Un libro di Filippo Frangioni ricostruisce
e analizza la storia della prima Commissione
parlamentare Antimafia, e gli eventi
politici che ne accompagnarono,
e condizionarono, l’operato: fino
a un risultato fallimentare, i cui effetti sono
ancora attualmente riscontrabili
“L’obiettivo di questa mia ricerca, che si limita alla attività della sola prima Commissione, è quello di cercare di comprendere i meccanismi interni e i contrasti politici che hanno determinato l’attività dell’Antimafia; questo tentativo di analisi è inoltre rivolto allo studio delle ragioni storiche che hanno prodotto la negazione del ruolo propositivo e attivo nella lotta alla mafia, che la legge istitutiva attribuiva alla Commissione parlamentare, e la riduzione, quindi, delle sue funzioni alla sola indagine ispettiva. La Commissione presieduta dal democristiano Donato Pafundi è inoltre particolarmente ignorata dalla storiografia. I motivi di questa scarsa visibilità divengono evidenti se si considera la parzialità dei risultati raggiunti dalla Commissione Pafundi e la sua incapacità di elaborare una relazione finale […] Per capire quanto l’Antimafia degli anni sessanta sia stata una occasione mancata sarebbe necessario allargare la prospettiva di osservazione sulla deriva della stagione delle riforme, che il centrosinistra aveva prima inaugurato e poi represso […] La storia della Commissione Antimafia. Come vedremo, segue questo svolgimento generale del riformismo italiano, sia nelle condizioni iniziali di speranze e rapide delusioni, che nei tempi della sua agonia. Anche per la Commissione Antimafia la primavera-estate del 1964 segna un momento di non ritorno in cui gli elementi di contrasto alla realizzazione dei suoi propositi sono divenuti ben più forti rispetto alle spinte di innovazione, in modo tale da renderne naturale il declino”. Abbiamo tratto questi paragrafi dall’Introduzione che Filippo Frangioni premette nel suo libro “Le ragioni di una sconfitta – La prima Commissione Antimafia (1963-1968)” (Prefazione di Piero Luigi Vigna, pagg. 146, Editore I.S.R.Pt, Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della Provincia di Piacenza).
Diciamo subito che – insieme al valore storiografico - la piena attualità del libro di Frangioni, che riporta e analizza con un taglio incisivo, e sulla base di un’attenta documentazione, quanto avvenne nel nostro Paese quarant’anni or sono, sta in due constatazioni che si impongono alla lettura della sua esposizione: primo, la mafia poteva essere sconfitta, eliminata, esistendo sia le forze, sia una spinta largamente diffusa per raggiungere questo fine; secondo, la mafia allora non fu sconfitta non per una sua forza intrinseca, ma per interessi politici ed economici uniti insieme a bloccare ogni concreta azione di rinnovamento. Risultato: la mafia non fu sconfitta, e anzi con il trascorrere del tempo, durante gli ultimi quarant’anni, fino ad oggi, ha prosperato e proliferato, al punto che, accanto a Cosa nostra, hanno assunto dimensioni rilevanti, criminali e politiche la ’ndrangheta e la Camorra. Il “fenomeno” mafioso diventerà un “modello”, e persino, in maniera più o meno mascherata, un “modello di sviluppo”. A questo proposito, la storia della prima Commissione parlamentare Antimafia – proprio perché è stata la prima, e su di essa erano riposte tante speranze – è emblematica: percorrendola vediamo in che modo una parte della classe politica, finanziaria, imprenditoriale ha consentito che il sistema-mafia si inserisse nei meccanismi istituzionali, economici e sociali del nostro Paese.
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La nascita della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, il 12 dicembre 1962 – con l’approvazione di una legge proposta da Ferruccio Parri, senatore a vita, ex presidente del Consiglio del primo governo formato dopo la Liberazione -, ha alle spalle un iter quantomeno complesso. In sede parlamentare se ne discute dal 1948, dopo la strage di Portella della Ginestra dell’anno precedente, in particolare per iniziative del deputato comunista Giuseppe Berti, che il 14 settembre presenta una proposta di legge per la nomina di una Commissione che accerti “i legami tra mafia e banditismo, i rapporti della mafia con uomini politici e le pressioni esercitate sulla magistratura”. L’ipotesi viene respinta dalla maggioranza, che giudica la mafia un fenomeno locale, circoscritto nel “clima e nell’ambiente” siciliano. E la stessa reazione si ha nel 1954 e nel 1956, quando di fronte ad analoghe richieste dei parlamentari comunisti, il governo risponde che “la mafia non esiste più, si è sciolta nella criminalità comune”. La proposta del disegno di legge di Ferruccio Parri, del 27 novembre 1958, riemerge il 26 aprile 1961, dopo un voto unanime del Senato che “ravvisa l’opportunità che l’inchiesta parlamentare sulla mafia con la necessaria decisione e sollecitudine”.
Ma nella discussione è proprio il relatore della proposta di legge, il senatore democristiano Zotta, a dichiarare che “l’avviso della maggioranza è che una inchiesta parlamentare sia inutile, per vari aspetti incostituzionale, in ogni modo non idonea allo scopo da raggiungere”. Zotta definisce la mafia un “fenomeno secolare”, e ritiene che “molto contribuisce alla recrudescenza dell’attività delinquenziale lo sfrenato senso edonistico… Molta delinquenza, specie giovanile, deriva da questa corsa al piacere, fomentata da certe cronache nere e da certe proiezioni cinematografiche a sfondo giallo”.
A sbloccare la situazione di stallo sarà il mutamento di alcuni equilibri politici, con la formazione, nel settembre 1961, di una alleanza di centrosinistra del governo regionale siciliano. “Con l’ingresso dei socialisti nella maggioranza – scrive Filippo Frangioni – arrivano al governo della Regione forze che tradizionalmente hanno fatto parte del movimento antimafia. La nuova maggioranza approva, insieme a tutte le opposizioni, una mozione del gruppo comunista, nella quale si “fa voti al Parlamento nazionale perché voglia procedere alla costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia”. Il violento scontro in corso fra famiglie mafiose palermitane determina una maggiore visibilità nazionale del fenomeno mafioso e impone al Parlamento nazionale la necessità di interventi politici. Pochi mesi prima considerati non idonei e incostituzionali. Così la nuova maggioranza di centrosinistra formatasi con il governo Fanfani del 1962, dopo la richiesta dell’Assemblea siciliana, permette l’approvazione definitiva della legge Parri, che era stata ripresentata in forma identica dal deputato socialista Vincenzo Gatto nel maggio 1961”.
