Questa una delle sconcertanti
argomentazioni contenute
nella sentenza di condanna
a 29 anni che la Corte
d’Assise di Roma ha inflitto
ad un rom che oltre un anno
fa violentò ed uccise
la signora Reggiani mentre
stava rientrando in casa
Roma, tarda serata del 30 ottobre 2007. Stazione del treno urbano di Tor di Quinto. Qui la strada di accesso è pressoché al buio.
Una donna, scesa proprio dal treno urbano, si accinge a tornare a casa. E’ sola nella stradina. Viene avvicinata da un uomo, percossa, violentata e poi uccisa. La sua borsetta viene sottratta dall’omicida. Ma qualcuno, una rom delle vicine baracche, ha visto parte della scena e si rivolge ad un autista di un mezzo pubblico perché intervenga. Questi chiama subito la Polizia che giunge sul posto e inizia a cercare indizi e riscontri su quanto riferito al telefono. Finalmente si trova un corpo di donna.
La vittima - ebbe a dichiarare il vicesovrintendente della Polizia di Stato Antonio Selli (che di notte coordina la Polizia giudiziaria del commissariato Ponte Milvio) - “era con i pantaloni abbassati e senza indumento intimo; aveva il maglione nero tirato su; era sotto la pioggia battente e l’abbiamo coperta con un telo”. Da un primo esame medico, eseguito dal professor Cipolloni dell’Università La Sapienza, fu stabilito che la vittima aveva subito un trauma cranico-facciale che aveva determinato una estesa emorragia endocranica che ne aveva causato il coma e poi la morte. Ma chi era la vittima? Si chiamava Giovanna Reggiani, 47 anni, sposata con il capitano di vascello Giovanni Cumiero.
I poliziotti, giunti quella notte sul luogo del crimine, trovarono subito la donna rom (il testimone cui abbiamo accennato) che urlava il nome dell’aggressore e mimava quanto era accaduto: l’uomo aveva preso sulle spalle la vittima e l’aveva portata in una baracca vicina. Gli agenti entrano nell’insediamento dei nomadi completamente al buio. Sempre su indicazione della testimone individuano la baracca: un giovane, con la faccia ancora sporca di sangue, era sulla porta; non sembrava ubriaco e seguì - seppure con un certo stupore - i poliziotti. Nella baracca la Scientifica ritroverà la borsa della vittima con il portafoglio, il cellulare e i documenti.
In questura il giovane fermato viene identificato come Romulus Nicolae Milat, di etnia romena, ventiquattrenne, con precedenti penali nel suo Paese. Sin dai primi interrogatori, Mailat nega. Dice solo di aver rubato una borsetta alla stazione di Tor di Quinto. Ma non è creduto.
Inizia il processo in Corte d’Assise; la difesa parla subito di un testimone-chiave: si tratterebbe della donna rom che per prima guidò i poliziotti alla baracca di Mailat. Tuttavia, sostengono i legali, la donna non è rintracciabile, probabilmente è tornata in Romania. “Se la potessimo ascoltare in aula - è sempre il difensore di Mailat, l’avvocato Piccinni, a parlare - potremmo riscontrare molte contraddizioni nel suo primo racconto. Ora si trova in Romania, ma il Procuratore non ha fatto tutto il possibile per richiamarla in Italia”. Il Presidente della III^ Corte d’Assise, prima della sentenza, ha invitato l’imputato a fare eventuali dichiarazioni. “Chiedo perdono innanzi a Dio e spero che giustizia sia fatta; io ho solo rubato la borsetta alla signora ma non l’ho uccisa. Mi dispiace per quello che è accaduto quella sera; chiedo scusa a lei, alla Corte e a tutti i presenti”.
Le richieste dell’accusa sono precise: ergastolo per i reati di rapina, omicidio, violenza. La sentenza, emessa dopo il verdetto dei giudici popolari, è di 29 anni di reclusione. Non l’ergastolo, dunque, perché l’imputato “era ubriaco e in preda all’ira”; ma anche perché, sempre secondo la sentenza, la signora Reggiani si sarebbe difesa e questo ha portato Mailat a “dover usare il bastone” anziché continuare a mani nude.
Vediamo esattamente quanto scritto nella sentenza di condanna: “La Corte pur valutando la scelleratezza e l’odiosità del fatto commesso in danno di una donna inerme e da un certo momento in poi esanime, con violenza inaudita, non può non rilevare che sia l’omicidio che la violenza sessuale, limitata alla parziale spoliazione della vittima e ai connessi toccamenti, sono scaturiti del tutto occasionalmente dalla combinazione di due fattori contingenti: lo stato di completa ubriachezza e di ira per un violento litigio sostenuto dall’imputato e la resistenza della vittima. In assenza degli stessi, l’episodio criminoso, con tutta probabilità avrebbe avuto conseguenze meno gravi”.
Quest’ultima argomentazione del giudice non ha mancato di sollevare un certo sconcerto nell’opinione pubblica. Ma non solo. Ecco quanto dichiarato dal sindaco della Capitale Alemanno: “Non intendo entrare in polemica con le decisioni dei magistrati, ma la sentenza su Mailat mi lascia molto amareggiato. Com’è possibile che una persona, riconosciuta colpevole di un crimine così grave come quello perpretato contro la signora Reggiani, non venga condannata all’ergastolo... Mi auguro che il pm si appelli contro questa decisione che turba le coscienze non solo dei romani”.
Insomma se Giovanna Reggiani “stava buona” e si lasciava violentare, si poteva parlare solo dell’ennesimo episodio di violenza contro le donne. Magari neppure denunciato (come avviene in molti casi) per paura o per quella maledetta sensazione di solitudine che colpisce le vittime di tale bestiale e abominevole violenza. Invece l’imputato Mailat, vista la reazione della vittima, fu... “costretto” ad usare il bastone e ad uccidere.
Certo occorre essere e restare garantisti; bisogna credere nella giustizia ma di fronte ad una sentenza del genere bisogna porsi qualche domanda. C’è da sperare che altri giudici si rendano conto che le motivazioni addotte nella sentenza contro Mailat, potrebbero diventare un boomerang. D’altra parte l’ambiente degradato in cui Mailat è vissuto non può costituire una ragione per concedere attenuanti (come è detto in sentenza) perché non va dimenticato che da quello stesso contesto degradato proveniva la testimone che ha visto il fatto e, per prima, ha chiesto aiuto.
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