Gli psichiatri non hanno solo il dovere
di curare il malato, ma anche quello
di proteggere la collettività dai loro eventuali
comportamenti pericolosi. Quando l’assassino
è un paziente non imputabile, in galera
al suo posto ci va il medico
In tempi recenti una sentenza della Cassazione, la prima del genere in Italia, ha condannato per omicidio colposo uno psichiatra per il reato commesso da un suo paziente. Attraverso questa sentenza è come se fosse riemerso l’antico concetto della pericolosità sociale (“pericoloso per sé e per gli altri”) della precedente legge manicomiale, abbandonato con la legge Basaglia del 1978 che impose la chiusura dei manicomi.
La Cassazione ha ribadito che gli psichiatri, come avveniva prima della legge 180, non hanno solo il dovere di curare il malato mentale, ma hanno il dovere di protezione verso la società, cioè vengono investititi di quello che i giuristi chiamano posizione di garanzia, non solo sulla salute, come con la legge 180, ma anche sui loro comportamenti e la loro pericolosità. Ormai la magistratura ha mutato atteggiamento e gradualmente il clima culturale è cambiato.
Lo psichiatra Vittorino Andreoli, a tutti noto per la sua frequente visibilità mediatica, ha affermato (vedi box pagine successive) che la sentenza è giusta e che la pericolosità va fermata: quando l'assassino è un paziente non imputabile, in galera al suo posto ci va lo psichiatra.
Prima della famosa legge 180 il paziente psichiatrico era considerato a priori un soggetto pericoloso, poi con la legge Basaglia si ritenne che di fatto non era più pericoloso. Ora la sentenza della Cassazione afferma che la pericolosità invece va sempre prevista.
In realtà sono anni che il vento è cambiato e lo dimostrano i tanti procedimenti penali a carico di psichiatri, anche se prima spesso si concludevano con un proscioglimento. Non c’è più la fase di quasi impunità degli anni successivi alla legge 180. Ora le sentenze propongono un orientamento in cui lo psichiatra comincia a essere sanzionato anche per i comportamenti dei suoi pazienti.
Con la legge precedente, infatti, lo psichiatra era titolare di una posizione di garanzia non solo sulla salute dei malati, ma anche sui loro comportamenti e la loro pericolosità. Con la 180, invece, si ribalta il mandato, la psichiatria assume una posizione di garanzia solo sulla salute. Ma gradualmente, anno dopo anno, è cambiato il clima culturale: sia perché alcuni pazienti propongono profili di pericolosità, sia perché, con una serie di rinvii a giudizio di psichiatri, la magistratura ha mutato atteggiamento.
Con la sentenza della Cassazione si aprono scenari che impongono una serie di domande non facili: ma la colpa di quel medico non equivale a quella di un poliziotto o di un giudice che lascia libero un delinquente interpretando una norma o un divieto? E può essere punita questa colpa, o non è sbagliato farlo? Non apre a scenari inquietanti o a obblighi impossibili? Gli psichiatri dovrebbero sottoporre a Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) in ospedale, in modo preventivo, tutti i pazienti potenzialmente pericolosi senza lesinare sull'uso di psicofarmaci? Nemmeno questo è possibile perchè il Tso può essere messo in atto solo per tutelare la salute e non perchè il paziente è pericoloso, altrimenti viene a configurarsi un sequestro di persona.
Molti medici ancora si trincerano dietro l’affermazione che “nessuno può far curare un malato che lo rifiuta". Questo non è vero, la legge può far curare un malato che lo rifiuta: lo dice la Costituzione, il Codice penale e lo ribadiscono alcune recenti sentenze di Cassazione. L'equivoco nasce dalla confusione del Codice penale con la legge 180 che di pericolosità sociale non parla: il concetto di pericolosità sociale, infatti, non è mai stato abolito dal Codice penale.
Sono sempre più numerose le sentenze di condanna di medici, infermieri, operatori di strutture sanitarie, che non hanno messo in atto tutte le procedure (non il solo Tso) al fine di scongiurare eventi lesivi per il paziente (suicidio) e per terzi (aggressioni, omicidi).
Una sentenza del Tribunale di Bologna del 2006, in merito al paziente che accoltellò e uccise un operatore sanitario, recentemente confermata in Cassazione, è chiara: “Il medico deve mettere in atto la cura appropriata al fine di scongiurare, dal punto di vista eziologico, le condizioni positive dell'evento lesivo per il paziente e per terzi, e, allo stesso tempo, di attivare le condizioni impeditive del medesimo, approntando un sistema di cautele e precauzioni idoneo a scongiurare il verificarsi di eventi dannosi o pericolosi all’accrescersi dei rischi”.