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Partendo dai mutamenti che si verificano nel secondo dopoguerra, in particolar modo nel mondo contadino, con la riforma agraria promossa dal ministro comunista Fausto Gullo, la mafia si affretta a ridefinire le sue sfere di influenza, divenendo, sottolinea Frangioni, “un punto di riferimento della mediazione sociale”. Usando le sue capacità di inserimento nelle strutture ufficiali “La mafia riesce a influenzare in modo decisivo anche le scelte di quella macchina di corruzione che è l’Eras: Ente Riforma Agraria Sicilia. Sono molti i casi di feudi sottratti all’esproprio, perché troppo vicini a interessi diretti di boss mafiosi, tanto che nel 1963 l’Eras aveva più di 100 milioni di credito, che nessuno però aveva mai rivendicato, nei confronti di detentori di terreni non coltivatori diretti; non tutti, ma quasi, fra questi detentori erano capi mafia locali. La mafia, grazie ai proventi del racket della vendita di terre, che vengono investiti in speculazioni edilizie nel nuovo sviluppo urbano delle città siciliane, e grazie all’esercizio della funzione di mediatore sociale nel processo di trasformazione della struttura economica siciliana, riesce a conquistare un ruolo importante all’interno del nuovo sistema economico”.
La capacità della mafia di esercitare un forte, e capillare, controllo del territorio, le consente di affermarsi come interlocutore, volenterosamente accettato, nell’attività imprenditoriale. A questo proposito, Frangioni riporta un esempio significativo: “Nel 1959 nell’azienda Elettronica Sicula, costituita da una ditta genovese a Palermo, è impedito alla Cgil di presentare una propria lista per la Commissione interna. E’ il boss del quartiere palermitano di S. Maria del Gesù, Paolo Bontate (detto don Paolino Bontà), a richiedere alla dirigenza della Elettronica Sicula che la Cgil sia esclusa. Davanti alle proteste dei sindacalisti il direttore dell’azienda si giustifica così: ‘A me Paolo Bontà serve, perché è lui che mi dà l’acqua, è lui che mi dà il terreno per ampliare la fabbrica, da lui dipendo per trovare gli operai’. Le speculazioni edilizie del palermitano non sono fatte con la partecipazione della mafia, ma grazie al consenso della mafia, dal momento che le zone indicate, come direttrici principali dell’espansione urbana, sono dominio storico delle cosche palermitane”. Insomma, la mafia “riciclata” costruisce il suo nuovo assetto giocando tra passato e presente, mentre già si configura il concetto, che si affermerà in misura sempre maggiore senza distinzioni geografiche, che “si deve convivere con la mafia”.
Il quadro che sinteticamente traccia Frangioni è semplice e chiaro: “Negli anni Cinquanta la mafia non ha attraversato una rivoluzione, ma un intenso processo di modernizzazione, che è fatto soprattutto di processi di integrazione. La mafia è integrata nello sviluppo economico siciliano, fa parte del nuovo ceto dominante, è collegata a un sistema nazionale di potere e rappresentanza politica. La mafia non è più una organizzazione criminale che ha un controllo diretto su un territorio ai margini della società (come il feudo o la borgata palermitana), ma è divenuta una moderna organizzazione politica”.
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Il 6 luglio 1963 si tiene la prima seduta della Commissione Antimafia, composta da trenta parlamentari, 16 senatori, compreso il presidente donato Pafundi, e 14 deputati. Il 30 giugno, nel borgo palermitano di Ciaculli, una Giulietta imbottita di tritolo scoppia uccidendo sette carabinieri: l’attentato era diretto contro la famiglia mafiosa dei Greco, e i carabinieri erano stati chiamati sul posto da una segnalazione. Il tragico episodio richiama l’attenzione dell’opinione pubblica sul debutto della Commissione, attenzione accompagnata dalla speranza che si stia veramente prendendo la strada giusta per debellare la mafia, con i suoi annessi e connessi: “Un nuovo clima di attenzione e fiducia nella lotta alla mafia è evidenziato anche da alcuni interventi sulla stampa nazionale. Da un lato sono denunciati in modo più diretto i legami fra mafia e politica, e da un altro lato è espressa la speranza di alcuni settori della società, legati alla maggioranza di centrosinistra, sulla possibilità che i partiti di governo decidano di interrompere quegli stessi legami. Una inchiesta sulla Sicilia del Coriere della Sera denuncia la possibilità che tutti i partiti siciliani, con l’esclusione di quello Comunista, abbiano legami con cosche mafiose, e indica alla Commissione Antimafia la distribuzione delle preferenze elettorali nelle zone di mafia come oggetto di indagine; così conclude l’articolo del Corriere: “Ora che il momento è favorevole è sacrosanto dovere dei partiti, e specialmente dei partiti di governo, compiere un atto di autocritica: guardare fra i propri amici e separare con coraggio le ‘bonache’ pulite da quelle sporche”. Per combattere il legame fra mafia e politica sono proposte anche alcune misure eccezionali: in un articolo sulla rivista Il Punto, ripreso dal quotidiano Il Giorno, il giudice Ugo Niutta propone di “negare il diritto elettorale attivo e passivo alle persone che l’inchiesta parlamentare dimostri che abbiano connivenze con la mafia, e dichiarare decaduto il mandato parlamentare a chiunque abbia beneficiato degli appoggi della mafia”. Su La Stampa di Torino del luglio 1963 si riscontra invece un deciso cambiamento nella lotta alla mafia all’interno della Dc siciliana: “La strage di Villa Serena ha galvanizzato le forze vive del partito di maggioranza relativa inducendole a imboccare la strada della decisione netta”.
