Lo “stalker” tende
ad approcciare la vittima
attraverso una vera e propria
strategia operativa. Va però
evidenziata la difficoltà
di sintetizzare il fenomeno
entro canoni tipici
Lo “stalking” (dall’inglese “to stalk”, letteralmente: inseguire, cacciare, braccare) rappresenta una problematica assai dibattuta e di recente ingresso nel nostro diritto positivo mediante specifico inquadramento normativo. Con legge del 23 aprile 2009 n. 38, in Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2009, è stato infatti introdotto l’art. 612 bis del Codice Penale, rubricato “atti persecutori” il cui contenuto letterale è il seguente: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.
Seguendo un percorso dal generale al particolare, un attento esame del dettato normativo è utile ai fini di una corretta analisi ed un esatto inquadramento del fenomeno dello “stalking”.
L’art. 612 bis è stato inserito nel libro II (dei delitti in particolare) – titolo XII (dei delitti contro la persona) – capo III (dei delitti contro la libertà individuale) – sezione III (dei delitti contro la libertà morale), in cui sono contenuti i precetti normativi per la tutela da condotte antigiuridiche tra cui la violenza privata (art. 610 Codice penale) ovvero la minaccia (art. 612 Codice penale).
In tale inquadramento l’art. 612 bis (atti persecutori) appare da subito una norma, la cui ratio ispiratrice è una specifica forma di protezione, ma con una portata più efficace rispetto al precedente assetto, nei confronti di chiunque subisce azioni tali da limitare o compromettere la libertà personale.
Già a partire dagli anni Novanta, si è condotta un’approfondita analisi del fenomeno. Lo stesso, pur essendo un argomento di prevalente interesse per la branca psichiatrica, presenta, nella sua fenomenologia, rilevanti risvolti di interesse medico legale e forense.
Anche se impropriamente, a giudizio di chi scrive, lo “stalking” è inteso come fattispecie criminosa, che tende ad affliggere prevalentemente le donne (si noti come la legge individua nel soggetto agente “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno…”), di fatto le statistiche individuano in queste ultime la categoria potenzialmente più afflitta dagli atti persecutori.
Attraverso un’analisi obiettiva del fenomeno, si è cercato di individuare quali fossero le caratteristiche più salienti perché una molestia possa essere identificata come “stalking”.
Si è infatti di fronte da una tipologia di reato potenzialmente eclettica nelle sue forme e le cui caratteristiche possono essere molteplici. Nell’analisi fatta per poter ricondurre il fenomeno entro canoni “tipici”, sono state individuate alcune classificazioni comportamentali, tali da poter essere scientificamente considerate “stalking”: occorre innanzitutto una comunicazione eminentemente intrusiva, tale quindi da esplicarsi nella volontà di voler trasmettere un messaggio emozionale, come tale rappresentativo di bisogni, impulsi, desideri ovvero afflizioni generalmente di carattere affettivo, spesso in relazione a forme reattive alla comune affettività le quali per contrario si mutano in sentimenti di odio, rancore, istinto di vendetta.
Partendo dunque da tale quadro emozionale, che per lo più appare ancora in una forma potenzialmente statica, lo “stalker” tende ad approcciare la vittima attraverso veri e propri contatti diretti, posti in essere attraverso una vera e propria “strategia operativa”. Tali contatti si concretano in forme di invasione della sfera privata e vanno dai pedinamenti alle visite improvvise, fino a vere e proprie intercettazioni ambientali fatte mediante utilizzo di fonoregistratori, webcam ed altri strumenti (il mercato dell’hi-tech ce ne offre in grande quantità). Ovviamente, nella psicologia dello stalker, che come tale assume, in armonia con la radice etimologica del temine, quella caratteristica di soggetto che letteralmente “bracca, insegue allo scopo di cacciare”, tutti gli strumenti utilizzati divengono utili per acquisire ogni tipo di informazione atta a conoscere le abitudini di vita della vittima.
In senso contrario, sempre sotto il profilo criminologico, va però evidenziata la naturale difficoltà di sintetizzare il fenomeno entro canoni tipici. Un dato importante è quello di considerare la complessità della condotta e della sua reale manifestazione che può essere tale da non consentire un’identificazione più di tanto esatta del fenomeno in capo al soggetto che la pone in essere.
Più precisamente, è qui sta la difficoltà, ma anche l’importante conquista normativa, va evidenziato che non esistono delle tipiche condotte “stalkizzanti”, come tali stereotipe del fenomeno. Lo stalking infatti è un reato, a giudizio dello scrivente, fortemente decontestualizzato da qualsiasi archetipo comportamentale.