Inoltre, nel 2000, la Corte di Cassazione Penale, (decisione Cass. pen. Sez. IV 13-09-2000, n. 9638), ha introdotto il principio, (confermato dalla Cassazione Penale, Sezione IV, Sentenza n. 9739 del 11/03/2005), in base al quale, la cosiddetta “posizione di garanzia” essendo “espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex art. 2 e 32 della Costituzione, nei confronti dei pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l'integrità” vincola tutti gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici.
La sentenza di cassazione ha affermato quindi che la legge Basaglia è ben lontana dall'avere equiparato la soppressione dei manicomi alla fine della malattia mentale e che il medico ha l'obbligo del controllo sociale dovendo trattare i pazienti psichiatrici come soggetti pericolosi per se e per gli altri. Pertanto rischia una pesante condanna penale lo psichiatra che riduce il trattamento farmacologico di un paziente senza valutarne con attenzione le conseguenze, in qualche caso anche estreme.
Nel maggio 2000, infatti, un paziente psicotico, ricoverato all'interno di una comunità terapeutica, aggredì con un coltello un operatore che prestava servizio nella struttura uccidendolo.
Nel corso del procedimento di merito, conclusosi in primo grado con una condanna dopo rito abbreviato e confermata dalla Corte d'Appello, venne accertato che il medico, che svolgeva la sua attività all'interno della stessa comunità, aveva trascurato di verificare i sintomi di aggressività espressi dal paziente. Così aveva prima ridotto e poi sospeso la somministrazione di una terapia farmacologica, in maniera tale da renderla non idonea a contenere la pericolosità del ricoverato.
Al medico veniva poi imputato anche di non avere provveduto al trattamento sanitario obbligatorio pur essendo in presenza di sintomi che lo avrebbero ampiamente giustificato.
La Corte di Cassazione ha svolto sul caso un'ampia riflessione che ha prima sgomberato il campo, in punta di diritto, dai dubbi sulla possibilità di concorso colposo nel delitto doloso (vale a dire della responsabilità per colpa del medico nel reato commesso dal paziente). Nessun dubbio, avverte la sentenza, il concorso è possibile sia nel caso in cui la condotta colposa concorre con quella dolosa a provocare l'evento criminoso secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello di vera e propria cooperazione colposa. A patto che, in entrambi i casi, il reato "principale" commesso dall'autore sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e siano presenti tutti gli elementi della colpa.
Ma proprio nell'ambito del riconoscimento della colpa, lo psichiatra aveva negato che potesse essergli ricondotta una posizione di garanzia nei confronti delle azioni del paziente.
La Corte ha sottolineato, invece, come in tema di responsabilità medica una posizione di garanzia si può instaurare solo con una relazione terapeutica tra paziente medico e professionista “Questa relazione - spiega la Corte - si può instaurare su base contrattuale, come avviene nel caso di paziente che si affidi a medico di fiducia, ma anche in base alla normativa pubblicistica di tutela della salute come avviene nel caso di ricovero ospedaliero o in strutture protette; casi nei quali per il medico, indipendentemente dal consenso del paziente, sorge un obbligo giuridico di impedire l'evento”.
Si tratta di una posizione di garanzia che si concretizza in un obbligo di protezione che impone di preservare il bene tutelato da tutti i rischi che possono compromettere l'integrità: tipici questo senso, mette in evidenza la Cassazione, i vincoli che gravano sui genitori o, appunto, sui medici. E’ certo così che lo psichiatra, nel caso in questione, vestiva un ruolo di garanzia a tutela della salute psichica del paziente. Ruolo assunto a causa del vincolo contrattuale con la comunità terapeutica oppure in conseguenza della relazione avviata con il paziente. Avere ridotto e poi sospeso la somministrazione del trattamento farmacologico, in un quadro generale che già segnalava l'esistenza di una pluralità di episodi violenti commessi dal paziente, non può che corroborare la tesi accusatoria anche perché è vero, rilancia la sentenza, che non è in discussione la libertà delle scelte terapeutiche del medico indirizzate al miglioramento della salute del paziente, anche con la riduzione degli effetti collaterali della somministrazione dei farmaci. Ma appare quasi superfluo alla Corte ricordare la gradualità con cui deve essere praticata la modifica della terapia. Tanto più in un settore come quello delle patologie della mente, dove può essere lo stesso malato psichico a non riconoscere le sue condizioni.
