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Agosto-Settembre/2009 - Contributi
"Se questo è un carcere"
di Enrico Sbriglia - Segr. nazionale Si.Di.Pe. - aff. Cisl

Il recente stato di agitazione della categoria rappresenta l’ennesimo responsabile tentativo di “svegliare” l’attenzione di tutte le forze politiche sul dramma che vive il sistema penitenziario italiano, la cui condizione agonica è agli occhi di quanti abbiano il coraggio civile di vedere.
Come accade per l’Aids, allorquando le cosiddette malattie “opportunistiche” rappresentano un rischio mortale per il corpo malato di chi ne è vittima, nello stesso modo la circostanza che, a distanza di 4 anni dalla legge di riforma - la quale avrebbe dovuto mettere ordine alla carriera dei dirigenti penitenziari - nulla sia stato fatto, sortisce l’effetto di accelerare lo stato di pericolosa precarietà del sistema penitenziario il quale, alle criticità stratificatesi negli unltimi anni, ora aggiunge pure quella di non potere neanche fare riferimento ad un sistema di regole certe che, riguardando i direttori penitenziari responsabili degli istituti carcerari, degli uffici dell’esecuzione penale esterna, di quelli in servizio presso le Scuole di formazione del personale penitenziario, così come nei provveditorati e negli uffici del Dipartimento, aumenterebbero le soglie di garanzia per tutti.
Si rinuncia in questo modo indirettamente a rafforzare ed assicurare, in ogni contesto penitenziario, il rispetto delle norme, la tutela dei diritti dei lavoratori che da essi dipendono e delle persone detenute, il diritto alla sicurezza dei cittadini.
Con quale credibilità, infatti, i dirigenti penitenziari, ancora oggi “senza regole” per sé stessi, potrebbero assicurarle nei confronti degli altri? Come è possibile poter confidare sull’azione di un dirigente penitenziario, semmai direttore di un istituto carcerario, quando neanche è stato stabilito in che modo sia regolamentato il suo rapporto di lavoro, talché potrebbe dichiararsi “irreperibile” in caso di urgenze o emergenze, in quanto una volta terminato il suo orario presunto di lavoro e “timbrato” il cartellino in uscita si dichiarasse non più vincolato ad altro?
Come è possibile verificarne il reale impegno professionale se alcun sistema di verifica e di pesatura del lavoro, e non meramente delle ore trascorse sul luogo dove si opera, risulta essere stato previsto? Come è possibile in un settore così delicato, che si riflette sui diritti di libertà, salute, cittadinanza delle persone costrette in carcere, mostrare indifferenza proprio nei riguardi di coloro che, con le proprie decisioni e relativi provvedimenti possono incidere profondamente non solo sulle prime, ma anche verso i familiari di quest’ultimi e finanche sul regolare corso dei processi e sulla vita di quanti, in un modo o nell’altro, debbano subirne le conseguenze?
Attraverso quali procedure condivise e disciplinate con norma si provvederà a coprire i vistosi vuoti di organico delle delle direzioni con altri dirigenti o si preferirà, come adesso, tenere fittiziamente in piedi tanti istituti senza che vi sia un effettivo direttore, responsabile a tempo pieno?
Sperando di non dovere arrivare a tal punto, credevamo che i nostri continui allarmi venissero colti, valutati, portati all’attenzione del Ministro da quanti hanno la responsabilità amministrativa del Dap: invece non è accaduto nulla!
Di fronte a tale deprimente scenario di mancate decisioni, noi dirigenti penitenziari del Si.Di.Pe. predentiamo che sia chiaramente distinta la nostra posizione di servitori dello Stato e della comunità da quella di una Amministrazione fantasma, scialba, di una Amministrazione cieca, che discetta e offre, dai massimi livelli dove non si sente la puzza delle sezioni detentive e la disperazione dei quartieri dormitorio dove si muovono le poche assistenti sociali penitenziarie, soluzioni surreali, sganciate completamente da una realtà di quotidiana precarietà e di infinito dolore di chi viva, da reo ma anche da innocente, la condizione carceraria nelle nostre strutture, mai queste ultime effettivamente rispettose delle norme.