In effetti nella Democrazia cristiana le posizioni di contrasto alla mafia acquistano maggiore forza e visibilità rispetto al passato: sia nella sinistra, che chiede una Commissione d’inchiesta interna che liberi il partito “da esponenti che nelle varie province della Sicilia occidentale hanno goduto dell’appoggio più o meno palese della mafia”, sia nella destra, con la corrente di Mario Scelba, siciliano, la cui rivista Il Centro afferma che “il problema della criminalità ha ormai assunto dimensioni drammatiche e veramente indegne… siamo di fronte al completo disfacimento della autorità, alla incapacità di autodifesa da parte della società, a una cancrena che si estende progressivamente, che deve essere estirpata radicalmente”. Oscar Luigi Scalfaro, che appartiene alla corrente di Scelba, sarà all’interno della Commissione - con il leader della sinistra sindacale democristiana Carlo Donat-Cattin – fra i più attivi sostenitori di un’azione decisa e concreta.
In quella prima seduta vengono individuati dieci punti principali che indicano i principali settori di indagine: acquisto di aree fabbricabili e interferenze nei piani regolatori; licenze dei mercati annonari; appalti di opere pubbliche e concessione di mutui bancari; contrabbando di tabacchi e di droga; rilascio di porto d’armi e detenzione di esplosivi; anagrafe di soggetti indiziati, sulla base degli elenchi forniti dalla Polizia e dai Carabinieri; elenco di proposte di soggiorno obbligatorio; fatti delittuosi attribuiti alla mafia, con particolare attenzione ai procedimenti conclusi con assoluzione per insufficienza di prove; elenco delle sedi giudiziarie prive di titolare; elenchi del personale di uffici giudiziari, statali, regionali, provinciali, comunali, e dei consorzi di bonifica e irrigazione.
Scalfaro, uno dei due vicepresidenti della Commissione – l’altro è il comunista siciliano Girolamo Li Causi – sottolinea la necessità di indagare a fondo sulla concessione di prestiti e mutui, e sulle garanzie richieste e fornite. Li Causi ritiene importante un attento esame dei procedimenti giudiziari, che Scalfaro, piemontese ed ex magistrato, non vorrebbe si trasformasse in un’indagine generale sulla magistratura siciliana. Il comunista Francesco Spezzano chiede che si indaghi anche sulle fortune economiche accumulate in Sicilia negli ultimi anni, il democristiano Donat-Cattin propone un’indagine sui collegamenti commerciali tra la Sicilia e il Centro-nord, e un’altra sulle aziende di Stato, il comunista Nicolò Rosario Cipolla, deputato di Palermo, pone l’accento sulla necessità di studiare, nel quadro complesso degli appalti pubblici, anche i subappalti. “Una parte della Commissione – scrive Frangioni – sembra aver presente in modo chiaro la direzione verso la quale si sta dirigendo la mafia: le relazioni sempre più complesse fra economia mafiosa e finanza, legate al rapporto con il sistema bancario; l’espansione degli interessi e dei traffici dell’organizzazione al di fuori della regione siciliana, che si sviluppa anche attraverso canali commerciali legali; lo spazio occupato dalla mafia all’interno di un sempre più vasto sistema illegale di intervento statale nell’economia, attraverso la gestione degli appalti e dei subappalti pubblici, nell’industria di Stato e nelle aziende municipali. Secondo questi presupposti sembra possibile che un organo come la Commissione parlamentare possa incidere davvero su una organizzazione criminal-politica come la mafia, avendo la Commissione oltre agli stessi poteri dell’Autorità giudiziaria, anche la necessaria autorità politica per intraprendere questa lotta. La capacità di incidenza politica dell’Antimafia è però legata alla condizione che, attraverso la dialettica interna, siano superate le divisioni tra le forze politiche di cui la Commissione è uno specchio, poiché riproduce l’immagine dell’intero panorama politico presentato in Parlamento”.
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Sino dall’inizio i lavori della Commissione, raccogliendo le testimonianze dei responsabili delle Forze dell’ordine, mettono in evidenza sia l’inadeguatezza dei mezzi investigativi impiegati nella lotta alla mafia, sia la carenza di un coordinamento: ad esempio, la Guardia di Finanza svolge le sue indagini sui traffici di droga e di tabacco, ma non tiene alcun conto del fatto che i trafficanti siano mafiosi, così che possono svolgersi indagini parallele a quelle della Polizia senza che fra le due operazioni vi sia alcun contatto. Per quanto riguarda alcuni alti funzionari si registrano vistose reticenze. Il Prefetto di Palermo dichiara che il suo ufficio non ha mai svolto indagini sul mercati all’ingrosso del capoluogo siciliano, non essendovi stata alcuna segnalazione da parte delle Commissioni prefettizie di vigilanza. E il suo collega di Caltanissetta afferma che nella sua provincia negli ultimi anni non si sono manifestate presenze mafiose, ma solo delitti d’onore e vendette personali.
La Commissione comincia ad elaborare una relazione che contenga proposte efficaci e puntualizzi la priorità di impegnare tutti gli organi dello Stato nell’azione di contrasto alla mafia, ma al suo interno si configurano posizioni discordanti sul ruolo che essa deve avere. “Le due visioni sono esplicitate nella seduta del 6 agosto, da una parte dal presidente Pafundi e dall’altra dal socialista Vincenzo Gatto. Gatto sostiene che la Commissione abbia “il dovere di indicare i mezzi concreti attraverso i quali si possa arrivare allo smantellamento dell’attività mafiosa”. Pafundi, invece, si fa portavoce di una interpretazione minimalista delle funzioni della Commissione, che ha “il limitato compito di fronteggiare le manifestazioni più allarmanti del fenomeno mafioso e di dare al Paese una conferma della precisa volontà del Parlamento in questo campo”. Seguendo questa divaricazione, fra chi vuole sconfiggere la mafia e pensa che questo sia un compito preminente dello Stato, e chi invece vuole fronteggiare gli aspetti più eclatanti del fenomeno mafioso, è possibile comprendere i limiti all’interno dei quali era inserita la possibilità di manovra della Commissione Antimafia fin dalle sue origini”.
