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Aprile-Maggio/2009 - Editoriale
direttore@poliziaedemocrazia.it
Sull’immigrazione manca la chiarezza
di Paolo Pozzesi

Forse sarà dovuto a una dose eccessiva di scetticismo, ma le contrapposte posizioni ripetutamente enunciate su come affrontare il problema dell’immigrazione clandestina - e non parliamo solo di partiti, di maggioranza e opposizione - non ci sembrano, né le une né le altre, convincenti. Permane l’impressione che dietro le polemiche rituali, e le altrettanto rituali reciproche accuse di servirsi di questo problema in modo “strumentale”, la sostanza venga solo marginalmente valutata e analizzata per come è nella realtà.
Ancora una volta, non ha giovato all’obiettività e alla concretezza la coincidenza tra i “respingimenti”di qualche centinaio di clandestini in Libia, la presentazione in Parlamento del decreto legge sicurezza, e l’avvicinarsi delle elezioni europee. E’ già accaduto, sempre a scapito della chiarezza. Sui “respingimenti” si è molto discusso, si discute, e si discuterà, da una parte stigmatizzandoli quali espressione di razzismo, dall’altra ostentandoli come titoli di merito sul fronte dell’“efficienza”, tanto da contendersi il copyright dell’iniziativa. Con il risultato di creare nei cittadini, in una situazione di crisi che presenta un ventaglio di incognite angoscianti, ulteriori preoccupazioni, e, infine, paura. E sappiamo molto bene che dalla paura non è mai nato nulla di positivo.
Eppure, parlare in modo semplice e netto, esponendo le cose come realmente stanno, non è impossibile, e nemmeno troppo difficile. Lo dimostra proprio un politico doc come Piero Fassino, esponente del Pd, dal 2001 al 2007 segretario nazionale dei Ds, dal novembre 2007 inviato Ue in Birmania, in un’intervista al Corriere della Sera del 10 maggio scorso. Fassino premette di sapere bene di dire “una cosa impopolare a sinistra”, il che è senza dubbio confortante: la ricerca ostinata della popolarità è per un politico - come per un venditore di titoli azionari - il cammino più diretto verso la pratica dell’inganno. “Io come esponente del governo Prodi tra il ’96 e il ’98 ho firmato decine di accordi di riammissione con i Paesi dei Balcani e del Mediterraneo, che prevedono il diritto dell’Italia di rimpatriare nei Paesi da cui erano venuti i clandestini, e l’obbligo di questi Paesi di riprenderli. Il respingimento alle frontiere è un mezzo previsto dagli accordi internazionali e applicato anche dai governi di centrosinistra. Se si individua con certezza il luogo da cui è partito un barcone pieno di clandestini è legittimo riportarli indietro… So anch’io che su quei barconi ci sono donne e uomini che hanno diritto all’asilo, perché vittime di repressioni e persecuzioni. Anche se, non siamo ipocriti, sappiamo bene che invocare immediatamente il diritto di asilo anche quando non se ne ha titolo è un mezzo cui ricorrono molti clandestini… sono il primo ad auspicare che chi ne ha diritto sia tutelato, e c’è un mezzo per farlo: distinguere all’origine chi ha diritto all’asilo e chi è un migrante clandestino. Per questo avanzo una proposta di cui ho palato con l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, il mio vecchio amico Gutierres. Chiediamo al governo di aprire uffici in Libia e negli altri Paesi in cui si ritenga utile, a cui si possa rivolgere chiunque voglia chiedere asilo. E le Commissioni ministeriali che devono valutare la concessione si rechino periodicamente sul posto per decidere chi ha diritto e chi no, e garantire che chi deve essere accolto come ‘asilante’ abbia subito il visto dai nostri consolati”.
Non si tratta insomma di rifiutare “un’Italia multietnica”, o di esserne entusiasti sostenitori e promotori. Ambedue le posizioni sono insensate. Non sono i decreti governativi, e nemmeno gli appelli alla “solidarietà”, a rendere “multietnico” o meno un Paese. Anche perché sul termine, sul suo preciso significato, sugli aspetti che lo caratterizzano, sulle forme diverse che assume si potrebbe discutere all’infinito. Gli Stati Uniti sono una nazione multietnica? Senza dubbio, anzi sono la nazione multietnica per definizione. Ma la “multietnicità” americana si presenta in maniera molto diversa da quella britannica o francese.
E in Italia? In Italia, si sa, tutto è più difficile che altrove. Siamo un popolo antico (troppo antico?) che però ha studiato poco la storia, e quel poco cerca volentieri di dimenticarlo. Probabilmente perché la nostra storia ci ha resi diffidenti, ma nello stesso tempo ci piacciono le illusioni. Anche se sappiamo che si tratta, appunto, di illusioni. Diamo il meglio di noi nelle situazioni drammatiche, disastrose, che in effetti non ci sono mancate. Forse tendiamo a confondere l’intelligenza con la furbizia. E, per tornare al punto, è stato con una buona dose di furbizia che abbiamo accolto i primi segnali di un’immigrazione mai vista prima, regolare o clandestina che fosse. Gli immigrati, si diceva, venivano a fare quei lavori che gli italiani, imbolsiti dal benessere, ormai rifiutavano: raccoglievano i pomodori, faticavano sui pescherecci, nei cantieri edili, lavoravano nelle nascenti “fabbrichette”, si improvvisavano cuochi in ristoranti e pizzerie, e dalle lontane Filippine accorrevano schiere di volenterosi domestici e cameriere. Tutti, beninteso, a prezzo di favore.
I tempi sono, inevitabilmente, cambiati. E continuano a cambiare, davanti ai nostri occhi. Oggi gli immigrati sono il 7% della popolazione del nostro Paese, e aumenteranno. E’ giusto controllare, applicando le regole della legalità, il fenomeno dei clandestini, certo non con un “reato di clandestinità” che non dissuaderà nessuno e riempirà le carceri già sovraffollate. Ma è essenziale affrontare il problema dell’“integrazione”. Anche qui il termine si presta, nella sua vaghezza a fraintendimenti. E suscita timori, tanto comprensibili quanto sterili.
Per cominciare, sarebbe importante fare in modo, sul serio, che i diritti di tutti siano rispettati, e, per dirla in parole povere, che nessuno ci rimetta.

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