Un romanzo che denuncia, senza mezzi termini,
le vicende di un giovane lavoratore
“fantasma”, costretto ai meccanismi malati dell’edilizia
illegale che, senza scupoli, sfrutta l’immigrazione
clandestina a proprio vantaggio
Valerio Varesi con Il paese di Saimir (Verdenero, 2009, pp. 312, euro 13) dimostra di essere un narratore d'eccellenza, affrontando un tema di grande rilievo sociale, quello delle morti sui luoghi di lavoro, dovute alla mancanza di rispetto delle norme sulla sicurezza.
Il protagonista è Saimir, un diciassettenne albanese venuto in Italia per lavorare, che impara a conoscere un'Italia parallela, quella del lavoro nero, del caporalato, della clandestinità, che lo obbliga a essere un'ombra. In quella condizione di irregolarità ha solo una maniera per lavorare, trovarsi tutte le mattine in uno dei posti in cui i caporali vanno a cercare manovalanza e sperare di essere preso. Il lavoro lo trova, insieme ad altri conterranei è impegnato nella ristrutturazione di una casa, che una domenica crolla. Saimir rimane sotto le macerie, è vivo, ma nessuno lo cercherà, perché lui non esiste, l'imprenditore non può rischiare di essere imputato di omicidio e di utilizzare lavoratori stranieri non in regola con il permesso di soggiorno.
Intanto il ragazzo è ancora vivo, sepolto sotto le macerie ha i pensieri che vagano, pensa alla madre, alla sua terra, alle prospettive di migliorare la propria vita, consapevole però che più passa il tempo, più rischia che nessuno venga a cercarlo. Saimir pensa che questo non possa accadere, che i suoi compagni andranno a cercare soccorso, che non lo lasceranno morire a diciassette anni. Ma anche loro sono clandestini, non possono permetterselo e non ci pensano nemmeno molto a vendere il ragazzo, ricattando capomastro e imprenditore. Quest'ultimo è un uomo cinico, che deve imporre la propria supremazia in ogni campo, anche a letto con le donne e con violenza. Le figure femminili sono quelle di donne rassegnate allo squallore della propria vita. Vera, la madre di Saimir, passa il tempo davanti alla televisione, sintonizzata su canali italiani, perchè spera di intravedere la figura del figlio, dietro agli inviati che commentano le notizie in strada. Vera immagina per lui una vita migliore.
Questo è un romanzo tristemente aderente alla realtà, una realtà che la felice penna di Varesi rende vivida. Noi siamo Saimir, siamo Vera, siamo la prostituta albanese sfruttata, entriamo in tutti i personaggi con compassione e rabbia, non dimenticandoci che questa è una storia emblema del nostro tempo, dove sempre di più ci si sbrana a vicenda.
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“Per campare, talvolta si può anche morire”
Parlaci del tuo libro, come è nata l’idea di scriverlo e, soprattutto, perché?
Quando Alberto Ibba, l’editor della collana "Verdenero", mi ha fatto scorrere sotto il naso l’elenco dei possibili temi su cui avrei potuto imbastire un romanzo, l’occhio è subito corso a quello delle "morti bianche". Certe cose capitano come mosse dall’occulta regia del destino. Mi sono immaginato bambino di nemmeno tre anni e mio padre che rientrava a casa dopo mesi di ospedale sorretto da mia madre e con la testa interamente fasciata come un misterioso signore orientale munito di turbante. Mi raccontarono poi che alla sua vista scappai via impaurito rifugiandomi in un’altra stanza e mio padre misurò un’altra volta quanto fosse cambiata la sua e la nostra vita. La paura di un bimbo che scappa deve aver approfondito in lui, salvo per miracolo dopo un grave incidente sul lavoro, l’idea di non essere più lo stesso. Forse allora sentì sfumare definitivamente la gioventù, i suoi progetti e i suoi floridi trentacinque anni colmi della speranza di un ex contadino emigrato nella grande città.
Mio padre si riprese e tornò forte, ma niente fu come prima. Un occhio spento per sempre, gravi disturbi come postumo e un’invalidità permanente. Per campare, talvolta si può anche morire. Del tutto o parzialmente, come mio padre.
Per questo ho voluto scrivere questo libro. Non solo per riportare a galla e risolvere quel grumo infantile rimasto a lungo sospeso, ma per dare voce alle tante vittime silenziose di strade, cantieri e officine, considerate con cinica indifferenza come un inamovibile dato di fatto. Per far questo ho scelto il destino di un povero del mondo, un immigrato clandestino fuori e dentro il cantiere.
In fondo il protagonista, un diciassettenne albanese, non era così diverso da mio padre. Stessa povertà, stessa speranza di riscatto, stessa tenacia sorda di rimediare alla propria condizione e stessa voglia di dare ai propri figli un destino migliore. E intorno un mondo ostile di egoismi e viltà: in definitiva disumano. E’ il mondo del profitto per il profitto, della nuova e vecchia rincorsa al denaro anche a costo di calpestare il prossimo. Corsa che non riguarda solo una parte, quella che oggi ha in mano il potere economico. La contaminazione del cinismo riguarda anche coloro che momentaneamente ne sono vittime. Appena intravista la possibilità di uscire da una condizione di inferiorità, anche queste ultime imparano alla svelta il ruolo di carnefici. Non sono quindi ammesse suddivisioni tra buoni e cattivi a partire dal ruolo.
Il male si mischia irrimediabilmente e convive più o meno latente in tutti. In questa umanità indifferenziata, c’è un vero latitante: la collettività, lo Stato con le sue regole. Qualcosa che sta sopra agli uomini, buoni o cattivi che siano, stabilendo limiti, diritti e doveri. Anche di questo parla il libro, non potendo cambiare la natura umana, ma solo raccontarla così com’è.
(a cura di Simona Mammano)
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