Una parte della Commissione, in particolare il senatore Nicolò Cipolla (Pci) e il deputato Angelo Nicosia (Msi), chiede che le sedute della Commissione si svolgano in presenza della stampa, seguendo il modello di trasparenza delle Commissioni senatoriali Antimafia statunitensi (Kefauver del 1950 e McCellan del 1963). Cipolla chiede anche un collegamento con l’Antimafia americana, acquisendo agli atti della Commissione i rapporti del Narcotic Bureau del Fbi, e Li Causi propone di stabilire un rapporto di collaborazione con la Commissione McCellan. In effetti la mafia italo-americana, data la sua collocazione, aveva preceduto di alcuni decenni la “casa madre” siciliana nel processo di modernizzazione, mantenendo comunque con essa dei legami che proprio a partire dagli anni ’60 diventano più stretti e organici, fondati su “affari” comuni: dagli investimenti finanziari al traffico di droga. “Nello stesso periodo in cui l’Antimafia italiana muove i suoi primi passi, la Commissione McCellan orienta le sue indagini seguendo le rivelazioni del capomafia Joe Valichi, primo collaboratore e importantissima fonte per la conoscenza di una associazione segreta come la mafia. La Commissione Pafundi, invece, nonostante le indicazioni dei comunisti, decide di ignorare un filone di indagini comparative con la mafia americana e di collaborare con le autorità statunitensi, perdendo così una importante occasione per conoscere meglio l’organizzazione e più incisivamente combatterla”.
La trasferta a Palermo della Commissione, il 15 gennaio 1964, coincide con l’inizio di una fase di notevoli successi nella lotta alla mafia, che vede l’arresto di vari esponenti delle cosche. A favore di uno di questi, Genco Russo, viene raccolta una petizione con tremila firme, con la partecipazione di alcuni dirigenti locali democristiani. Il segretario nazionale della Dc Mariano Rumor chiede che a questo proposito si svolga un’indagine interna. E il vicepresidente della Commissione Oscar Luigi Scalfaro, commentando la militanza di Genco Russo nella Dc, dichiara: “E credo che sia bene che ad essere colpito sia stato uno della mia parte politica, dato che è ben noto dai giornali – e l’ordinanza lo ricorda – quale fosse la contaminazione di questo uomo con ambienti di un partito di governo, che è il partito di cui io faccio parte”. I successi ottenuti sul piano della repressione, e il comportamento modificato di molti dirigenti locali dopo le reprimende giunte da leader nazionali come Rumor e Scalfaro, sembrano indicare che l’esistenza della Commissione parlamentare ha la potenzialità di avviare un nuovo corso, e di fornire la necessaria “copertura” politica alla magistratura e alle Forze dell’ordine. Ma si tratta di un momento favorevole destinato ad avere vita breve.
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“Il 22 aprile 1964, nel silenzio generale dell’opinine pubblica e in modo del tutto imprevisto, Scalfaro si dimette dalla Commissione Antimafia. La notizia è quasi completamente ignorata dalla stampa, con l’eccezione di alcuni giornali di sinistra. L’Unità dedica all’argomento un breve trafiletto, parlando di “inattese dimissioni dello scelbiano Scalfaro”. Su L’Ora, invece, appare un articolo più ampio. Il quotidiano palermitano ritiene che Scalfaro abbia chiesto al proprio partito di essere esonerato dall’incarico, dopo la seduta del 15 aprile, al termine della quale avrebbe espresso la propria delusione sui mancati progressi dell’inchiesta, dichiarando ad alcuni giornalisti: “qui siamo ogni volta punto e a capo”. In una intervista del 1990, al settimanale L’Europeo, Scalfaro afferma di aver deciso di abbandonare la Commissione nel mese di marzo del 1964, dopo che, di fronte alle richieste dell’Antimafia, il governatore della Banca d’Italia Guido Carli aveva ribadito l’inviolabilità del segreto bancario”.
Mafia e banche, un rapporto se non proprio segreto certo molto discreto, sotto traccia, la cui rilevanza ed estensione più tardi verrà (parzialmente) alla luce con le drammatiche vicende di Michele Sindona e Roberto Calvi. La Commissione, il 17 marzo 1964 ascolta le testimonianze dei ministri del Bilancio, Emilio Colombo, e delle Finanze, Roberto Tremelloni, e del Governatore della Banca d’Italia. Il tema posto sul tappeto è la presenza di mafiosi nei consigli d’amministrazione di alcune banche siciliane, e la concessione di prestiti a imprenditori legati alla mafia. Il vicepresidente Scalfaro si rivolge a Guido Carli, che prima dell’audizione aveva inviato una lettera per riaffermare le esigenze del segreto bancario, esprimendo il parere che l’indagine “non deve uscire dai limiti delle competenze, ma neanche fermarsi in modo eccessivo su posizioni tradizionali, in quanto è lo stesso fenomeno mafioso che rompe la tradizione di un sistema”. Scalfaro chiede quindi che vengano forniti gli strumenti per fare luce su arricchimenti e movimenti di credito, e ritiene necessario un collegamento tra la Commissione, il ministero delle Finanze, con i suoi organi periferici. E la Banca d’Italia. Guido Carli risponde che la Banca d’Italia, pur non potendo essere d’ostacolo all’attività della magistratura, “deve proteggere gli interessi della raccolta del risparmio e del suo impiego”.
