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Aprile-Maggio/2009 - Articoli e Inchieste
Pensionati
L’esercito che vive nell’ombra
di Eleonora Fedeli

Vivono con redditi che non superano
i 500 euro, hanno figli precari da aiutare
ma non riescono ad arrivare alla terza settimana
del mese. Sono i pensionati italiani, milioni
di persone che non reggono la corsa
dell'inflazione, che non hanno i soldi per
le bollette e per pagarsi una badante. E che
vivono dietro un muro di silenzio
che nasconde la loro condizione


La signora Anna ha ottant'anni. Cerca una nuova casa anche se una casa già ce l'ha. Il problema è che pagare un mutuo di 500 euro con una pensione di 550 euro e un’indennità di accompagnamento di 450 è impossibile. Per pagare le ultime rate si è venduta tutto, persino i gioielli d'oro che conservava da una vita. Alla fine ha chiesto un prestito alla vicina di casa, alla quale ha garantito, tramite un accordo firmato, la restituzione della somma in piccole tranches. Ogni mese le da quello che può, quello che resta dopo aver pagato le bollette, le medicine e la badante. Anna non ci dorme la notte al pensiero di come racimolare i soldi: sono sette anni che paga le rate alla banca, ma gliene mancano ancora otto per estinguere completamente il suo debito. Da qualche mese è senza gas, perché preferisce conservare i soldi della bolletta per pagare il mutuo. Perché il rischio più grande è che le pignorino la casa.
Di storie come quella di Anna se ne potrebbero raccontare a centinaia. C'è quella di Lucia, un'anziana signora di 90 anni parzialmente autosufficiente, che fino allo scorso anno riusciva a stento a pagare l'affitto e la badante. Da qualche mese i padroni hanno triplicato l'affitto e ora Lucia non sa dove andare. Mario a 68 anni è costretto a lasciare il suo appartamento perché, una volta scaduto il contratto di locazione, i padroni non hanno voluto rinnovarglielo. In quanto persona anziana, infatti, Mario è un inquilino poco "appetibile". A 61 anni, invece, Teresa dorme a turno dai figli: in questo periodo occupa il corridoio dell'appartamento della figlia più grande che fa la portiera.
Purtroppo sono davvero tante le storie di persone che, dopo una vita di lavoro e di sacrifici, si ritrovano senza soldi e senza un posto dove andare. Nella migliore delle ipotesi vanno avanti a stento, come Teresa che, dopo aver fatto la colf per 50 anni, prende la pensione minima, quella di 456 euro al mese. O come la signora Elvira, 70 anni, che con la pensione minima deve anche mantenere i figli di 35 e 36 anni, entrambi precari e senza una casa.
In Italia i pensionati sono un vero e proprio esercito che vive nell'ombra, formato da persone spesso non autosufficienti, da genitori di figli con un lavoro instabile o da persone rimaste sole. Un esercito che non riesce a far fronte alla crescente inflazione e all'aumento del prezzo dei beni di più largo consumo, spingendosi sempre di più nell'area grigia della povertà. Se, infatti, un insegnante, un operaio o un infermiere andati in pensione fino a 7-8 anni fa con un milione e cinquecento mila lire potevano mantenere dignitosamente la moglie e un figlio ancora a scuola, oggi con 1000 euro riescono a mala pena ad arrivare alla terza settimana del mese, con un figlio che probabilmente ha un'occupazione precaria.
Il problema è che l'emarginazione economica diventa anche emarginazione sociale. «Sono caduta molte volte» spiega Antonietta, una signora di settantotto anni con protesi alle anche che vive sola e lontano dai figli. «L’ultima volta, qualche settimana fa, sono rimasta ferma a terra quasi due ore, prima di riuscire a trascinarmi nel bagno e aggrapparmi a un mobiletto per provare ad alzarmi». Di prendere una badante non se ne parla nemmeno: con la pensione minima e tutte le spese da sostenere è costretta a farne a meno. Giuseppe, invece, ha avuto lo sfratto dall'appartamento dove abitava da più di 50 anni a via delle Cave, Roma. Ha avuto due ictus, è parzialmente autosufficiente ma ha bisogno di essere assistito. «Mio figlio ha inoltrato la pratica per l'istituto», dice. «Abita in una casa piccolissima con la moglie, lavorano tutto il giorno e non possono starmi dietro».
L'età, la solitudine, un reddito basso sono elementi che rendono le persone anziane e i pensionati più vulnerabili ai raggiri e alle truffe. Un sedicente addetto del Comune o di un servizio pubblico che entra nelle loro case, chiamandoli per nome, magari facendo riferimento a persone conosciute, sembra restituire un senso di appartenenza e cittadinanza, familiare e sociale, la prova che non si è stati dimenticati, abbandonati.

