“E’ uno strumento che si connette alla vita di milioni di persone, e che in occasioni come quelle delle proteste in Iran diventa uno strumento democratico drammaticamente insostituibile”, ha dichiarato nel giugno scorso, in un’intervista a la Repubblica, Biz Stone, fondatore, con Evan Williams e Jack Dorsey, di Twitter, il sistema di comunicazione web che sta erodendo il quasi monopolio di Facebook nel campo dei social network.
Il riferimento agli eventi iraniani è senza dubbio corretto, e in questo senso Twitter può essere definito - come del resto qualsiasi mezzo di comunicazione - “uno strumento democratico”. Ma a caratterizzare la creatura di Stone & C. sono essenzialmente due aspetti: agli utenti è fornito uno spazio personale che può essere riempito ogni volta con un massimo di 140 caratteri; i messaggi possono essere trasmessi oltre che attraverso il sito, anche, via sms, con un cellulare. Questo secondo aspetto è quello che fa la differenza, come ammette Stone: “Sì, fin dall’inizio abbiamo capito che lo spazio aperto dalla comunicazione mobile era enorme. Ci sono quattro miliardi di persone con telefono portatile, e tutti potenzialmente possono collegarsi a Twitter, tutti mandano e ricevono sms, sanno come fare, ne conoscono il linguaggio. La forza di un tweet è che non va a una sola persona, ma va ovunque, sul web e sui cellulari, chi lo usa ha a disposizione una piattaforma straordinaria”. Servendosi solo di 140 caratteri. E di qui la parentela stretta con i messaggi dei cellulari, e le conseguenti riserve sulle aggressioni e deformazioni che sempre più frequentemente - soprattutto fra i giovani, ma non solo - subisce il linguaggio scritto.
Dillo con un tweet, da “totweet” che in inglese significa “cinguettare”, e infatti un uccellino azzurro è il grazioso simbolo del sito. “Si piò essere creativi anche con 140 caratteri”, afferma Stone. In effetti, per fare due esempi illustri, “Cogito ergo sum” e “To be, or not to be, that is the question” ne richiedono molti di meno. Ma quanti Cartesio e quanti William Shakespeare comunicano il loro pensiero su Twitter? E, per tornare all’attualità, quanti “casi Iran” si registrano?
A questi interrogativi ha cercato di trovare una risposta la società di ricerche americana Pear Analytics, che ha condotto uno studio sul microblogging gestito dalla Obvious Corporation di San Francisco, monitorando per dieci giorni il flusso dei tweet. Il risultato non è molto gratificante per il popolo dei cinguettatori: nel 40,55% dei casi i messaggi trasmessi sono chiacchiere inutili (tipo “sto mangiando un panino” o “ho sonno e vado a letto”), il 37,55% consiste in “instant messaging”, botta e risposta tra due o più persone; l’8% trattano argomenti di un certo interesse; il 5,85% riguardano vendite e pubblicità di prodotti; l’8,75% è spam, “immondizia” di vario tipo: e solo il 3,6°% è uno scambio di notizie. Ryan Kelly, presidente della Pearl Analytics, ha assicurato che lo studio avrà un seguito, con monitoraggi ripetuti ogni tre messi, aggiungendo: “Sarà interessante vedere se Twitter assumerà un ruolo più importante nelle news, o continuerà ad essere un mezzo per condividere attività che hanno ben poco a che fare con gli altri utenti”.
In attesa di questa verifica, un’altra ricerca, questa della società comScore, ha stabilito - contraddicendo la vulgata comune - che ad essere sedotti da Twitter sono in larga misura gli adulti, i trentenni e i quarantenni che precedentemente non avevano confidenza con gli altri social network, mentre solo l’11% degli utenti dell’uccellino azzurro sono giovani tra i 12 e i 17 anni. La percentuale, secondo uno studio di Pace University, sale al 22% tra i 18 e i 22 anni.
Comunque, per tornare all’aspetto linguistico, il problema - “the question”, direbbe Amleto - è di riuscire a sintetizzare, a essere “creativi” (e già qui bisognerebbe intendersi sul termine) con non più di 140 caratteri. O molto meno. Un pastore americano di una chiesa di Portland si è offerto di celebrare matrimoni via Twitter: basta digitare un bel “yes”, e premere il tasto dell’invio. Lo si può definire un caso limite, e per forza di cose limitato.
Nel frattempo, se l’uccellino azzurro continua a fare proseliti, appare sulla rete un antagonista che punta, ringhiosamente, all’estremo opposto. Ed ecco arriva Woofer, sito per chi non si accontenta di cinguettare poche parole, ma aspira a manifestare estesamente le proprie idee. Un “woof” essendo l’equivalente di un “bau” canino, Woofer è l’abbaiatore, e il simbolo è infatti un cagnolino, blu, a somiglianza del suo collega pennuto. La regola imposta agli utenti è come per Twitter, basata sul numero dei caratteri per ogni post. Nel primo ci si deve limitare a 140? In Woofer è obbligatorio arrivare almeno a 1.400 caratteri, senza indicazione di limite.
L’iniziativa è della Join the Company, una società di Washington che si presenta come specializzata nella creazione di siti “che cambiano il modo di concepire e usare Internet”. I promotori di Woofer non nascondono di essersi ispirati al microblogging di Stona, e consentono l’accesso al loro sito servendosi dell’user name usato in Twitter. Precisando però “Non siamo Twitter e non siamo in alcun modo legati a loro”.
Da un massimo di 140 a un minimo di 1.400, dagli stringatissimi “tweet” ai prolissi “woof”, sul piano qualitativo il panorama non sembra cambiare molto. L’ultima registrazione dava 8.772 utenti e 10.594 “woof”, con un totale di 545.595.282 caratteri, una media di 50mila caratteri per ogni intervento. Cioè molto di più del limite minimo richiesto. Forse che il nuovo sito ha miracolosamente incrementato la vena creativa dei suoi affiliati? In realtà quello che appare è o la proposta di brani di testi più che conosciuti (dall’Antico Testamento ai romanzi di autori classici, con puntate sui discorsi di Abramo Lincoln e Martin Luther King), o una serie di divagazioni in piena libertà sintattica e mentale, o la ripetizione metodica della stessa frase, della stessa parola, o addirittura della stessa lettera.
Che dire? Micro o macro che siano, i social network hanno in ogni modo il merito di essere uno specchio abbastanza fedele del mondo in cui viviamo.
|