Viaggiamo per perderci e per ritrovarci. Viaggiamo
per aprire gli occhi e per conoscere più cose
del mondo. Viaggiamo per nascere
di nuovo, per esplorare zone sconosciute
di noi stessi. Poeti e scrittori di tutti i tempi
ne hanno parlato, tentando di catturare il significato
profondo di un'esigenza che nasce
con l'uomo. Quella di spostarsi
In spagnolo si dice viaje, voyge in francese. In inglese è travel, parola la cui radice richiama il francese travail (lavoro) e l'italiano travaglio. La nostra lingua ha viaggio, naturale evoluzione del latino viaticum, che designava il corredo necessario per chi intraprendeva un lungo cammino. Un bastone, una lettera di raccomandazione, una bisaccia piena di cibo. Viaggio è, quindi, ciò che viene "consumato" lungo la strada: non il puro spostamento di un individuo, ma ciò che ha "alimentato" il suo percorso, le esperienze vissute, le difficoltà incontrate. Per questo il viaggio è anche travaglio, qualcosa di doloroso, un evento carico di ansietà e rischio. Del resto anche nel verbo partire si annida lo spettro del distacco e della separazione, incapsulato nell'etimologia comune al sostantivo latino pars, partis (parte, frazione), la stessa da cui ha origine il verbo parere, partorire. Queste sovrapposizioni di parole e significati non sono dei semplici giochi linguistici, ma un nucleo concettuale fondamentale attorno al quale si organizza l'esperienza del viaggio: quella della ri-nascita sotto una forma diversa, data dall'esperienza dell'altrove e dall'incontro con l'altro.
L'archetipo del grande viaggiatore è, nella cultura occidentale, il protagonista dell'Odissea, Ulisse. Il suo è il "viaggio di ritorno", scandito da mille pericoli, da continui ostacoli e prove, animato dalla ricerca del nuovo, dall'istintiva attrazione (e repulsione) per tutto ciò che è estraneo, inconsueto. Ulisse tenta continuamente di accorciare la distanza dalle realtà sconosciute e di varcare la sfera dell'inconoscibile: il significato del suo viaggio non è certo la meta (che, a ben guardare, non è altro che il desiderio di un paio di pantofole e di un caldo giaciglio), ma il percorso che lo porta ad esplorare l'ignoto, tra seduzioni e inganni, scoperte e riflessioni. Solo alla fine, infatti, dopo aver fatto esperienza del diverso, è possibile la ricongiunzione con ciò che conosciamo, la riconquista definitiva della stabilità attorno ai valori originari.
L'eroe che ama la sua patria e la sua famiglia e che tra i flutti coltiva il sogno di rivedere la sua dolce Itaca diventa in Dante un uomo dall'orgoglio titanico e individualistico, con una sete insaziabile di «virtute e canoscenza», colpevole di quella che i greci chiamavano hybris (tracotanza) per non aver rispettato i limiti imposti da Dio. Quello di Ulisse, infatti, non è un viaggio come quello di Dante, giustificato dalla volontà divina e garantito dalle auctoritates (la Bibbia, i maestri classici e cristiani): il suo è il frutto di una sete conoscitiva sfrenata, di una superbia che lo porta alla violazione del sacro. Eppure, Dante fa parlare l'eroe omerico per oltre cinquanta versi (Inferno, XXVI), tradendo un fondo di ammirazione tutta umana.
Della sua figura se ne sono appropriati in tanti, nella storia della letteratura. La sua epopea e il suo temperamento multiforme, in effetti, rendono Ulisse un personaggio che si piega a numerose interpretazioni. Joyce lo catapulta nella sua Dublino e trasforma il suo viaggio in una passeggiata per le vie della città, durante la quale si arricchisce delle diversità con cui entra in contatto, senza, però, risultarne distrutto o assorbito. Ugo Foscolo, invece, vide nel protagonista dell'Odissea una consonanza col suo destino di esule; Guido Gozzano, addirittura, in piena polemica antidannunziana, ne fa un moderno viveur.
Che si tratti di un uomo superbo che sfida i decreti divini o di un naufrago che si perde nella ricerca dell'infinito, Ulisse incarna il desiderio e allo stesso tempo la paura dell'ignoto, quella forza oscura che attrae l'uomo dalla notte dei tempi, che lo affascina e lo turba, motore indispensabile allo sviluppo e all'evoluzione. E' per questo che non c'è scrittore, poeta o artista in genere che non ne abbia parlato. Perché quella la voglia di spostarsi, di superare i propri confini, di andare a verificare che cosa c'è al di là dell'orizzonte è insita nell'uomo. «So bene quelle che sfuggo, ma non quello che cerco»: è la dichiarazione di Montaigne, filosofo, scrittore e noto misantropo, consapevole che al momento della partenza nessuno sa bene cosa troverà sul suo cammino. Ciò è fonte di ansia per alcuni, per altri di eccitazione. L'atteggiamento giusto, in tal senso, è quello di Marco Polo (e, in seguito, di Cristoforo Colombo): vado a vedere, poi vi racconto. E così fece: nel suo viaggio ad Oriente si comportò come un moderno antropologo, un "inviato speciale", la cui obiettività ha avuto la meglio sulle sovrastrutture ideologiche tipiche della mentalità medievale. L'autore del Milione, infatti, sospende il suo giudizio anche di fronte alle usanze più "barbare" e singolari, ai fenomeni più strani e sconosciuti, riportando i fatti senza pregiudizi, con imparzialità e impersonalità. Traspare, semmai, una forte curiosità e un senso di stupore di fronte a un mondo così distante dal proprio, che resta inafferrabile: è un continuo di espressioni di meraviglia, di «e dicovi di più», di «dovete sapere che». Come dire: la realtà supera la fantasia, tanto «ch'è una maraviglia a credere», ma allo stesso tempo la alimenta intrecciandovisi continuamente.
