Abbiamo raccolto le testimonianze
di cittadini comuni, quelli che non appaiono
mai alla ribalta, ma che costituiscono
l’essenza di una nazione per molti aspetti
esemplare, che vive in una costante
situazione di conflitto, di rancori, e spesso
di incomprensione
Israeliani, questi sconosciuti. Se Israele è uno dei Paesi più citato al mondo nei media, non altrettanta attenzione viene data agli abitanti di Israele. Non che i rappresentanti dello stato ebraico non vengano mai citati. Anzi. I principali politici israeliani sono molto conosciuti ed i loro nomi quasi di pubblico dominio. Ma, salvo ben rare eccezioni, nella stampa non ci sono interviste o profili di israeliani. Esclusi i pacifisti o coloro le cui posizioni politiche sono apertamente ostili al governo del proprio Paese.
Nulla di male in tutto ciò. Ma è lecito domandarsi se si può stereotipare una nazione fino a questo punto, presentando sempre immagini di militari o religiosi ultraortodossi. Se questi fanno parte del tessuto sociale israeliano, lo stesso presenta un panorama ben più ampio. Raramente si parla di israeliani nel campo dello sport, dell’arte, della scienza, etc. Eppure, volendo approfondire viene fuori un mondo di grande ricchezza. Programmi scientifici all’avanguardia, innovazioni ambientali, relazioni di coesistenza e, soprattutto, un forte e sentito dibattito interno relativo alle grandi questioni legate anche ma non solo al conflitto.
Non che non manchino forti elementi di criticità. Come ad esempio la discriminazione razziale ai danni della popolazione araba, l’aggressività della componente religiosa ultraortodossa, che tende sempre più ad imitare la controparte islamica nel tentativo di imporre una propria morale e visione del mondo, l’intransigenza di una larga parte del movimento dei coloni che è sicuramente uno degli ostacoli al progredire del processo di pace.
Eppure osservando con occhi privi di pregiudizio, Israele, pur con tutte le sue criticità, anche gravi, non è affatto quella nazione mostruosa, malvagia e sanguinaria come invece sembrerebbe dalla lettura di molti media. Una nazione i cui abitanti, parrebbe, vivono animati dal solo ed unico scopo di opprimere ed annientare i palestinesi. Insomma gli israeliani sarebbero tout court i rappresentanti del male assoluto.
Nel giornalismo però si ascoltano le opinioni di tutti, per quanto abbiette esse siano. E’ il caso dei leader talebani, solo per fare un esempio. Strano, a maggior ragione, non ascoltare le opinioni degli israeliani. E sentire dalla loro voce come vivono, cosa pensano del loro Paese, che idee hanno, cosa hanno da dire. Ora che il conflitto scatenato da Hamas che ha portato alla drammatica situazione nella striscia di Gaza, colpita dall’offensiva israeliana, si è placato, e ora che il numero di attentati terroristici di matrice palestinese dentro Israele si è notevolmente ridotto, è il momento di sentire le voci degli israeliani. Loro, sempre invisibili anche quando vengono uccisi negli attentati. Perché dopo ogni attentato puntualmente i lettori vengono messi a conoscenza con dovizia di dettagli di chi era l’attentatore, da chi era composta la sua famiglia, come viveva, cosa faceva, etc. Dei morti invece, in genere, non si sa nulla. Non vengono pubblicate le loro foto e, spesso, neanche i loro nomi.
Muoiono così una seconda volta. E scompaiono nell’anonimato. Forse ritenuti indegni di qualche paragrafo. Questo atteggiamento parziale dei media, denunziato dal sito honestreporting.com mostra quanto sia ampio lo sbilanciamento della stampa a favore dei palestinesi. Giustificati sempre e comunque o scusati perché vittime.
Scrivere ed analizzare un conflitto che va avanti da decenni non è semplice. E nemmeno forse sarebbe compito dei giornalisti stabilire a priori le percentuali dei torti e delle ragioni di quella che è una delle situazioni più caotiche e conflittuali al mondo. Di sicuro però occorrerebbe ascoltare tutti. Israeliani compresi.
