tremano ancora, sembra sussurrare col vento: “Non voglio l’eco di promesse infinite, ma vedere rinascere i campanili, le case, i paesi della mia gente”.
Incredibile a dirsi, dalla terra ferita nasce un seme di riscatto e speranza. A giugno, dal Mediterraneo sono venuti gli atleti dei giochi sportivi: hanno bevuto simbolicamente l’acqua pura delle novantanove cannelle. A luglio a L’Aquila, vicino alle palpitanti tende blu, discutono i grandi del G8 allargato. Tutti, con poteri, abiti, lingue e colori diversi, respirano l’aria nuova di compostezza, sobrietà e voglia di ricominviare. Possa essa alimentare vere decisioni di pace e progresso nel mondo, oltre le consuete parole diplomaticamente ovattate. Nella caserma di Coppiti, i “grandi” si chiedono il senso del motto latino: “Nec recisa recedit” adottato dalla Guardia di Finanza e che il “vate” abruzzzese fissò.
Se hanno osservato la Maiella che abbraccia le tende, e ascoltato il silenzio dei morti, hanno sentito il vagito della piccola Giorgia, nata nella notte in cui “madre terra” distrusse le case ed uccise. Ma non fermò la gente d’Abruzzo.

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