Evidentemente sono di fronte due diverse concezioni sul ruolo della Banca centrale, e soprattutto due diverse valutazioni sulla gravità delle commistioni tra mafia e istituti di credito. “La difficoltà di penetrare nei meccanismi del sistema bancario, – scrive Frangioni – in modo da comprendere la struttura economica delle cosche mafiose, conoscendone le capacità di accumulazione di ricchezze e di riciclaggio dei proventi delle attività illegali, caratterizzerà l’intera storia delle indagini antimafia. L’anomalia siciliana di una crescita del sistema creditizio, del tutto sproporzionata rispetto ai parametri di crescita economica, è stata messa in risalto, in alcuni studi, come una dimostrazione della consistente espansione dell’economia illegale. Secondo l’economista Mario Centorrino, fra il 1966 e il 1986 in Sicilia si verifica una ‘crescita ipertrofica’ degli sportelli bancari” mediante modalità non paragonabile a nessun’altra zona d’Italia. Le banche siciliane divengono in questi venti anni un canale privilegiato per il riciclaggio del denaro sporco della mafia, e sono lo strumento principale per l’accesso dei capitali mafiosi ai mercati finanziari internazionali. Per avere un punto di riferimento, in relazione allo sviluppo del credito nazionale, è possibile osservare i dati di un periodo di poco precedente rispetto a quello analizzato da Centorrino. Fra il 1952 e il 1975 l’incremento della rete operativa delle banche è in Italia dell’83%, nella sola Sicilia è del 586%. Sul territorio nazionale le banche s.p.s. crescono del 50%, in Sicilia del 202%, mentre le casse rurali in Italia aumentano le loro operazioni del 12%, e in Sicilia del 25%. Lo sviluppo territoriale della rete bancaria è a livello nazionale del 53%, nella regione Sicilia del 216%”.
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Le dimissioni di Scalfaro erano state precedute, nel dicembre 1963, da quelle di Donat-Cattin, che aveva lasciato la Commissione essendo stato nominato sotto-segretario. “Donat-Cattin e Scafaro rappresentavano la parte più impegnata della Dc nell’Antimafia parlamentare, e più decisa nella strada della lotta alla mafia. I due parlamentari democristiani, oltre che per particolari competenze e caratteristiche di personale irreprensibilità, svolgevano un ruolo di sostanziale importanza negli equilibri interni dell’Antimafia anche per dei motivi di origine politica. Donat-Cattin era uno dei più importanti esponenti della corrente democristiana di sinistra, come Scalfaro per quella di destra. Le due estremità del panorama politico democristiano erano state relegate ai margini del sistema politico democristiano, definito nella convergenza di fanfaniani e dorotei nel congresso di Napoli del 1962, e ribadito durante la crisi di governo dell’estate del 1964. La condizione di parziale marginalità, rispetto al nucleo centrale dei meccanismi di potere del Paese e del partito, pur non escludendo per le due correnti importanti incarichi di governo, lasciava ai due commissari una maggiore indipendenza e libertà di manovra”.
Al posto di Scalfaro come vice presidente, viene eletto – dopo una combattuta votazione – il democristiano Gullotti, che si era già espresso a favore di un’interpretazione “minimalista” delle funzioni della Commissione parlamentare, in linea con il presidente Pafundi.
La trasferta palermitana della Commissione permette di mettere in evidenza i rapporti tra industriali dell’edilizia e famiglie mafiose, e l’influenza di questi legami tra mafia e politici di primo piano, come Salvo Lima, eletto nel 1958 sindaco di Palermo, e poi commissario straordinario dell’Eras. Di fronte a questa situazione nella Commissione si crea una spaccatura – tra chi vuole limitare l’agenda dei lavori ai casi accertati di ingerenze mafiose, e chi chiede che si allarghi il raggio di azione, per scoprire anche quello che viene mantenuto nascosto -, che porta di fatto a una condizione di stasi. Nella Commissione, quindi, si delineano sempre più le opposte posizioni riguardo al significato e al peso da attribuire al materiale raccolto – documenti, rapporti delle Forze dell’ordine, testimonianze – e alla valorizzazione del contributo fornito dai collaboratori di giustizia come strumento di particolare importanza della lotta a una struttura protetta da un intreccio di complicità e connivenze a vari livelli. Nello stesso tempo si accentuava un disaccordo sistematico tra rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione.
“Il 16 marzo 1965 – scrive Frangioni – Il Giorno aveva pubblicato un’intervista a Ferruccio Parri in cui il senatore a vita denunciava l’immobilismo dei lavori della Commissione e l’inefficacia della azione politica di comunisti e democristiani: “si sono in parte sprecati” sostiene Parri “otto mesi per insistere con ostinazione su fatti e circostanze del tutto secondari rispetto alle sostanziali questioni di fondo… l’inchiesta che aveva messo in luce la condotta scandalosa dell’Amministrazione di Palermo era adoperata dai comunisti per combattere la Democrazia cristiana. Così i primi pigiavano sull’acceleratore e i democristiani sul freno. Con il risultato di immobilizzare la Commissione”. Il vicepresidente Li Causi, intervistato da L’Ora, difende l’operato dell’Antimafia, ritenendo però che il problema centrale dell’attività della Commissione sia l’assenza di visibilità dei suoi lavori e non lo scontro interno, prodotto naturale della dialettica di un organo politico. Le dichiarazioni dei due anziani politici, compagni della resistenza antifascista nel Clnai, esprimono due diversevisioni dell’Antimafia parlamentare. Ferruccio Parri rappresenta con le sue denunce una parte dell’opinione pubblica nazionale che è profondamente delusa degli sviluppi dei lavori dell’antimafia e che ritiene l’immobilismo della Commissione un vantaggio per la mafia. Il quotidiano milanese Il Giorno diviene un punto di riferimento di questa posizione di delusione critica. In alcune inchieste sulla condizione della lotta alla mafia, pubblicate proprio nel marzo del 1965, denuncia che “per molti segni – l’indifferenza dell’opinione pubblica, un vasto scetticismo, lo stesso affievolirsi delle polemiche politico-giornalistiche – si avverte che a Palermo la paventata ‘crisi di fiducia’ è una realtà, prodotta anche dall’immobilismo dell’attività dell’Antimafia, i cui lavori sono diventati estranei alla coscienza della gente”. Le posizioni dei comunisti, almeno quelle dichiarate all’interno dell’Antimafia, non divergono profondamente da questa analisi, per quanto riguarda le conseguenze dirette della staticità della Commissione, nella