Il 1° luglio 1949, la Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro riunita a Ginevra adottò la Convenzione n. 98, concernente il diritto di organizzazione e della contrattazione collettiva. Dopo 60 anni vale la pena di riflettere sul significato di questo riconoscimento dei diritti dei lavoratori, per confrontarsi con mutamenti sopravvenuti che non riguardano solo la sfera economica.
Indubbiamente la contrattazione collettiva rappresenta uno degli elementi essenziali del sindacalismo; ad esempio in Italia, nel 1893, furono istituiti i collegi dei probiviri, un organismo volontario di conciliazione e arbitrato delle controversie individuali di modico valore nel settore industriale (e solo più tardi di controversie collettive), composto non da giudici togati, ma da laici (rappresentanti delle parti interessate) con funzioni arbitrali; mentre il primo contratto collettivo in Italia venne stipulato nell’ottobre del 1906 tra la Fiom e la ditta Itala di Torino. Il più recente accordo, quello interconfederale del gennaio 2009, sposta l’equilibrio sul secondo livello e ancora non se ne possono delineare con certezza gli effetti.
Il complesso di regole che costituisce oggi il diritto del lavoro è frutto delle rivendicazioni condotte dai lavoratori collettivamente organizzati e, quindi, ha tra le sue fonti principali il contratto collettivo.
Ogni Paese ha seguito una sua evoluzione nella storia della contrattazione; l’adozione di questo strumento ha costituito uno strumento basilare per la diffusione delle istanze dei lavoratori, pur considerando il limite dell’estensione ai soli Paesi industrializzati.
La situazione attuale, a livello generale, è caratterizzata da molti fattori, tra i quali spiccano, per rilevanza, la crescente disaffezione verso i sindacati, con il conseguente calo di iscritti; la progressiva parcellizzazione della contrattazione, con lo spostamento su livelli decentrati; la sempre più evidente tendenza a contrattualizzare aspetti sinora non previsti in tale ambito (tempo del lavoro, produttività, flessibilità).
Per quanto riguarda il pubblico impiego, vi è una generalizzata e diffusa tendenza al suo ridimensionamento, con evidenti risvolti contrattuali; le politiche attuate vanno dalla privatizzazione, ai licenziamenti e al blocco delle assunzioni.
Tornando ad un ambito generale, non si può negare come le crisi economiche e le crisi dei mercati abbiano inflitto un duro colpo a molte delle conquiste sindacali: basti pensare che circa il 20% dei lavoratori dell’Ue lavorano al di fuori degli orari di lavoro normali durante la settimana, il che significa che lavorano minimo due sabati o due domeniche al mese, o almeno per mezzo orario di sera o di notte.
Gli orari di lavoro variano a seconda dei Paesi: in Italia, Olanda e Regno Unito, almeno un terzo di tutti i lavoratori, in tutti i settori, lavora al di fuori dei normali orari di lavoro durante la settimana; mentre in Germania, un lavoratore su sei (15%) lavora a turni normali (a turni alternati) e nel settore manifatturiero, un salariato su quattro (23%) lavora a turni.
Forse occorre riflettere sulla nascita di nuovi sindacati autonomi e/o indipendenti che frazionano il sindacalismo, poiché intercettano esigenze settoriali che sfuggono alla logica sia dei datori di lavoro che delle Confederazioni sindacali legate al tradizionale modello delle relazioni industriali.
Nello stesso tempo vanno considerate anche altre forme di contrattazione. Infine, ma non per importanza, vanno riconsiderati il peso degli interventi governativi e tutte le tematiche relative agli accordi di tipo transnazionale.
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