Ho scelto di sentire le loro voci e di permettere loro di esprimersi. Israel, Susanna e Jonathan sono ebrei di origine italiana che hanno scelto di andare a vivere in Israele. Nel loro caso ho chiesto loro, pur dando delle tracce, di presentarsi. Rachel invece è una giornalista di origini americane che segue molto da vicino a livello professionale la realtà israeliana. Da parte sua c’è una visione di addetta ai lavori che porta ulteriore ricchezza al quadro generale. Ho poi voluto ascoltare le mamme di soldati israeliani: Yvette e Annas. Yvette ha i figli nell’Esercito, ed è religiosa osservante. Annas, mamma di una soldatessa, è laica e femminista.
Le loro opinioni, a volte discordanti, a volte simili, sono un piccolo spaccato della società israeliana. Una società lacerata quanto animata da presenze a volte contraddittorie, come quella dei laici e dei religiosi ultraortodossi, eppure frizzante, viva e variegata. Piena di tanti colori.
Attraverso le parole degli intervistati viene fuori un Israele in cui la realtà è molto più diversificata di quanto si possa a primo avviso pensare. Realtà in cui ci sono tutti i colori e non certamente solo il nero. E comunque la realtà israeliana è difficile da comprendere dall’esterno.
A confermarlo, Angelica Kalò Livnè, israeliana ed attivista per la pace. Incontrata nel corso di un suo recente viaggio in Italia. “Da lontano non si può capire cosa vuol dire essere costantemente in guerra. Mi chiedono come mai io, che opero su tanti fronti per la coesistenza tra arabi ed ebrei in Israele, e porto in giro il gruppo teatrale per la pace di Bereshhet LaShalom, ho inviato i miei figli nell’Esercito. Come ogni mamma ho sempre sperato che per i miei figli non ci fosse stata la necessità di andare nell’Esercito con tutti i rischi che questo comporta. Purtroppo non è possibile fare altrimenti. Israele deve difendersi. Noi siamo un avamposto circondati da nazioni oscurantiste che vorrebbero cancellare la nostra presenza. Ma non si tratta solo di Israele. Se noi siamo fatti fuori allora l’estremismo islamico dilagherà ovunque con tutte le conseguenze nefaste. Niente libertà di parola, niente arte, niente democrazia”.
E’ espressiva Angelica, si vede che fa teatro. Me ne parla a lungo. E’ la sua passione. Un teatro che vuole rompere le barriere “e fare in modo che ognuno di noi getti la maschera e superi le paure che ha nei confronti degli altri”. E racconta emozionandosi della ragazza disabile e del ragazzo omosessuale che, in due occasioni separate, le hanno detto che il suo teatro li aveva coinvolti. Nel profondo. Di questo Angelica è contenta: “Sono riuscita ad arrivare al cuore di chi a volte è discriminato ed escluso”. Rompere le barriere e gettare dei ponti di dialogo. Questo lo scopo di Angelica che, nonostante tutto, continua a credere alla pace. “Dopo la vittoria di Hamas le cose sono molto più complicate. Sono amica di una donna palestinese cristiana che gestisce un orfanatrofio per bambini abbandonati. Avevamo avuto l’idea di mettere insieme un gruppo di donne, sia palestinesi che israeliane, per preparare insieme il pane. Purtroppo non è stato possibile. Hamas non vuole il dialogo, e minaccia o elimina chiunque sia disponibile a parlare con gli israeliani. Dopo il conflitto a Gaza abbiamo cercato di far venire in Israele dei bambini dalla striscia per un campeggio. Non li hanno fatti venire”.
Malgrado questo dalla bocca di Angelica non escono parole di disprezzo nei confronti dei palestinesi. “Sono ostaggi di gruppi integralisti corrotti che li usano e li indottrinano per continuare l’odio nei confronti di Israele. Malgrado la quantità incredibilmente enorme di denaro che ricevono molti vivono in povertà. Ma perché nessuno si chiede dove finiscono questi soldi? Se sono poveri perché i loro capi continuano a comprare missili e razzi da lanciare contro di noi?”