In altre parole, e ciò vale soprattutto dal punto di vista processuale, la condotta penalmente rilevante può essere attuata mediante le più disparate forme di intrusione, a seconda del contesto ambientale di riferimento ma anche del tipo di afflizione affettiva sofferta dallo stalker, dalle abitudini di vita dello stesso, oltre che della vittima, il tutto in relazione con lo sviluppo socio-culturale del soggetto che pone in essere la condotta. Inoltre, data la natura intrusiva della molestia (rectius dell’atto persecutorio) si deve considerare che l’impulso criminogeno, verosimilmente, è destinato ad una inevitabile evoluzione. Si pensi alla crescente facilità nella comunicazione interpersonale, il web, ovvero l’utilizzo di telefonini mobili sempre più tecnologicamente evoluti e complessi, tali da consentirne l’utilizzo anche per l’indebita intrusione della sfera privata altrui.
In tal senso, l’intervento normativo, introduttivo del reato di cui all’art. 612 bis Codice penale, colma un’importante lacuna data dalla mancanza, fin’ora, di un adeguato assetto sanzionatorio idoneo a contrastare il fenomeno delle molestie insistenti.
Data la giovane età della norma in esame e quindi dalla pressoché totale mancanza di giurisprudenza comparativa sull’argomento, può essere utile, in questa sede, esaminare la fenomenologia del comportamento dello stalker in relazione alla potenzialità criminogena del soggetto agente. Come detto, se incontrollato lo stalking, inteso come fenomeno squisitamente criminologico, potrebbe evolvere in reati ben più gravi e che in una analisi attenta possono evidenziare importanti elementi di connessione per cui, l’atto persecutorio in se potrebbe apparire addirittura come “propedeutico” alla commissione di reati più “evoluti” nella loro entità ed efficacia lesiva.
Lo stesso avvocato Giulia Bongiorno, esponente d’eccellenza dellavvocatura italiana, ha chiaramente evidenziato, anche nel corso dei lavori parlamentari, come le cronache sovente ci offrono casi di vittime di stalking che, non punito, si è evoluto in reati violenti ben più gravi perpetrati all’indirizzo di soggetti che non avevano (e non avranno più!) un’adeguata protezione dalla norma penale.
Chiaro è che non tutte le forme di invasione della sfera privata possono, anche solo potenzialmente sconfinare in forme di reato tanto gravi. Sarebbe idealmente un errore pensare ciò. Tuttavia si è visto come l’osservazione sociologica del fenomeno consente di delineare i dettagli del comportamento stalkizzante.
Al riguardo, la norma chiaramente individua nella vittima un soggetto legato da un rapporto affettivo, anche pregresso, all’autore degli atti persecutori. Ciò fa sì che la vittima designata sia scelta dall’autore dell’atto persecutorio in virtù di un investimento ideale ed affettivo ma non necessariamente basato su di una reale relazione interpersonale.
Altro elemento caratterizzante è la naturale insistenza e continuità dell’intrusione nella sfera privata altrui. Per tale motivo si noti come i termini per la proposizione della querela si siano raddoppiati (sei mesi) rispetto ai canonici novanta giorni. Ne consegue che la molestia, per poter divenire atto persecutorio, necessita di una inequivocabile, inspiegabile insistenza, protratta a lungo nel tempo.
Inoltre, sempre dall’esame della norma, si nota come lo stalking sia tale da porre la vittima in uno stato di perdurante e grave stato di ansia o di paura per la propria incolumità, tale a volte da indurre la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. Ciò pone la vittima in uno stato di completa sudditanza psicologica ed un conseguente squilibrio delle proprie abitudini, oltre che di fronte ad un grave danno esistenziale.
Allo stato, in attesa di un approfondimento della materia che, come accennato, sarà reso più facile già dai primi riscontri giurisprudenziali, appare valido il riferimento alla cospicua letteratura criminologica (fra tutte l’analisi fatta da Paul Mullen e Michele Pathe nel loro saggio “Stalkers and their victims”) che da tempo osserva il fenomeno, per cui esisterebbero addirittura cinque categorie di stalkers quali:
1) il rancoroso: il cui comportamento è caratterizzato da un istinto di vendetta nei confronti della vittima designata. I tratti peculiari di questa categoria mirano, prima di tutto, alla distruzione dell’immagine della vittima;
2) il morboso di affetto: in tale caso, il soggetto agente mira al raggiungimento dell’unico obiettivo della ricerca di una relazione, quasi sempre sessuale. Si è potuto notare come le vittime, quasi esclusivamente donne, tendono ad avere caratteristiche stereotipe di bellezza e di appetibilità erotica. Tali caratteristiche stimolano a tal punto la fantasia del persecutore da indurlo morbosamente a porre in atto le condotte stalkizzanti;
3) il respinto: figura per alcuni tratti molto simile alla prima. Generalmente un soggetto che, nel pregresso, ha avuto con la vittima un rapporto sentimentale e che cerca di ristabilirlo ad ogni costo. Si differenzia con la prima categoria per il fatto che esso non tende alla distruzione della vittima bensì, al contrario, presenta caratteri di autolesionismo, fino all’autodistruzione;
4) l’inesperto: trattasi della categoria con effetti più tenui e meno duraturi che si caratterizza per una scarsa, o nulla, competenza nelle relazioni interpersonali, ed il cui risultato finale si può esplicare per lo più in comportamenti maleducati o antisociali, raramente violenti;
5) il predatore: ovvero anche lo “stalker puro”, colui che pone in essere la condotta, per il solo desiderio di predare. Tale soggetto può prescindere da qualsiasi relazione interpersonale pregressa. Egli elegge le proprie vittime con un criterio che lo rende più assimilabile ad un serial killer. È tipicamente un soggetto affetto da devianze della sfera sessuale quali feticismo o pedofilia. È potenzialmente imprevedibile e, tra le categorie esaminate, il più pericoloso.
