Leggiamo brandelli di notizie, prendiamo
informazioni a piccole dosi e i nostri politici
banalizzano i loro discorsi. Ma è solo colpa
della Rete? Di Eleonora Fedeli
Il giovane poeta inglese Nick Laird, sulle colonne del quotidiano The Guardian, ha dichiarato che oggi le persone non tollerano più la complessità. E sarebbe questo uno dei motivi per cui, ad esempio, non si leggono più libri di poesie. Perché non sono facilmente digeribili e comportano uno sforzo che, nell’era della televisione e di Internet, non siamo più disposti a fare. Invece che scervellarsi su versi spesso incomprensibili ad una prima lettura, molti preferiscono sbocconcellare qua e là informazioni e notizie saltando da un canale all’altro. Ma Laird non limita la sua riflessine alla poesia e si chiede perché le persone pretendano di comprendere tutto immediatamente e, nel caso questo non avvenga, siano così scoraggiate dalla complessità. Viviamo nell’era del pensiero sbrigativo e la nostra società sembra afflitta dalla sindrome del deficit da attenzione. Non solo non siamo in grado di leggere un testo elaborato, ma abbiamo difficoltà anche a finire un articolo sul giornale, cosa di cui sembra essersi accorto il New York Times, che da qualche mese dedica alcune pagine a dei riassuntini che evitano al lettore l’insopportabile fastidio di leggere un articolo intero. Un tipo di lettura che nasce dalla modalità di fruizione on-line. La questione è stata al centro di un dibattito sulla rivista The Atlantic, dal titolo “Is Google making us stoopid?” (Google ci rende stupidi?), al quale hanno partecipato giornalisti, scrittori e psicologi. Nicholas Carr, autore del bestseller The Big Switch, ha confessato che, se un tempo era in grado di restare immerso nella lettura per ore ed ore, oggi la sua concentrazione si perde dopo qualche pagina. Il motivo di questa sua pigrizia sarebbe da attribuire al tempo passato sul famoso motore di ricerca, che ha letteralmente modificato la sua maniera di apprendere. La psicologa dello sviluppo Maryanne Wolf, docente alla Tufts University di Indianapolis, si dice preoccupata da questa tendenza, perché noi «non siamo solo ciò che leggiamo, ma anche come lo leggiamo». «Leggere ci aiuta a dare una forma al nostro pensiero, a raccogliere e a memorizzare informazioni», continua la Wolf, convinta che se la lettura ante-internet incoraggiava all’analisi critica, quella di oggi si contraddistingue per frammentarietà e superficialità. Alcuni ci tengono a sottolineare che Internet è un mezzo neutro, né buono né cattivo. A seconda di chi lo usa, esso può anche essere un veicolo di complessità. Nicla Vassallo, docente di filosofia teoretica all’Università di Genova, racconta che, quando era giovane, per procurarsi alcuni articoli su riviste non pubblicate in Italia doveva arrivare fino a Londra. Oggi, grazie alla rete, quello stesso articolo è a portata di click, facilmente reperibile dalla poltrona di casa. Ma la Vassallo è una studiosa e, in quanto tale, abituata alla lettura di testi complessi. Uno studio dell’University College di Londra sulle abitudini della “Google generation” dimostra che, con l’avvento di Internet, la modalità di lettura è stata radicalmente rivoluzionata. Oggi si procede per immagini e per frammenti, per sommari e per titoli, saltando da una cosa all’altra senza soffermarci su niente in particolare. Attenzione, però, fa notare la Vassallo, a non confondere brevità con semplicità. Un verso come “M’illumino d’immenso” entra nel testo di un sms, ma non per questo il suo contenuto è semplice o banale. «Anche leggere troppo è deleterio» afferma il matematico Piergiorgio Odifreddi, «perché alla fine il pensiero si fa nella propria testa e troppa informazione lo impedisce». Il problema di Internet, secondo alcuni, sarebbe nella sua modalità di fruizione: quando siamo on-line, infatti, non ci limitiamo a navigare, ma siamo impegnati anche in altre attività, come ascoltare un mp3 o chattare con un nostro amico.
La riduzione ai minimi termini della nostra capacità di concentrazione si riflette anche nel linguaggio della politica, ormai scarnificato e ridotto a raffiche di slogan e di parole d’orine. I contenuti annoiano la gente, perché costringono a pensare e ad assumere una posizione: per arrivare agli elettori meglio usare frasi ad effetto, che creino suggestioni più che riflessioni. E, se una tale banalizzazione del pensiero si trova ai vertici del potere, come si può pretendere dalle nuove generazioni una certa intellettualità, se per giunta questa non paga per niente? Come possiamo chiedere a un bambino di leggere dei testi complessi se poi un ministro dell’Istruzione non è in grado di formulare messaggi articolati? Purtroppo, fino a quando questa società proporrà modelli e icone simili, sarà difficile richiedere ai giovani di comportarsi in maniera opposta.
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