Chiedo ad Angelica se non pensa sarebbe meglio tenere la religione, dai due lati, fuori dalle contese territoriali. “La religione permette di arrivare a più persone e di meglio manipolarle. L’oppio dei popoli, un po’ come diceva Marx. C’è un uso della religione e anche una manipolazione della stessa ai fini politici. Da israeliana sono infastidita da coloro che citano la Thorà e parlano del Grande Israele. A me non interessa. Mi basta un piccolo pezzo di terra dove poter vivere tranquilla con la mia famiglia ed i miei figli. Senza missili che ci cadano sulla testa”.
Già, i missili dalla striscia di Gaza. “Mio figlio Yotam è stato tra coloro che ha portato via i coloni quando Israele si è ritirata. Mi telefonava dilaniato nell’animo perché si trovava di fronte a gente letteralmente trascinata via dalle loro case. Ma io lo incoraggiavo e gli dicevo che tutto questo era per un bene grande, per la pace. Dopo tutto questo cosa abbiamo avuto? Razzi e missili lanciati contro di noi di continuo. Io vivo in un kibbutz laico nella Galilea, a circa un kilometro dal confine col Libano. Ci sono piovuti addosso due missili per fortuna piombati nel frutteto. Facile da lontano, dai salotti, giudicare e dire che noi e solo noi siamo i cattivi. Bisognerebbe sperimentare a vivere sotto la continua minaccia di attacchi prima di esprimere condanne”.
Le condanne sono quelle spietate e senza appello che ricevono i militari israeliani, sempre e comunque. E fanno da contraltare ad un’esaltazione eroica dei refusenik, quei giovani che si rifiutano si prestare il servizio nell’Esercito. “Mi spiace ma non ci sto. I miei figli scrivono poesie, fanno triathlon, pensano alla ragazza. Non sono dei bruti il cui unico scopo è attaccare i palestinesi. Facendo servizio militare difendono tutti noi, inclusi quelli che scelgono di fare i refusenik. Questi potrebbero dare un loro contributo. Curando i feriti, cucinando, o svolgendo, sempre nell’Esercito, attività che non richiedono l’eventuale partecipazione al combattimento. Invece se ne lavano le mani e si considerano moralmente superiori”.
Non ci sono solo i pacifisti che non svolgono il servizio militare però, ricordo ad Angelica. Anche i giovani delle famiglie religiose ultraortosse sono esentati. Angelica mi guarda ed annuisce. Touché. Vero. Anche loro non difendono la loro nazione. “La moglie di un uomo ortodosso che è stato salvato da mio marito mi ha detto che prega per i miei figli. Lo apprezzo, ma lei non può capire come a volte mi sento”.
Angelica parla con un leggero accento romanesco. Si esprime col cuore in mano, senza espressioni forbite e termini esageratamente intellettuali. Ti comunica tutta se stessa, si apre e ti presenta il suo cuore. Lacerato come quello di tanti altri israeliani dalla necessità di usare la forza per difendersi, con tutto quanto di negativo ne deriva, e l’imperativo assoluto di cercare, sempre e comunque, interlocutori disposti ad un sincero dialogo per arrivare alla pace. Nel frattempo si fa quel che si può. E Angelica, grazie alla sua energia dirompente, di cose ne fa tante. “Abbiamo trovato un fortino inglese abbandonato e vogliamo trasformarlo in un centro con elevati standard ambientali”.
E continua a raccontare le innumerevoli attività svolte per la sensibilizzazione ambientale, come le attività nelle scuole druse per un corretto uso delle risorse idriche. “In questo siamo all’avanguardia. Nella tecnologia, nella ricerca medica, nel campo delle energie rinnovabili. Senza parlare del fervente campo artistico: concerti, editoria, mostre. Pensa. Tutto questo pur essendo un Paese, suo malgrado, in guerra. Mi viene da pensare cosa saremmo riusciti a fare se fossimo in pace, e potessimo mettere tutte le nostre energie in questi campi. Inoltre siamo un Paese moderno, basta pensare alla condizione delle donne e delle persone gay che da noi, pur con delle aree di criticità, è decisamente migliore dei paesi che ci circondano”.
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