Appare dunque evidente l’importante conquista del citato decreto, convertito in legge. Precedentemente all’entrata in vigore della legge in esame infatti il cittadino, che si trovava a subire azioni persecutorie poste in essere da terzi, dato anche il principio della “tassatività della legge penale”, poteva contare solamente sulla tutela prevista, se tali atti si concretizzavano in azioni già contemplate dal nostro diritto positivo quali molestie telefoniche, ovvero in luogo pubblico, violenza privata, minaccia, ecc.
In altre parole, prima dell’entrata in vigore della norma, le fattispecie riconducibili alla condotta dello stalker, erano penalmente rilevanti solo se, ad esempio, coincidenti ed integranti il reato di molestia (art. 660 Codice penale) ovvero quello di violenza privata (art. 610 Codice penale). Orbene, il primo, è un reato a pericolo presunto di tipo contravvenzionale, punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino ad euro 516,00 in cui l’obiettivo repressivo della norma è visto prevalentemente in funzione della pericolosità del soggetto per l’ordine pubblico, non anche per l’incolumità della persona offesa. Altrimenti, nel caso della violenza privata, delitto punito con la reclusione fino a quattro anni, l’attenzione del legislatore si è prevalentemente incentrata nella tutela della libertà in senso lato del soggetto passivo.
La norma dell’art. 612 bis dunque ha una importante efficacia estensiva della tutela del cittadino il quale vede riconosciuta una maggiore protezione della sua sfera personale, non più limitata ad un generico interesse della collettività. Il che appare confortante, se si tiene conto del fatto che la norma, così come progettata, è in grado di garantire, da un lato, una corretta tipizzazione del fenomeno nella sua fenomenologia, dall’altro, ne consente un’interpretazione piuttosto obiettiva, in un assetto normativo in cui molto spesso è difficile superare quella naturale antinomia tra la genericità (più o meno accentuata) del fatto e l’efficacia sanzionatoria della norma stessa.
Concludendo quindi, l’esame del neo introdotto art. 612 bis Codice penale, postula l’esistenza di plurime condotte antigiuridiche, che si qualificano come atti persecutori e che divengono penalmente rilevanti, se si concretano in un reato che nella sua natura giuridica, si configura necessariamente come un reato di danno, in quanto si presuppone una lesione del bene giuridico protetto, un reato di evento, atteso che il legislatore ha già previsto, per la sua consumazione, la realizzazione di una o più situazioni contemplate dalla norma ed ivi tipizzate.
L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, intendendosi per tale, la mera volontà nel realizzare almeno uno degli eventi tipizzati nel testo normativo. Sul piano strettamente procedurale, vi è l’estensione del termine per la proposizione della querela, come detto portato a sei mesi, in luogo dei canonici tre. Tale innovazione costituisce, ad avviso dello scrivente un importante elemento di garanzia, atto ad evitare che, banalmente, un corteggiatore insistente, e come tale di per se, assolutamente non pericoloso o pregiudizievole per l’interesse individuale protetto, possa ipso facto trasformarsi in un potenziale criminale.
A supporto di tale apprezzabile garantismo interviene anche un altro importante strumento quale l’istituto dell’ammonimento che ha una naturale funzione di “filtro” atta a scongiurare inopinate iniziative giudiziali. Detto istituto interviene allorquando si ipotizzano specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di reiterazione del reato di cui all'articolo 612 bis. In tale caso, l’autorità di Pubblica sicurezza, su autorizzazione del pubblico ministero che procede, diffida formalmente l’indagato dal compiere ulteriori atti persecutori mediante notificazione nelle forme ordinarie.
L’introduzione della norma in esame rappresenta dunque un’importante spinta, ispirata tanto ai fondamentali criteri di garantismo, propri del nostro ordinamento, quanto ad una decisa e ferma attenzione ad un fenomeno fino ad ora, forse, troppo oscuro.
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