Quanto al trattamento sanitario obbligatorio, poi, la sentenza, dopo avere riconosciuto i meriti della legge Basaglia che ha restituito dignità ai malati psichici, ricorda che la stessa legge è poi ben lontana dall'avere equiparato la soppressione dei manicomi alla fine della malattia mentale. Resta sempre la strada del Tso, nel rispetto però della dignità e dei diritti civili della persona. E, tra le condizioni che giustificano il Trattamento c'è il rifiuto delle cure da parte dell'interessato. Elemento che non si era però verificato e che ha parzialmente alleggerito la posizione del medico.
In merito agli articoli 34 e 35 della legge 180, quelli che regolano il Trattamento sanitario obbligatorio, l’impalcatura della Legge è causa di grosse incertezze per lo psichiatra e gli stessi pazienti, perché la legge sanitaria riguardante i pazienti psichiatrici è fondata su principi che sono in totale contraddizione con quelli che ispirano i Codici civile e penale.
Infatti i Codici civile e penale riflettono una percezione della malattia mentale e del ruolo dello psichiatra di quasi un secolo fa senza alcuna corrispondenza con i principi ispiratori della riforma del 1978, fondata sulla capacità di agire del malato mentale.
Prova ne sia il fatto che in Italia la valutazione di pericolosità sociale rimane immutata in ambito peritale. Altra omissione della legge 180, è quella che attiene al ruolo dello psichiatra, di cui non definisce la responsabilità ed i compiti di controllo sociale, mentre il Codice penale, dall’altra parte, gli impone questa responsabilità. Ecco allora lo psichiatra, e gli stessi pazienti, presi tra due fuochi opposti di una legge sanitaria che non si concilia con il Codice penale e quello civile: lo psichiatra è in relazione con pazienti che secondo la 180 sono, nella maggior parte dei casi, considerati responsabili e capaci di dare libero e valido consenso alle cure, della cui pericolosità eventuale non si parla; se poi qualcuno di loro compie atti pericolosi, mettendo in atto condotte nocive a sé o al prossimo e se nei confronti di costoro lo psichiatra non interviene a prevenire, a impedire il passaggio all’atto pericoloso, ecco che il professionista è chiamato a rispondere della sua negligenza, della sua imprudenza dell’inosservanza alle norme.
Lo psichiatra italiano quindi si trova in una posizione ambigua e difficile ed è sovente costretto a subire la pressione della legge sanitaria, che non gli attribuisce più compiti di controllo ma solo terapeutici, contrastante con quella della magistratura e dell’opinione pubblica che chiedono di esercitare anche compiti di controllo sociale, sotto la minaccia dei Codici civile e penale.
Ed è proprio rileggendo la sentenza della Cassazione che si esemplifica la contraddittorietà della legge. Secondo questa sentenza “lo psichiatra deve mettere in atto la cura appropriata al fine di scongiurare, dal punto di vista eziologico, le condizioni positive dell'evento lesivo per il paziente e per terzi, e, allo stesso tempo, di attivare le condizioni impeditive del medesimo, approntando un sistema di cautele e precauzioni idoneo a scongiurare il verificarsi di eventi dannosi o pericolosi all’accrescersi dei rischi”.
In altre parole lo psichiatra, secondo il Codice Penale ha il compito di controllo sociale, di controllare la pericolosità dei pazienti per se stessi e per gli altri, mentre secondo la legge 180 non avrebbe tale compito: un esempio di caos tutto italiano! (cannavicci@iol.it)
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“Una voce mi ha ordinato: uccidi”
A Brescia un paziente ospite di una comunità ha ucciso, in preda ad allucinazioni uditive, un altro paziente con un coltello da 20 centimetri acquistato 10 giorni prima che teneva nascosto nella comunità. «La voce mi ha ordinato: uccidi. E io ho dovuto farlo». Claudio Campana, 39 anni, pigiama insanguinato e sguardo nel vuoto, non nega la sua colpa. E' schizofrenico, ma non dice bugie. Agli agenti che lo avvicinano nel cortile della struttura protetta per malati mentali spiega che non riusciva proprio a sopportarla, quella «voce», che doveva farla tacere. Da giorni ripeteva: «Colpisci, colpisci». E lui ha dovuto obbedire. Prima sfogando la sua furia contro il materasso del letto, trovato devastato dai buchi della lama. Poi contro il corpo addormentato del vicino di stanza: Daniele Martani, 28 anni — schizofrenico come lui, alle spalle l'omicidio per raptus della nipotina di appena 4 giorni — ha tentato un'inutile difesa. E' morto quasi subito, sotto la raffica dei 16 colpi inferti con ferocia. «Quello che è successo è chiaro: si è trattato di un raptus dettato dalla malattia mentale — ha detto il procuratore di Brescia Giancarlo Tarquini — quello che invece va stabilito è se era prevedibile, evitabile. Se ci sono state negligenze».
