Alcune studiano all'università, molte
lavorano, altre sono
mamme. Alte, basse, robuste
e longilinee, giovani e meno
giovani, tutte con un sogno
in comune: essere la valletta sexy
di un conduttore qualsiasi. Perché
farcela significa valere davvero qualcosa
Alla domanda "perché siete qui?" molte di loro rispondono "per i soldi". Qualcuna tiene a precisare che non è solo per quelli, ma anche "per la possibilità di andare alle feste più esclusive, di conoscere gente famosa, di essere riconosciute per strada". Per tutte queste buone ragioni sono giunte da ogni parte d'Italia, hanno preso treni e aerei, hanno aspettato per ore sotto il sole davanti a un cancello. Hanno compilato moduli, si sono cambiate d'abito, hanno sistemato il trucco e atteso pazienti il loro turno. Qualcuna ha persino frequentato le lezioni di uno dei tanti corsi di formazione per "operatrici dello spettacolo", dove ti insegnano ad eseguire balletti ammiccanti o a sederti correttamente su un "trono". Sono migliaia e aspettano, sperando di poter entrare in quella scatola nera davanti alla quale hanno coltivato il loro sogno: diventare veline. Nel frattempo, nell'attesa dell'occasione che cambia la vita, frequentano l'università, lavorano, fanno le mamme. La loro vera aspirazione, però, è quella di tacere a fianco di qualche conduttore o di stare in bella mostra sotto un tavolo di plexiglass. Perché, come dice Sara, una ragazza di Novara di 22 anni, “se ce la faccio vuol dire che non sono proprio da buttare via".
Ai provini, di solito, le aspiranti veline entrano in piccoli gruppi da sei, rispondono alle domande di routine (nome, cognome, altezza, peso), danno un'occhiata in camera e poi partono con lo "stacchetto", un minuto scarso di ancheggiamenti più o meno aggraziati. Alcune si scusano per la bassa statura, ma rassicurano i responsabili dei casting che con dei tacchi possono tranquillamente arrivare al metro e settanta. Altre avvertono che non sono dotate di un decolté generoso, ma suggeriscono di poter essere, proprio per questo, un elemento di novità. Le rosse si battono contro la discriminazione a cui sono soggette (le veline di solito sono una bionda e l'altra mora) e si candidano come rappresentanti di questa categoria svantaggiata. Chi supera la taglia 42 si scusa e giustifica il momentaneo "sovrappeso" raccontando di essere stata appena lasciata dal fidanzato. Ognuna spera in cuor suo che qualcuno si accorga di lei e che la faccia approdare ad una vita di fama e ricchezza che le permetterà, finalmente, di essere felice.
Ma cosa spinge una ragazza che ha la media del 29 all'università o un lavoro di tutto rispetto a desiderare di sgambettare mezza nuda in televisione?
A giudicare dalle loro affermazioni, molte preferiscono non fare niente in televisione piuttosto che intraprendere una professione faticosa e poco remunerativa. Un successo rapido e semplice e una immediata stabilità economica sarebbero, quindi, motivi più che sufficienti a spingere migliaia di ragazze a mettersi in fila davanti ai cancelli delle stazioni televisive. Eppure, oltre all'ambizione di guadagnare tanto con il minimo sforzo, sembra esserci di più. Al di là di una ormai consolidata predominanza dell'essere sull'apparire, della volontà di essere tutte giovani, attraenti e desiderate, sembra esserci in queste ragazze un disperato bisogno di conferme e di approvazione che solo la televisione può dare. Riuscire a entrare nel piccolo schermo per molte significa suscitare l'invidia degli altri, dei parenti e dei vicini di casa; significa dimostrare di essere qualcuno, di valere qualcosa; significa essere riconoscibili e in quanto tali degne di massima considerazione.
La generazione di aspiranti veline non è neanche lontanamente paragonabile a quella che, all'inizio del neorealismo, affollava gli studi di Cinecittà sperando di poter sfondare nel mondo del cinema. Le giovani donne di oggi sanno perfettamente che la televisione non è una "fabbrica dei sogni" e ne conoscono bene la volgarità che la sostanzia. Semplicemente la accettano, come un piccolo prezzo da pagare per accedere a una tanto agognata felicità. Una felicità riposta in fatti del tutto esteriori, quindi estremamente fragile e sfuggente.
A rileggere un'intervista che Pier Paolo Pasolini rilasciò all'Espresso nell'ottobre del 1972 si rimane scioccati dalla lungimiranza delle sue previsioni. Egli faceva notare come in tv la donna sia considerata a tutti gli effetti un essere inferiore: questa, infatti, «viene delegata a incarichi di importanza minima, come per esempio informare dei programmi della giornata; ed è costretta a farlo in un modo mostruoso, cioè con femminilità. Ne risulta una specie di puttana che lancia al pubblico sorrisi di imbarazzante complicità e fa laidi occhietti. Oppure viene adoperata ancillarmente come valletta (del "maschio" Mike Bongiorno e affini). E non è nemmeno concepibile che a lei si affidi la lettura delle gravi e importanti notizie del giornale radio».
E pensare che Pasolini attribuiva questi atteggiamenti alle tanto rimpiante "signorine buonasera", che nell'immaginario collettivo sono ormai consolidati esempi di pudore e di compostezza. Ciò che vediamo oggi è una degenerazione di quel modello che allora si andava a costituire, una degenerazione che ci ha portati indietro e che rientra in quella "modernizzazione senza sviluppo" di cui parlava Pasolini. Svestendo le sue soubrette, infatti, la televisione esprime una liberazione apparente, una emancipazione del tutto superficiale, perché di fatto relega la legittimazione della donna alla sua visibilità.
Viene da chiedersi quale effetto può avere sulle bambine e sulle adolescenti di oggi il bombardamento mediatico di seni e di cosce scoperte a cui sono quotidianamente sottoposte. Stando alle testimonianze che compongono il libro "Appena ho 18 anni mi rifaccio", edito da Bompiani, le prospettive sembrano alquanto allarmanti. Dai racconti delle venti adolescenti intervistate da Cristina Sivieri Tagliabue emerge una generazione ossessionata dal culto di un corpo perfetto e dalla volontà di piacere agli altri (anche se il piacersi, lo stare meglio con se stessi, è l'alibi più ricorrente). A pagina 85, ad esempio, troviamo: "Stasera in discoteca (…) le mie amiche con le tette, i boys se li ritroveranno lì, a sbavare, appena entrate. Se non c’hai le tette, non sei una vera donna". Il compiacimento dei "boys", quindi, è il lascia passare per un'esistenza felice, la legittimazione del proprio essere donna. Leggendo queste pagine ci si accorge, allora, che la velina non è più solo un prodotto mediatico, ma l'identità quotidiana di molte ragazzine, pronte a compiacere i maschi per elemosinare un po' di potere, di bella vita mondana e di visibilità narcisistica. Cresciute davanti agli "stacchetti" e ai silenzi delle signorine che popolano la nostra televisione, hanno introiettato quel modello di donna, un modello maschile e maschilista, e attraverso quello hanno imparato a guardare loro stesse e le altre.
Sembra difficile che, alla lunga, questa tendenza sia priva di conseguenze: il rischio più grande, infatti, non è solo convincersi che per ottenere qualcosa si debba "estorcerlo" con la seduzione, ma che, adottando un punto di vista maschile, una donna arrivi a non riconoscere più cosa desidera veramente.
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