fiducia alla lotta alla mafia, ma sono espressione di una diversa condotta politica, nonché di una differente valutazione programmatica. Li Causi esprime in modo evidente la posizione comunista, di cui è indubbiamente uno dei principali artefici: da un lato ritiene necessario evitare critiche polemiche sull’attività della Commissione, valutando il rischio che colpendone l’operato si indebolisca l’istituzione, con il risultato di svalutarne la funzionalità nella lotta alla mafia; da un altro lato considera che la Commissione possa svolgere un ruolo politico in tempi più lunghi, e che sia quindi essenziale garantirne soprattutto la continuità istituzionale. Il Partito comunista non può non essere profondamente interessato alla sopravvivenza di un organo parlamentare come la Commissione Antimafia, per l’istituzione del quale ha avanzato proposte per più di un decennio, e che lo vede, per la prima volta, direttamente partecipe di decisioni nella lotta alla mafia. Girolamo Li Causi, inoltre, in una riunione del Consiglio di Presidenza dell’Antimafia, avanza una critica che è soprattutto un’autocritica nei confronti del gruppo comunista, per il tentativo di anticipare i tempi dell’indagine, per giungere subito a una dimostrazione dei rapporti tra mafia e partiti politici: “la conclusione necessaria e inevitabile della Commissione sarà svelare i rapporti fra mafia e alcuni partiti politici. E’ stato però un errore volervi arrivare subito”. In una prospettiva di lungo periodo così formulata, la Commissione perde, però, una sua funzione immediata di proposizione politica, legalmente definita, e disattende molte speranze suscitate dalla sua istituzione. Le inchieste de Il Giorno vogliono evidenziare l’inadempimento, da parte della Commissione, di una delle sue funzioni, e un generale sentimento di delusione, oltre che esprimere una critica all’azione politica dei comunisti, considerata eccessivamente interessata a svolgere un processo alla classe dirigente democristiana, e a quella della stessa Dc, tesa a ridurre l’attività della Commissione a uno studio di carattere scientifico sulla mafia”.
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Trattando, sinteticamente, l’attività dei comitati d’indagine della Commissione parlamentare, Filippo Frangioni riporta le iniziative del gruppo di lavoro incaricato di seguire l’attività giudiziaria in relazione alla criminalità mafiosa. “Il gruppo di studio sui processi di mafia ha origine da una relazione del comunista Mario Assennato sull’attività giudiziaria, del 28 aprile 1965, in riferimento ad alcuni delitti di sindacalisti siciliani rimasti irrisolti. L’avvocato pugliese sottolinea il ‘fenomeno della presenza della mafia anche nel processo di acquisizione e valutazione del materiale probatorio, in rapporto al quale fenomeno ritiene debbano inquadrarsi certi aspetti tipici dell’attività degli organi di Polizia, della tecnica di difesa degli imputati e della procedura della stessa Autorità Giudiziaria’. Assennato ha l’inarico, insieme al democristiano Giovanni Elkan, di compiere un sopralluogo in Sicilia, nel giugno e nel luglio del 1965, per analizzare del materiale su processi svolti che avevano imputati mafiosi, e soprattutto su i procedimenti conclusi con un’assoluzione per insufficienza di prove. I due commissari presentano alla Commissione il 17 novembre delle proposte di disposizioni riguardanti la giustizia in Sicilia: 1) Segnalare al Consiglio superiore della magistratura l’opportunità che, in sede di promozioni, trasferimenti o nuove nomine, non siano destinati a sedi giudiziarie siciliane nativi dell’isola. 2) Di segnalare allo stesso Consiglio la posizione di taluni magistrati la cui funzione, per particolari motivi soggettivi o di ambiente, potrebbe essere meglio assolta in altra sede. 3) Di comunicare ai dirigenti degli uffici giudiziari interessati i rilievi critici formulati per ogni opportuna valutazione. 4) Di richiamare l’attenzione dei procuratori generali sull’opportunità che taluni processi di mafia siano rimessi ad altro giudice ai sensi dell’art. 55 del Codice di procedura penale. 5) Di disporre frequenti visite di delegati della Commissione nei centri della Sicilia occidentale”.
A suscitare scalpore e indignate proteste è il primo punto, quello che riguarda i magistrati di origine siciliana. Il presidente del Tribunale di Palermo, Ignazio Fazio, afferma che le numerose assoluzioni nei processi di mafia non sono dovute ai magistrati, siciliani o no, ma alla diffusa omertà ambientale, e le associazioni dei magistrati siciliani accusano la Commissione di atteggiamento razzista. Vittorio Nisticò, direttore de L’Ora (che aveva titolato in prima pagina “Antimafia: propongono di non destinare in Sicilia magistrati isolani”), considera intollerabile la proposta discriminatoria, ma difende il diritto della Commissione di indagare sul funzionamento della macchina giudiziaria nei confronti della mafia.
Comunque, in quella relazione vi è qualcosa di più grave, il segno di una carente, limitata comprensione di che cosa sia e rappresenti veramente la mafia come “sistema” che va molto al di là dei suoi aspetti visibilmente e violentemente criminali, e delle sue stesse radici. “L’evidente contrasto fra i comuni principi di una democrazia contemporanea e la proposta avanzata dai due parlamentari di discriminazione verso i magistrati di origine siciliana, non è comprensibile considerando il caso presentato come una semplice eccezione nel panorama politico e culturale italiano degli anni Sessanta. La proposta, a cui non si contrappongono in modo esplicito nemmeno i commissari siciliani, è prodotta da una profonda e diffusa interpretazione dell’origine culturale del fenomeno mafioso, riferibile, secondo parametri di semplicistico determinismo geografico, alla nascita sul suolo siciliano. Il magistrato siciliano Giuseppe Di Lello evidenzia le contraddizioni delle richieste dei due commissari dell’Antimafia, ritenendo che ‘le proposte di Elkan e di Assennato sono abbastanza ingenue e non tengono conto che impegno e disimpegno, solidarietà di classe e difesa della legalità, passione o agnosticismo sono sempre più forti del certificato di nascita, tant’è che se per assurdo fossero state accolte, avrebbero messo fuori tutti quei giudici, da Terranova a Borsellino, che anni dopo, con il loro sacrificio, avrebbero dovuto testimoniare il riscatto della Sicilia… Lo stesso deve dirsi dello spostamento dei processi fuori dalla Sicilia per legittima suspicione, uno spostamento che è servito più che altro a santificare la mafia con sentenze omologhe a quelle rese nell’isola’”.