Un po' di numeri
Stando ai dati dell'Istat quasi la metà delle pensioni italiane (il 46,7%) ha importi al di sotto di 500 euro. Se la cava meglio il 26,4% che riscuote assegni tra i 500 e i mille euro e un 13,2% che può contare su un reddito mensile che va tra i 1000 e i 1500 euro. Dall'analisi disaggregata per tipologia di pensione percepita, si osserva poi che i pensionati di vecchiaia e di invalidità sono maggiormente presenti nelle classi d'importo mensile comprese tra i 500 e i 1000 euro. Lo stesso vale per i titolari di pensioni sociali, che hanno prevalentemente redditi pensionistici con importi mensili che non superano i 500 euro.
In pratica, chi ha più bisogno percepisce una pensione inferiore. Di fronte a questi numeri, i 500 mila pensionati ai quali il governo ha fatto recapitare la «social card» sembrano delle gocce in un oceano. Ma cosa si può fare per risollevare le sorti di questa enorme fetta della popolazione italiana? Secondo lo Spi Cgil, il Sindacato dei Pensionati Italiani, le cose da fare sarebbero molte. Fra le priorità l'adeguamento della pensione all'inflazione, l'estensione della 14esima a chi ha più di 700 euro al mese e una legge che tuteli i non autosufficienti.

Il paradosso del lavoro
E che dire poi della proposta di innalzare l'età pensionabile delle donne a 65 anni? C'è chi sostiene che attraverso l'equiparazione dell'età pensionabile delle donne si renda giustizia alle discriminazioni cui sono soggette le lavoratrici. Eppure, la legge 903 del 1977, nota come legge di parità di trattamento tra uomo e donna, stabilisce (ormai già da 32 anni) che le lavoratrici, se vogliono, possono continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini e ciò anche se hanno maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia (60 anni di età e 20 anni di contribuzione). Addirittura, le lavoratrici del pubblico impiego possono continuare a lavorare come i loro colleghi fino a 67 anni. A quale discriminazione, quindi, va resa giustizia? Come può essere considerata discriminatoria una norma che è stata pensata e voluta proprio per permettere alle donne di decidere se continuare o meno di lavorare? Andare in pensione a 60 anni, infatti, non è un obbligo, ma un'opportunità.
Discriminatorio, invece, sarebbe costringere le donne a lavorare obbligatoriamente fino a 65 anni, tenendo conto che oggi l'età reale di pensionamento delle donne è più alta di quella degli uomini. Non a caso la maggior parte delle lavoratrici sono titolari di pensioni di vecchiaia: questo perché (e qui sta la vera discriminazione) le donne scontano un ritardato accesso al mercato del lavoro, sono spesso costrette a fare lavori saltuari, precari, stagionali e part-time, devono frammentare la loro vita lavorativa per dedicarsi alla cura dei figli e dei genitori e subire licenziamenti in tronco per la maternità. I lavoratori, invece, sono soprattutto titolari di pensioni di anzianità, prerogativa maschile di chi ha iniziato a lavorare presto con continuità e senza le interruzioni dovute ai problemi familiari.
Tutti gli studi della Commissione europea confermano che le donne in Italia e in Europa studiano di più ma vengono assunte meno, hanno meno opportunità di lavoro, a parità del quale hanno retribuzioni più basse e hanno meno opportunità di carriera. A fronte di questa situazione appare poco verosimile che si possa garantire pari opportunità alle donne costringendole a lavorare cinque anni in più.
C'è anche chi ha esortato le madri a lavorare qualche anno in più per aiutare economicamente i propri figli. Ma in tal modo il paradosso che si viene a creare è che le donne non possono smettere di lavorare e i loro figli non possono cominciare.

[Sul web: www.spi.cgil.it - www.libereta.it - www.rassegna.it - www.auser.it]

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La social card

La carta acquisti (cosiddetta social card) è stata prevista dalla manovra d'estate con i decreto legge 112/2008, convertito dalla legge 133/2008. E' una carta di pagamento, vale 40 euro al mese. Può essere usata per pagare in negozi e supermercati del circuito alimentare dotati di Pos abilitati a Mastercard. Se l'esercente ha stipulato una convenzione, la card dà diritto a uno sconto del 5%.
La tessera viene consegnata dalle Poste ad anziani di almeno 65 anni e ai genitori di bambini di età inferiore a tre anni che siano cittadini italiani e abbiano gli altri requisiti di reddito previsti dalla norma istitutiva. Il richiedente deve avere un indicatore Isee inferiore a 6mila euro. Per gli over 65, però, occorre che siano sotto i 6mila euro anche il reddito imponibile e il reddito comprensivo dei redditi esenti (es. rendita Inail). Ai fini del nucleo familiare si conteggiano i soggetti risultanti sullo stato di famiglia, anche non a carico. Inoltre, non bisogna avere casa di proprietà, né più di un'auto, né più utenze domestiche, né depositi superiori a 15mila euro.
Si stima che tra i tanti che a partire dal 1° gennaio 2009 hanno richiesto e ottenuto la social card, molti non hanno ancora ricevuto gli arretrati. La scadenza era stata spostata al 28 febbraio, data passata senza che i 120 euro di ricarica promessi siano stati addebitati alle 200mila persone, che ora sono senza soldi e senza risposte.

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