In Occidente la percentuale dei fumatori
diminuisce, ma le industrie del tabacco
si arricchiscono sempre di più. Come? Spostando il mercato
nei Paesi in via di sviluppo.
C’è una sola industria sul pianeta immune da crisi finanziarie e dal crollo delle borse. Quella del tabacco. E’ dal 1973, infatti, che esce incolume dalle bufere che si abbattono sui mercati azionari, vantando un’inarrestabile aumento del profitto. La “magia” del fumo (così la finanza definisce la crescita costante del valore delle azioni del tabacco) si spiega da sola: il fumo è uno stupefacente insostituibile. Alla gente piace fumare ed è disposta a pagare qualsiasi cifra pur di soddisfare questo desiderio. Che la gente fumi meno di vent’anni fa è una mera illusione: dall’inizio degli anni Novanta, infatti, le multinazionali del tabacco, prima su tutte la Phillip Morris, hanno fatturato cifre a nove zeri, superando di gran lunga le compagnie petrolifere. Perché il consumo del carburante è funzionale, mentre quello di sigari e sigarette è determinato dal desiderio e dall’assuefazione. Gli anni Novanta sono anche quelli del movimento antifumo e delle numerose battaglie per debellare un vizio che in tutto il mondo, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ogni anno causa la morte di 2,5 milioni di persone. Un movimento che ha ottenuto grandi risultati in Occidente, grazie anche all’avvio di numerose azioni legali da parte di organizzazioni per la lotta contro il cancro e di altri gruppi che, con le loro pressioni, hanno cominciato a minacciare seriamente la sopravvivenza dell’industria del tabacco. In realtà, nonostante le campagne di sensibilizzazione sui danni del fumo, si è ben lontani dalla sua messa al bando, seppure questo mieta più vittime del consumo di stupefacenti. Il motivo è abbastanza lampante: considerando le tasse imposte sui prodotti del tabacco, dichiararli illegali equivarrebbe a svuotare di miliardi l’erario dello Stato. Nonostante sia stato ampiamente dimostrato che cancro ai polmoni, bronchite cronica, enfisema e malattie cardiovascolari siano collegate al fumo, i governi fanno finta di non vedere. In America il tabacco non è soggetto ai controlli della Fda (Food and Drug Administration), l’organizzazione che regolamenta prodotti alimentari e farmaceutici. Sempre agli anni Novanta risale la famosa causa vinta da un fumatore affetto da cancro ai polmoni contro una multinazionale del tabacco, costretta a sborsare 3 miliardi di dollari. L’eco di questa notizia risuonò ovunque e, per evitare che questo fosse il primo di una lunga serie di esosi risarcimenti, i giganti del tabacco sono dovuti scendere a compromessi con il governo americano, che ha imposto condizioni durissime: il pagamento di oltre 350 miliardi di dollari in 25 anni ai singoli Stati, parte dei quali utilizzati per la campagna contro il fumo. Le multinazionali si sono impegnate a pubblicizzare i danni del fumo sui pacchetti, oltre ad aver accettato il divieto di spot televisivi.
Tutto questo, però, non ha minimamente arrestato la loro corsa al profitto. Perché? Semplice, perché il mercato più remunerativo è altrove, nei Paesi del Terzo Mondo e in quelli in via di Sviluppo. Dove non solo il fumo porta malattie e morte, ma causa problemi simili a quelli legati a tutte le colture per l’esportazione, come il caffè e lo zucchero: misere condizioni di lavoro, salari bassi, latifondismo, uso di pesticidi e sottrazione di terre fertili per la produzione di cibo. Tutto è iniziato con la caduta del muro di Berlino, che ha aperto all’industria del tabacco nuovi orizzonti. Se durante il regime sovietico quei mercati erano off limits per le multinazionali occidentali, in Russia nel giro di pochi anni le Winston sono diventate le sigarette più fumate. Il mercato orientale offre indiscutibili vantaggi, come quello di non dover stampare, nella stragrande maggioranza dei casi, gli avvisi sui pacchetti che informano il consumatore dei possibili rischi. I governi dei Paesi in via di sviluppo, del resto, vedono nei profitti generati dall’aumento di fumatori una inesauribile fonte di reddito. E così nascono delle vere e proprie joint venture tra industrie locali e multinazionali, come tra la Phillip Morris e la senegalese Manifacture du Tabac de l’Ouest Africain (Mtoa). Gli Stati guadagnano un bel po’ di quattrini, anche se in cambio della vita dei loro cittadini. La strategia industriale, per conquistare nuove fette di mercato, ha scelto di colpire bambini e giovani che, iniziando in tenera età, hanno tutte le carte in regola per essere dei consumatori per tutta la vita. La pubblicità, in questi Paesi, promuove il “sogno americano”, il miraggio del benessere e della ricchezza. E la cosa funziona. Dal 2000 il consumo del tabacco ha registrato una vera e propria impennata: la Phillip Morris, dal 2003 al 2005 ha quasi duplicato i suoi introiti. Eppure in Occidente il consumo di sigarette scende: in Australia la domanda del fumo è così debole che alcuni pronosticano la sua estinzione entro il 2030. Un dato che può apparire incoraggiante, ma che, in una prospettiva globale, non lo è affatto. La popolazione orientale, infatti, è così numerosa che un calo del 30% in Occidente è compensato da un aumento del 2% del mercato asiatico. I nuovi fumatori, quindi, vivono in Oriente e sono milioni. Si è calcolato che ogni tre sigarette accese nel mondo una è consumata da un cittadino cinese. L’arricchimento delle multinazionali del tabacco, inoltre, è favorita dagli investimenti in altre industrie, come quella alimentare. Il 56% delle entrate della Phillip Morris proviene da prodotti alimentari, come i formaggi Kraft e Philadelphia, il cioccolato Milka e Cote d’Or, la birra Miller. Senza saperlo, ogni volta che andiamo a fare la spesa, arricchiamo coloro che uccidono con il fumo.
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