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“Nell’autunno del 1967 – scrive Frangioni - si presenta all’Antimafia un’ultima occasione per cercare di invertire la direzione del suo percorso politico, che aveva avuto inizio con speranze e successi, ed era poi progressivamente scivolato in una continua diminuzione dell’influenza della Commissione parlamentare nella lotta alla mafia. A Catanzaro si sta svolgendo il processo, trasferito da Palermo per legittima suspicione, ai principali mafiosi palermitani. Il processo è stato prodotto dalle inchieste di Polizia successive alla strage di Ciaculli e dalle sentenze istruttorie del giudice Terranova.
L’immenso materiale raccolto e i risultati di alcune indagini svolte dall’Antimafia nell’arco di più di quattro anni, possono evidentemente costituire un elemento utile allo svolgimento del primo processo contro l’associazione mafiosa. Il Presidente Pafundi, invece, decide e comunica alla stampa, in piena autonomia e senza consultare nemmeno il suo Consiglio di Presidenza, che l’Antimafia non può inviare dei documenti richiesti dal Tribunale di Catanzaro. Di fronte alle vive proteste del vicepresidente Li Causi, Donato Pafundi si difende spiegando che esistono ‘motivi giuridici e di opportunità per i quali si deve escludere in via di principio la possibilità di rendere pubblici o di consegnare all’Autorità giudiziaria documenti relativi ai lavori svolti dalla Commissione’… Girolamo Li Causi si batte in Consiglio di Presidenza affinché la Commissione , invece, collabori con il Tribunale di Catanzaro, mettendo a disposizione soprattutto gli studi fatti sulle tecniche di difesa dei mafiosi, dirette all’assoluzione per insufficienza di prove. Il sociologo tedesco Hess sostiene che la ricerca di una sentenza di assoluzione per insufficienza di prove non rappresenti semplicemente la strategia migliore per evitare la pena, in una particolare condizione di omertà, ma che abbia anche un valore simbolico per il raggiungimento dello ‘status di mafioso’. Il mafioso che riesce ad essere assolto, non perché si sia dimostrata la sua innocenza, ma perché non è stato possibile verificare la sua colpevolezza, ne guadagna in prestigio e autorità pubblica. Se il mafioso è stato così assolto vuol dire che ha la capacità di intimidire i testimoni, che ha raggiunto un rispetto tale da essere degno di omertà, che ha ottenuto la protezione di alcuni poteri statali…
I capimafia imputati al processo di Catanzaro non avevano certo bisogno di nessuna controprova del loro valore mafioso. Era la mafia stessa, però, che aveva bisogno di una assoluzione per insufficienza di prove. La sentenza di Catanzaro del 1968 è divenuta un simbolo della sconfitta dela lotta alla mafia degli anni Sessanta, perché, seppure sia composta di conclusioni variegate e complesse, difficilmente sintetizzabili, ha potuto assorgere a rappresentazione collettiva dell’impunità dell’organizzazione mafiosa. L’immagine più convincente dell’assenza della pena è il ritorno a Palermo, in piena libertà, della maggior parte dei boss processati…
Le informazioni che l’Antimafia ha raccolto sul fenomeno mafioso sarebbero state utili per ricostruire il contesto generale all’interno del quale si sono sviluppati i reati contestati ai mafiosi al processo di Catanzaro. Probabilmente il risultato del processo non sarebbe stato diverso, essendo impossibile una condanna per associazione di tipo mafioso, ma ostacolando una ricostruzione complessiva dell’attività della mafia, la Commissione parlamentare contraddice le sue stesse finalità. L’Antimafia, infatti, escludendo la necessità di valutazioni generali sul fenomeno mafioso, riduce la mafia a semplice criminalità, e nega il motivo stesso dell’esistenza di una inchiesta parlamentare”.
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La prima Commissione parlamentare Antimafia si appresta a concludere i suoi lavori mantenendo le divisioni interne, e rendendo evidente l’impossibilità di produrre una relazione finale esauriente, rispondendo in qualche misura alle richieste che erano state all’origine della sua istituzione.
“Nel documento conclusivo della Commissione Pafundi il rapporto di mafia e politica, oggetto di cinque anni di scontri interni ed elaborate indagini, è simbolicamente relegato ad una unica e sibillina frase finale: ‘nel corso dei suoi lavori la Commissione ha fermato il proprio esame anche sul rapporto tra mafia e politica, senza pervenire – allo stato – a conclusioni’. Anche questo effimero riferimento è il prodotto di una mediazione di opposti interessi, inserito nel rapporto con un emendamento del comunista Assennato, che diviene nella sua limitatezza l’unica ‘vittoria’ dei comunisti nella discussione del documento.
Le reazioni all’esterno della Commissione su questa inutile relazione sono di profondo sdegno e di preoccupante denuncia, in alcuni casi, anche all’interno della maggioranza. L’esponente della sinistra sindacale della Dc Vincenzo Scalia si esprime in una intervista in questi termini: ‘si avvantaggia insperatamente il potere mafioso. Il quale nel crimine trova, è bene ricordarlo, soltanto una manifestazione eccezionale… Per la Dc in particolare, si pone la necessità di dedicarsi ad un serio processo di chiarificazione interna’.
Anche se la visibilità dell’Antimafia sui mezzi di comunicazione ha subito un processo di progressiva diminuzione, quotidiani e settimanali evidenziano l’assurdità di un rapporto sui lavori della Commissione strutturato secondo termini così riduttivi. Su La Stampa di Torino esce un articolo di Enzo Biagi intitolato : ‘Un capolavoro di riserbo in un paese indiscreto. La Commissione antimafia è riuscita a non sapere e non dire proprio nulla’.