Se la passione per il nostro lavoro ed il senso civico che contraddistingue noi tutti, ma anche la generalità degli operatori penitenziari, ci hanno indotto a “rimanere sul pezzo”, non possiamo illuderci che ciò sia sufficiente.
Coinvolti emotivamente e moralmente, vogliamo denunciare la disperazione di un quotidiano di precarietà, talché la nostra costante azione, finalizzata a lenire le condizioni irrispettose della dignità umana che invece pretenderemmo fosse sempre assicurata, appare sterile se non addirittura rischia di giustificare il continuare a perpetrarsi delle cose che siamo costretti a subire.
Da servitori dello Stato ci eravamo illusi che un moto di coscienza civile si sarebbe elevato dal Parlamento e dal governo, affinché fossero subito, e dire subito è già tardi, conferite risorse finanziarie adeguate per rimpolpare gli organici stracciati del personale, che abbisogna di appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria, di educatori, di assistenti sociali, di ingegneri e architetti, di dirigenti, nonché di nuove figure professionali, quali i medici del Corpo, di interpreti e mediatori culturali, di strutture carcerarie nuove: “luoghi del vivere” sobri ma rispettosi di condizioni di salubrità, al fine di ridurre il costante rischio per tutti i “entrare sani” ed “uscire infetti”..., e questo non solo per il rispetto della vita e della dignità delle persone ristrette, ma anche per quello da rivolgere ai tanti padri e madri di famiglia che indossano un’uniforme e, svolgendo la propria attività professionale in carcere, hanno il diritto di lavorare senza aggiungere ulteriori rischi a quelli specifici e contrattualmente previsti.
Seppure mai siamo stati silenti, bensì misurati ed istituzionali nel denunciare le cose che non vanno, commettendo l’imperdonabile errore di rivolgerci verso quanti non ritenevamo sordi, perché tenuti istituzionalmente a sentirci ed intervenire non con le chiacchiere ma con gli atti concreti, oggi non intendiamo perseguire allo stesso modo e ci rivolgiamo direttamente al Ministro, al governo, a tutte le forze politiche. Pertanto, nel denunciare senza alcuna riserva la situazione nella quale vorrebbero porci, costringendoci ad indossare il vergognoso abito dei “custodi dell’illegalità”, auspichiamo che questi problemi, e no quelli che attengano la privacy, i desideri e le voglie personalizzime, dei nostri governanti occupino gli spazi del dibattito politico.
L’attuale gravissima situazione, beffeggiata dalla pratica di lettere “circolari” che ci spiegano come fare, senza mai che siano accompagnate da un briciolo di risorse, ci fanno vivere lo sgomento e la vergogna di quanti pare abbiano dimenticato la lezione di Primo Levi, e le pagine di “Se questo è un uomo”, ricalco della nostra attualità di sbarre.
Quando in celle che a malapena potrebbero ospitare due esseri umani, ce ne metti quattro, otto, oppure di più, quando detenuti sieropositivi, malati di epatite, con problemi psichiatrici, con problemi di tossicodipendenza, sono costretti a vivere in condizioni claustrofobiche, oppure sono spediti come pacchi di carne viva da un carcere all’altro, da una regione all’altra dell’Italia, nella speranza che dove arrivino almeno trovino acqua corrente a sufficienza, una branda ed un materasso, un piccolo cortile dove sentire i propri passi e qualcuno, un comandante, un educatore, un operatore penitenziario, che ricordi loro che sono persone e che dovrebbero ancora poter sperare, non siamo molto lontani dalla realtà descritta da Primo Levi.
Oggi i prigionieri sanno da dove vengono, probabilmente nulla hanno dimenticato della loro memoria, ma non sanno dove andranno... Per le loro colpe avrebbero dovuto pagare in termini di libertà, per pochi o molti anni non interessa, ma non in termini di dignità, di salute, di speranza di riscatto....
Però non sembrano interessare, così come non interessano i custodi ed i capi dei custodi, forse nell’errata folle convinzione, agevolata da un immaginario collettivo asimmetrico alla realtà, che quanti lavorino nelle carceri non abbiano una coscienza deontologica, un cuore, un’anima... Ma mostreremo che non è così e ci vergognamo per il fatto che si sia, ancora una volta, costretti a dimostrarlo.

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