Si è conclusa lo scorso 24 maggio la mostra
“Futurismo Avanguardia-Avanguardie”, tributo
al movimento che scosse profondamente
il panorama artistico italiano
e internazionale. L’evento, ospitato dalle Scuderie
del Quirinale, ha celebrato questa importante
e tanto criticata corrente pittorica che ha segnato
una rottura con le precedenti ideologie, dando
voce con un linguaggio nuovo ai cambiamenti
socio-economici dell’inizio del Novecento
“Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!”. Con queste parole si chiude il Manifesto del Futurismo pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti il 20 febbraio del 1909 sul quotidiano francese Le Figaro. E’ un testo che scuote violentemente il mondo artistico e letterario di Parigi, centro dell’arte europea, metropoli brulicante e in continua trasformazione, con i suoi musei, le sue gallerie e le esposizioni annuali che ne animavano il clima culturale.
Il Manifesto di Marinetti, fin dalle sue prime battute, si scaglia con tutta la sua forza incendiaria contro il mondo impolverato delle Accademie, contro la venerazione ormai sterile del passato e dei suoi simulacri, contro la ripetizione pedissequa di regole e modelli preconfezionati, esaltando la modernità in tutti i suoi aspetti: la velocità, l’energia, le scoperte scientifiche e rivoluzionarie. Parigi, infatti, non è solo la città dei Salon e delle Esposizioni d’arte, ma anche una metropoli moderna, illuminata dai tubi al neon, attraversata dalle prime automobili e percorsa dal famoso métro realizzato in occasione dell’Esposizione Universale del 1900. E’ la città delle insegne intermittenti, dei teatri, dell’elettricità che illumina i grands boulevards, del ferro e dei bulloni della Tour Eiffel. E’ il punto di raccordo tra il passato e il futuro, terreno ideale per Marinetti e i suoi compagni per diffondere il seme provocatorio delle proprie idee, del desiderio di una innovazione temeraria e violentissima. «Largo ai giovani, ai violenti, ai temerari» si legge nel Manifesto.
Parigi sembra essere una piattaforma perfetta per l’esordio di questi giovani artisti, che si inseriscono in una situazione culturale già fervida di idee e ricca di sperimentazioni (risalgono a quegli anni le prime composizioni cubiste di Picasso e di Braque). I futuristi rivendicano un nuovo modo di fare arte, capace di rendere i cambiamenti del mondo moderno, di esaltarlo, di catturarne la molteplicità. «Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido» incalzano Marinetti e i suoi, per questo è necessario abbandonare le tecniche desuete della rappresentazione, ribellarsi alla costrizione dei cliché dell’armonia e del buon gusto e abbandonarsi all’innovazione più spregiudicata. Così, un cavallo in corsa non può essere rappresentato con quattro zampe, ma almeno con venti, perché non è una figura stabile, ma intermittente e scomposta: «le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono».
Al Manifesto seguì due anni dopo la prima esposizione nella galleria Bernheim-Jeune. Fu subito scandalo. Niente di simile era mai stato visto prima: davanti a quelle opere critica e pubblico ebbero una reazione violentissima. L’eco si diffonde in tutta Europa e, sull’onda del clamore suscitato, Marinetti conduce i “suoi” artisti attraverso un vero e proprio tour in giro per l’Europa, organizzando mostre ed eventi a Londra, Berlino, Amsterdam e Bruxelles. Sperimentatore ante litteram dei più ricercati metodi della comunicazione di massa, raffinato persuasore delle menti più vivaci che il nuovo secolo stava forgiando, Marinetti riesce a far pubblicare il Manifesto in numerosi giornali stranieri, diffondendo il nuovo messaggio con grande efficacia fino in Russia. Il Futurismo dilaga nel Vecchio Continente, mischiandosi alle altre avanguardie in un rapporto di reciproche influenze e scambi continui, dove nelle diversità e unicità delle singole opere è possibile rintracciare un’istanza comune: trovare nuovi linguaggi compositivi.
Cento anni dopo, la mostra alle Scuderie del Quirinale ha tentato di raccontare gli esordi di questa controversa corrente pittorica e il suo intrecciarsi con le altre avanguardie. Sala dopo sala viene scandito il percorso del Futurismo a partire proprio da quell’esposizione del 1912, con una particolare attenzione al rapporto col Cubismo, al complesso gioco di corrispondenze e divergenze tra i due movimenti artistici, delle quali sono espressioni gli sviluppi del Cubofuturismo e del Vorticismo inglese.
