Nel 1995, in Tunisia, una
ragazza italiana viene
uccisa: autore del delitto
un giovane del luogo che
“confessò” il fatto. In realtà
gli autori dell’omicidio
erano persone influenti
che dovevano restare impunite
Milena Bianchi, nel 1995 incontrò la morte a diciotto anni. In Tunisia, dove era andata in vacanza, come le accadeva da qualche anno.
Amava ripetere agli amici: “Farò l’amore solo quando capirò di aver trovato la persona giusta”; e per questo era solita respingere i corteggiatori più intraprendenti. Era una scelta naturale per lei, educata in un ambiente particolare. Proprio questa sua convinzione, in un certo senso, le costò la vita.
Figlia unica, viveva a Bassano del Grappa con i genitori. A novembre del 1995 tornò, come era solita fare, in Tunisia per una vacanza. Il 25 dello stesso mese si persero le sue tracce. La sua amica, Elisa, raccontò che quel giorno Milena doveva incontrarsi con un ragazzo tunisico, Sami, con il quale aveva stabilito un flirt, per poi tornare a casa, ma l’attesa fu vana. Trascorsa la notte, l’amica, il mattino seguente denunciò la scomparsa di Milena alla Polizia. Sami, dal suo canto, disse che, contrariamente a quanto pensava Elisa, non incontrò la ragazza.
La Polizia tunisina cominciò le indagini interrogando Elisa. Questa, fra l’altro, accennò ad una sorta di clima erotico che si era creato intorno a Milena per il fatto che era ancora vergine, diversamente alle sue coetanee. Tra i ragazzi tunisini del gruppo si stabilì una specie di sfida su chi l’avrebbe convinta a fare l’amore. A dire il vero Milena non riusciva a capacitarsi di tanto interesse nei suoi confronti e, nella rete dei desideri maschili, si muoveva un po’ attonita, sconcertata.
Ma eccoci ai giorni della tragedia. Secondo la prima ricostruzione dei fatti il perno della vicenda è, secondo la Polizia, il diciottenne Munir Taib ben Salem, con il quale Milena era uscita qualche volta prima di legarsi con Sami. Il motivo del “distacco” era stato, ancora, la verginità della ragazza. Munir, appartenente ad una agiata famiglia tunisina, voleva avere rapporti sessuali completi e lei lo allontanò irritata per questa sua insistenza. “All’inizio - scriveva Milena nel suo diario - credevo che Munir mi piacesse molto ed ho accettato la sua compagnia solo perché sentivo il bisogno di essere amata. Credevo che mi volesse veramente bene, invece voleva solo divertirsi con me”. Il ragazzo non si rassegnò all’abbandono e chiese alla ragazza un incontro per chiarire la vicenda. Le diede appuntamento in un posto tranquillo. Un incontro che sfociò (secondo la “confessione” di Munir) nell’uccisione.
Il racconto di Munir, a dire il vero, presentava delle incongruenze veramente singolari. A cominciare dal modo con il quale avrebbe ucciso la ragazza, dal trasporto del corpo di Milena fino al luogo del ritrovamento (secondo Munir lo avrebbe portato sul ciclomotore) e tanti altri particolari. La confessione fu minuziosa come una lezione imparata a memoria. Se ne rese conto anche l’avvocato Marazzita che assunse la difesa di Munir.
Dunque la “confessione” di Munir era falsa e serviva a coprire i veri colpevoli, il tutto con la complicità della magistratura tunisina. “Basti dire- ricorda Nino Marazzita nel suo libro L’avvocato dei diavoli - che sia la mamma di Milena che io stesso, durante il nostro soggiorno in Tunisia per seguire il processo, eravamo continuamente pedinati dalla Polizia nel timore che, con le nostre indagini private, potessimo avvicinarci alla realtà. Così non mi stupii quando i giudici, nel processo di primo grado, condannarono Munir a venti anni di reclusione, condanna confermata in appello”.
Ma ecco il colpo di scena, Munir rese una nuova confessione. Raccontò di essere stato avvicinato da due uomini che conoscevano il suo nome e lo avevano spinto nel garage, scenario del delitto, minaciandolo con una pistola...
La ragazza era morta e lui si sarebbe dovuto accollare la colpa del crimine, gli ordinarono, dettandogli la confessione parola per parola. E se avesse disobbedito, aggiunsero, la sua famiglia sarebbe stata privata di ogni bene e rovinata con tutti i mezzi possibili. Uno dei due uomini, quindi, lasciò una macchia di sangue sulla parete del garage, dicendo a Munir che avrebbe dovuto ricoprirla di vernice dopo aver tentato di cancellarla.
Una delle due persone era straniera, forse italiana, mentre l’altra, a giudicare dal colore della pelle, poteva essere nordafricana.
Dopo essersi accertati che il ragazzo avesse memorizzato nei dettagli il piano, i due lasciarono il garage, dopo aver depositato sul pavimento un sacco in cui, gli dissero, avrebbe trovato 500 dinari come compenso della sua “collaborazione”. Fuori aspettavano una donna e un altro uomo, ambedue italiani, a bordo di un furgoncino.
Munir raccontò di essere salito accanto a loro e di essere stato condotto nel luogo dove poi sarebbe stato rinvenuto il cadavere di Milena. “Questo è il posto che indicherai ai magistrati” gli dissero, ribadendo che se non si fosse attenuto alle loro istruzioni, la sua famigliia sarebbe stata distrutta. Non doveva preoccuparsi della pena, aggiunsero, in quanto secondo la loro versione dei fatti il delitto poteva essere considerato omicidio preterintenzionale, consentendogli di uscire dal carcere dopo tre anni.
La realtà, dunque, non era quella della prima “confessione” di Munir: Milena sarebbe stata rapita per uno di quegli harem tipici degli arabi moderni, uomini politici, imprenditori influenti ammanigliati con il potere sempre disposto a coprire i loro misfatti.
Certi personaggi erano alla ricerca di ragazze giovani, bionde e vergini. Come Milena. I genitori della ragazza uccisa e quelli del giovane Munir si accordarono in un piano comune volto a sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sul mistero ancora insoluto della morte della ragazza e sulla sorte di Munir finito in galera per paura. I loro sforzi, non portarono ad alcun risultato. La morte di Milena Bianchi è tuttora un mistero.
Munir oggi sarà probabilmente libero dopo aver scontato una condanna di comodo. Così come gli era stato assicurato.
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