Memory card, navigatori satellitari, telecamere di sorveglianza. L’high tech ci aiuta a ricordare, a orientarci e a stare in guardia dai pericoli. E se condizionasse anche la nostra vita?
Alcuni si sentono persi senza i loro iPhone e Blackberry. Senza quelle specie di protesi della memoria in cui annotare compleanni, appuntamenti e anniversari. E guai se si rompono: nella loro memory card c’è un pezzo di vita che non si può recuperare, perché lentamente la nostra capacità di ricordare nomi e date comincia a perdere colpi. All’antropologo Duccio Canestrini è venuto il dubbio che tutti questi apparecchi tecnologici finiscano per essere, più che un supporto per il nostro cervello, una sorta di parassiti che si nutrono dei nostri ricordi. E ha cercato di prevedere gli effetti che a lungo termine l’high tech può avere sulle nostre vite, sulle nostre percezioni e sulle nostre facoltà cognitivo-comportamentali. A cominciare proprio da quella piccola scheda che contiene migliaia e migliaia di informazioni sulla nostra vita, tra nomi, fotografie e numeri di telefono. «Affidando la memoria esclusivamente a supporti digitali, il cervello si impigrisce», sostiene Canestrini, perché non viene più sottoposto allo sforzo del ricordare. A noi può sembrare impossibile, ma i beduini della Giordania conoscono i nomi dei loro avi fino alla quattordicesima generazione. Per noi è già tanto arrivare ai bisnonni o ricordare l’anno di nascita dei nostri genitori. Che dire, poi, del senso dell’orientamento? Un recente studio dell’University College di Londra dimostra che il cervello umano funziona come un navigatore satellitare e che, in alcune persone, la zona dell’ippocampo in grado di orientarsi sia così sviluppata da far invidia al più sofisticato sistema Gps. La voce monocorde dei nostri navigatori, tanto solerte nel ricordarci di girare a destra o a sinistra, potrebbe alla lunga intorpidire il nostro senso dell’orientamento, fino a perdere l’innata capacità di muoversi da un punto A a un punto B. Per non parlare di quanto i sistemi di navigazione satellitare abbiano cambiato la modalità del viaggio, durante il quale in passato si abbassava più volte il finestrino per chiedere informazioni a un passante sconosciuto. Oggi, invece, siamo incapsulati nell’abitacolo delle nostre auto, senza avere contatti con gli altri. La tecnologia, a ben rifletterci, ha non pochi effetti anche sulla nostra percezione del paesaggio e del mondo che ci circonda. Le immagini dei nostri screensaver ritraggono, spesso, posti meravigliosi, paradisi tropicali e prati fioriti dai colori brillanti. Alzare gli occhi dal monitor può essere una vera e propria delusione, quello che gli studiosi chiamano «effetto pixel». Dopo aver sottoposto per ore i nostri occhi a un bombardamento ad alta risoluzione, il giardino sotto casa può sembrarci una sbiadita e scadente imitazione di quello sul nostro desktop. Il famoso antropologo, però, va oltre e si sofferma anche sulle dimensioni dei nuovi passeggini, ormai altissimi, fabbricati per sottrarre i neonati a polveri sottili e tubi di scappamento. Abituarli fin da piccoli a una simile altitudine, oltre a creare un’ipotetica nuova generazione di proprietari di Suv, potrebbe generare una vera e propria mutazione antropologica. Da sempre abituati a vedere le cose dal basso, i bambini potrebbero sviluppare un’idea di superiorità, quando non una vera e propria smania di controllo. Che del resto ha già colpito i loro genitori, se consideriamo la miriade di sistemi per avvertire, segnalare e allarmare. Rilevatori di fumo, antifurto, telecamere di sicurezza svolgono il nobile compito di proteggerci e di donarci serenità, ma a quale prezzo? Che in un futuro non troppo lontano non saremo più in grado di accorgerci se è scoppiato un incendio? A questa domanda è ancora troppo presto per rispondere. Certo è che i nostri cinque sensi con tutti questi supporti tecnologici si stanno un po’ rattrappendo, come se, pur essendo in grado di camminare, usassimo costantemente delle stampelle. Il processo, ci rassicura Canestrini, è in ogni caso reversibile. Insomma, perduta la memory card, il nostro cervello farebbe appello a tutte le sue risorse pur di ricordare i nostri impegni. Magari munendosi di carta e penna.
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