Viaggiare aiuta a capire. Lo aveva già intuito una delle menti più brillanti dell'antichità, Sant'Agostino. «Il mondo è un libro, e chi non viaggia legge solo una pagina», diceva. Muoversi accende il bagliore della comprensione, permette di trovare quei collegamenti misteriosi della realtà, regalando una rara forma di felicità. Certo è che, per poterne beneficiare, è necessario, nel momento in cui si parte, lasciare a casa le proprie certezze e convinzioni. Solo così è possibile vedere ciò che si pensava in una luce diversa, magari da una prospettiva sghemba. In questo modo, anche il solito Mc Donald's potrebbe sembrarci esotico se ci troviamo a Ulan Bator.
Anche se spesso si è soliti distinguere tra viaggiatori e semplici turisti, probabilmente la vera differenza è tra chi lascia le sue idee a casa e chi no. Fra i primi troveremo tutti coloro che si lamentano, perché il cibo non è buono, le persone si comportano in modo strano e niente è come a casa loro. Per "leggere tutto il libro", invece, bisogna farsi travolgere e stravolgere da tutto quello che si dava per scontato, tenendo bene a mente che le cose che consideriamo universali sono, in realtà, provinciali e provvisorie.
Viaggiamo (o dovremmo farlo), quindi, anche per colmare le lacune della nostra conoscenza e per entrare in contatto con parti di noi stessi che altrimenti potrebbero arrugginirsi. Perché viaggiando in luoghi stranieri, inevitabilmente viaggiamo in stati d'animo, mentalità e passaggi interni segreti che altrimenti non avremmo avuto l'occasione di visitare. «Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi a fare le persone», scriveva John Steinbeck. Forse non è sempre così, nel senso che molte persone dai viaggi si lasciano semplicemente trasportare. Ma l'esperienza sicuramente è formativa e, per quanto si rimanga passivi e indifferenti, il viaggio obbliga sempre a un confronto con il nuovo e il diverso. All'estero, di solito, siamo più portati a seguire l'impulso, ci scopriamo entusiasti di tutto come quando siamo innamorati. Infatti tutti i bei viaggi, proprio come l'amore, ci trasportano lontano da noi stessi e ci depositano nel bel mezzo del terrore e della meraviglia.
Certo, viaggiare non è sempre possibile. I motivi sono molti: mancanza di tempo, di occasioni, di preparazione, di compagnia, di stimoli e, soprattutto, di denaro. Sembrerà un'affermazione trita, ma l'attitudine a viaggiare è tutta interna e non necessariamente prevede uno spostamento fisico. Talvolta viaggiamo quando vediamo un film, stringiamo una nuova amicizia o quando siamo semplicemente affascinati da qualcosa. L'unico viaggio che Emilio Salgari (il padre di Sandokan e dei pirati della Malesia, tanto per intenderci) ha veramente fatto è stato lungo l'Adriatico a bordo dell'Italia Una. E' bastata questa noiosa spola marina durata un paio di mesi ad alimentare una delle più fertili e suggestive fantasie della letteratura mondiale. Salgari è stato il non-viaggiatore per eccellenza, eppure lo scenario dei suoi romanzi è fatto di mari e di nature lontane e selvagge. Quelle avventure che aveva soltanto immaginato sono divenute, alla fine, parte integrante della sua vita. Persino la sua tragica morte, una sorta di suicidio rituale con un pugnale simile a quello usato dai protagonisti dei suoi romanzi, è stato l’ultimo tributo a quel mondo immaginario che lui stesso aveva creato e alimentato.
Con la fantasia si possono visitare anche luoghi che non esistono: a ben pensarci, la terra sconosciuta del grande romanzo di viaggio dello scrittore inglese Samuel Butler, Erewhon, è soltanto Nowhere, nessun posto, alla rovescia.
Viaggiare, allora, è soprattutto esplorare quella zona notoriamente soggettiva che è l'immaginazione e ciò che il viaggiatore riporta indietro è una miscela ineffabile di se stesso e del luogo, ciò che realmente è là e ciò che è solo dentro di lui. Gli scrittori americani Emerson e Thoreau insistono entrambi sul fatto che la realtà è una nostra creazione e che inventiamo i posti che vediamo così come i libri che leggiamo. O, come disse saggiamente Sir Thomas Browne, scrittore britannico del Seicento, «portiamo dentro di noi le meraviglie che cerchiamo fuori di noi».
Così, anche per i tipi da villaggio vacanze, quelli che amano le comodità e sono poco inclini all'avventura, è importante ricordare che il viaggio è uno strumento efficace per mantenere libera e sveglia la nostra mente, uccidere i pregiudizi e coltivare l'umorismo. Perchè, anche al ritorno, i grandi viaggi non si esauriscono: proprio come le grandi storie d'amore, infatti, questi non finiscono mai.
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