La lama lunga 20 centimetri, non arrivava certo dalle cucine della comunità. Claudio il coltello se l'era procurato durante un permesso di uscita diurno. La Polizia ha rintracciato il negoziante che glielo ha venduto. Se l'era tenuto in camera per giorni, senza essere visto. Fino alla furia omicida.
Anche Daniele era diventato assassino per colpa della schizofrenia. Aveva 19 anni quando scaraventò a terra la nipotina Sara di appena 4 giorni che morì all'istante. «Ha agito per gelosia», si disse e si scrisse all'epoca, prima che una perizia psichiatrica rivelasse la sua malattia sancendone la non imputabilità. Dopo il carcere, l'ospedale giudiziario. Quindi il trasferimento nel centro riabilitativo. Nessun reato di sangue alle spalle, invece, per Claudio Campana, l'omicida, milanese di origine e residente della comunità.
(dal sito: aipsimed.org)
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La storia di Marta Angaroni
Marta Angaroni, adolescente, da anni è immobile e incosciente nel lettino di casa sua per essere stata colpita a martellate da un folle che mai l'aveva vista prima di allora. Il gup di Busto Arsizio, Donatella Banci ha condannato a due mesi la psichiatra del servizio pubblico che aveva in cura Ernesto Zaffaroni, il malato di mente che il 24 settembre del 2005 ridusse in fin di vita la povera Marta a Gerenzano. Concorso in lesioni colpose gravissime è il reato applicato alla dottoressa Elisabetta Capra, specialista della Asl di Saronno; la sentenza riconosce anche ai genitori di Marta una «provvisionale», vale a dire un risarcimento immediato, di 200mila euro. È stato assolto invece Giorgio Bolongaro, responsabile del servizio psichiatrico territoriale: quest'ultimo aveva lasciato il suo incarico a partire dal gennaio del 2005, prima che il martellatore folle imboccasse la deriva più pericolosa e aggressiva della sua malattia. Il pm Massimo Baraldo aveva chiesto la condanna a 6 mesi per entrambi gli imputati. «È un verdetto importante perché, al di là dell'aspetto economico, stabilisce che c'è un responsabile per l'aggressione a Marta. E quel responsabile non è il malato di mente»: così si è espresso dopo la lettura della sentenza il legale della famiglia Angaroni, Mauro Dalla Chiesa. Ernesto Zaffaroni era affetto da schizofrenia, aveva già subito diversi ricoveri coatti; viveva da solo a Gerenzano ma dopo il febbraio del 2005 si era perso ogni contatto tra lui e il servizio psichiatrico, che lo aveva semplicemente invitato a presentarsi in ambulatorio per una visita inviandogli una lettera a casa. Proprio pochi mesi prima della tragedia, stando al diario clinico dell'Asl era stato deciso di non ricoveralo nuovamente «per non alimentare il suo vissuto persecutorio».
(dal sito: aipsimed.org)
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Il parere di Vittorino Andreoli
Con le recenti sentenze che condannano gli psichiatri per i reati dei loro pazienti i giudici hanno fissato un principio condivisibile?
Io cerco di capire, non di condannare. Direi che in questo caso riemerge il concetto della pericolosità, abbandonato con la legge Basaglia. Prima il folle era uno pericoloso, poi con la 180 si ritenne che di fatto non era più pericoloso. Ora questa sentenza dice che la pericolosità va prevista.
Possono gli psichiatri essere responsabili di un'azione di un suo paziente?
La psichiatria può mancare ai propri compiti istituzionali e quindi anche curativi. In quel caso deve pagare.
Hanno ragione i giudici? Si può prevedere?
Esistono delle patologie, in particolare quella delirante, e fra queste la schizofrenia paranoidea, in cui la pericolosità fa parte del quadro. Bisogna che lo psichiatra prenda consapevolezza che fra i sintomi di alcune patologie esiste la pericolosità e che va curata.
C'è il rischio che questa sentenza spaventi gli psichiatri e diventi un incentivo per l'uso dei farmaci?
Un paziente in stato delirante bisogna per forza controllarlo con i farmaci.
Uno degli psichiatri condannati ha detto che la decisione dei giudici è contro lo spirito della legge 180. Sono passati 30 anni. Finiamola di parlare sempre in termini di pro o contro la 180. Cogliamo una buona volta l'occasione per parlare di psichiatria scientifica o non scientifica.
(dal sito: aipsimed.org)
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