Nelle tele esposte rivivono le città dell’inizio del Novecento, organismi brulicanti che si moltiplicano e si trasformano con la costruzione di nuovi quartieri, nuove reti tranviarie e ferroviarie. Officine a Porta Romana di Umberto Boccioni è l’immagine di questi cambiamenti, dell’accrescersi della popolazione urbana e dell’ampliarsi delle periferie. Da un punto di vista pittorico siamo di fronte allo sviluppo della tecnica divisionista con una esasperazione delle linee, degli scorci diagonali e delle angolature: l’atmosfera della città è resa da improvvise accensioni cromatiche in contrasto con l’opacità dei vapori delle ciminiere in lontananza. Si tratta di una visione pittorica nuova, costruita sulla luce, sul trionfo dell’elettricità. La luce elettrica accende con i suoi bagliori anche la piazza di Carlo Carrà (Notturno in Piazza Beccaria, 1910), luogo spettrale, trasfigurato e irreale, e si rifrange sui tram in corsa e sui volti dei passanti, figure evanescenti come fantasmi. In Uscita dal teatro Carrà usa la luce per enfatizzare i contorni della folla, la solitudine dei luoghi gremiti di gente, l’alienazione prodotta dalla città.
La metropoli, con il suo ritmo frenetico e il mosaico di vite che la compone, è un teatro di emozioni e sensazioni diverse: in Stati d’animo (1911), Boccioni crea un mosaico di sentimenti per descrivere il momento del distacco. La prima parte che compone questo trittico, intitolata Gli addii, esprime i moti dell’animo attraverso lampi di luce, spirali e linee ondulate disposte diagonalmente; in Quelli che vanno, invece, lunghe pennellate diagonali tagliano la tela intersecando volti e costruzioni esaltati da un blu oltremare, il colore della malinconia; in Quelli che restano, infine, il verde accentua il senso di pesantezza e di gravità insite nel momento dell’abbandono.
Ampio spazio è dedicato all’esperienza sensoriale, alla percezione di suoni e di odori. Il rumore, lo stridore delle rotaie, delle lamiere dei treni, il tramestio della città, il vociare delle folle, il ruggire dei motori sono tra le più frequenti suggestioni uditive dell’immaginario futurista. In Ciò che mi ha detto il tram (1911) Carrà raffigura una baraonda di persone e di oggetti che si frantuma e si scompone in una miriade di linee, ricomponendosi in un magma monocromatico martellante e frenetico.
Centrale nell’arte futurista è il concetto di dinamismo, reso con una pittura scompositiva e non analitica come quella dei cubisti, dei quali i futuristi criticavano la stasi. Ed è proprio questa tensione dinamica, questa urgenza di rappresentare il movimento che affascina moltissimi artisti delle nuove generazioni. Anche Duchamp, distaccatosi dalle forme cubiste, sperimenta la dimensione del movimento, un movimento meccanico prodotto da incastri pefetti e ingranaggi (Nudo che scende le scale n.2, 1912). «La simultaneità» dichiarano i futuristi «è per noi l’esaltazione lirica, la plastica manifestazione di un nuovo assoluto: la velocità; di un nuovo e meraviglioso spettacolo: la vita moderna; di una nuova febbre: la scoperta scientifica». La simultaneità è, dunque, effetto del dinamismo, correlativo della moderna concezione della vita moderna, basata sulla rapidità e sulla contemporaneità. Moti diversi definiscono l’idea futurista di dinamismo: Giacomo Balla, ad esempio, lo analizza come in una successione di fotogrammi sovrapposti e leggermente sfalsati (Bambina che corre sul balcone, 1912). Per Boccioni forma e spazialità trovano una sintesi unica nel colore, nella tensione di linee-forza segnate da fasci di luce che spezzano l’unità della visione oggettiva, come in Le forze di una strada (1911). Ne La rivolta (1911) di Russolo, invece, il movimento unidirezionale avanza nel susseguirsi di forme triangolari rosse.
L'allestimento delle Scuderie del Quirinale è riuscito a celebrare il movimento futurista nella sua essenza, a svelarne la spinta primitiva capace di attrarre e sedurre intere generazioni contemporanee con l’impulso vitale che filtra dalle visioni multicolore delle sue tele. Permettendo, inoltre, il contatto irripetibile con opere famosissime, considerate all’epoca di totale rottura e divenute oggi grandi “classici” del Novecento internazionale.
FOTO: Umberto Boccioni, Stati d’animo, Gli addii, Quelli che vanno, quelli che restano (1911)
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