L’attenzione dell’opinione pubblica per i lavori della Commissione era sicuramente inferiore a quella che si era determinata al momento della nascita e degli esordi dell’Antimafia. La perdita di interesse dei media nazionali nei confronti dell’Antimafia è conseguente a una riduzione della percezione del pericolo mafioso. I delitti di mafia sono notevolmente diminuiti durante gli anni Sessanta e secondo alcune analisi la repressione del 1963-64 ha rappresentato una soluzione quasi definitiva del problema; la ‘questione mafiosa’ scivola così progressivamente nel sottobosco del dibattito politico, per poi riemergere ogni volta che l’omicidio mafioso si fa nuovo epifenomeno della ennesima riscoperta della mafia”.
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I mutamenti della situazione politica a livello nazionale, la separazione sempre più accentuata fra comunisti e socialisti, con l’ingresso del Psi nell’area di governo, avrà ripercussioni importanti anche nella lotta alla mafia. “Anziché provocare un processo di sviluppo della coscienza antimafia all’interno del governo – rileva Frangioni – la presenza socialista nella maggioranza origina un affievolimento delle posizioni antimafia dello stesso Psi”. D’altra parte, la scissione del Psip, e la fuoriuscita dal partito di parte della sinistra lombardiana, porta anche in Sicilia a nuovi equilibri nella struttura del Psi. Quanto ai comunisti, la spinta iniziale del dopoguerra, basata soprattutto sulla mobilitazione delle masse dei braccianti, si esaurisce di fronte a un nuovo modello sociale e politico “ibrido”, gestito dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati, costituito da spinte alla “modernità” e legami alla “tradizione”. Ma al di là di queste considerazioni, necessariamente affrettate e incomplete, sui singoli parti, di governo e di opposizione, si deve rilevare che il fallimento della prima Commissione parlamentare Antimafia inficia profondamente la possibilità che le forze politiche trovino la necessaria volontà unitaria per cancellare il cancro della mafia.
Nell’ultimo paragrafo del suo libro, significativamente titolato “La vittoria della mafia”, Filippo Frangioni ricorda l’espansione del modello mafioso, con un ruolo trainante di Cosa nostra, l’allargamento del traffico di droga, e la moltiplicazione degli affari mafiosi fino al nord. Si tratta, è chiaro, di una storia di oggi, che si collega alla storia del passato, di quando nel nostro Paese non si è saputo, o non si è voluto, affrontare un pericolo che poteva essere sconfitto. Un pericolo che evidentemente non tutti vedevano come tale, o non ne valutavano gli sviluppi che avrebbe avuto.
E Frangioni conclude: “Come sottolineava Nicola Tranfaglia all’inizio degli anni Novanta: ‘su un nodo cruciale della storia più recente del fenomeno mafioso, storici e scienziati sociali, al di là delle controversie che ancora dividono su altri aspetti la comunità scientifica, sono d’accordo. E’ negli anni Sessanta e Settanta che le associazioni mafiose compiono un salto decisivo. Ed è negli ultimi venti-venticinque anni che penetrano decisamente nel mondo politico ed economico della penisola, acquistando un ruolo centrale in quel complesso sistema di poteri leciti e illeciti, visibili e invisibili, che ha governato l’Italia e in parte ancora la governa’. E’ così delineato, in termini sempre più precisi, quel processo di integrazione del potere mafioso nelle classi dirigenti locali, nelle economie e nel sistema politico nazionale, cominciato negli anni Cinquanta, e sviluppatosi soprattutto intorno al ‘rapporto tra attività mafiosa locale e vita politica nazionale come scudo politico che ha facilitato il movimento, l’attività mafiosa nel Paese…’
Cosa fa la Commissione parlamentare Antimafia degli anni Sessanta di fronte a questo processo di espansione e integrazione della mafia? Praticamente niente. Rimane estranea a questi fenomeni. La sua attività si sviluppa in parallelo alle evoluzioni della mafia, senza mai incontrarle. Non riesce a percepire in nessun modo questi cambiamenti, e in definitiva la sua capacità di influire sulla mafia è quasi inesistente…
La storia delle inchieste parlamentari della Repubblica italiana è la storia di un potere incompleto. Le inchieste non riescono mai a divenire, come dovrebbero, strumento di controllo parlamentare sul governo, a causa di un costante condizionamento delle Commissioni da parte dell’esecutivo.
Due particolari sconfitte, però, con significative conseguenze nella storia italiana, caratterizzano la Commissione Antimafia, fin dalle sue origini degli anni Sessanta.
La prima è l’incapacità di svolgere un ruolo attivo nella lotta alla mafia, che significava, come stabilito anche nella legge istitutiva, dare indicazioni di misure legislative necessarie, ma anche essere un organo politico capace di rispondere a una esigenza di coordinamento delle attività antimafia, la cui necessità era evidente gà dalle primissime indagini della Commissione: ponendosi cioè come ‘punto di raccordo tra le varie istituzioni dello Stato, gli Enti locali, le Regioni, al fine di sviluppare le necessarie energie e collaborazioni’. Il ritardo con cui il il sistema politico italiano ha preso coscienza di questa occorrenza ha determinato una evidente condizione di svantaggio nella lotta alla mafia.
La seconda è la rinuncia della Commissione, e allo stesso tempo di tutto il sistema politico italiano, di stabilire responsabilità politiche precise e esprimere quindi giudizi e valutazioni necessari per la salvaguardia e il funzionamento dell’ordinamento democratico. La politica si priva della propria capacità di imporre norme di comportamento politico e di valutarne la trasgressione; rinuncia così alla possibilità di riformare i meccanismi degeneranti del sistema, attraverso la definizione di regole e giudizi di natura politica; si deresponsabilizza, producendo l’effetto di preservare dal giudizio azioni, penalmente non verificabili, ma politicamente condannabili, creando inoltre le condizioni per una sovrapposizione di significati e valutazioni politiche e giudiziarie, come potenziale permanente di conflitto tra poteri”.
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