Il 2009 si annuncia come un anno
carico di incertezze e di fondati timori, mentre
si confermano tutti gli errori di un sistema
economico basato per molti aspetti
sull’avventurismo finanziario, e su una crescita
fuori controllo. Ma da questa situazione,
attraverso dure prove, può nascere
un modello di sviluppo più sano e più giusto
Gli italiani sono pessimisti. Se non lo avessimo sospettato, ce lo rivela un sondaggio Doxa, che mette a confronto le valutazioni dell’appena passato 2008 con le previsioni del 2009 nel quale ci siamo incamminati. E un altro sondaggio, questo di Gallup International Voice of the People, precisa che gli abitanti della Penisola sono più pessimisti di quelli di altri Paesi altrettanto colpiti dalla crisi economica globale. A parte gli inglesi che vedono il futuro ancora più nero di noi.
Il 47% degli intervistati ritiene che per quanto lo riguarda il 2009 sarà peggiore dell’anno passato, che già è stato niente affatto gratificante: una percentuale elevata, considerato che la media internazionale dei pessimisti è del 35%. C’è solo un 15% che fiduciosamente prevede che le cose andranno meglio. Si tratta, è bene ricordarlo, di previsioni che riguardano la situazione personale. Se si passa a un giudizio sul piano generale, il 62% si attende “difficoltà economiche”, e il 55% è convinto che si assisterà a un aumento del tasso di disoccupazione. “In questa congiuntura economica – dice Domenico De Masi, docente di Sociologia del Lavoro all’Università La Sapienza di Roma – l’ottimismo è un segno di incoscienza. Il pessimismo è un segno di saggezza. La diagnosi per i primi mesi del 2009 è che ci sarà minore ricchezza. Non è obbligatorio che sia un male, può essere la via a un nuovo modello meno dedito al consumismo”.
Un nuovo modello, è un auspicio che giunge da varie parti, mentre altri – come il premier – spingono sul pedale dell’ottimismo invitando a non mutare stile di vita. Certo la società dei consumi è basata su una continua sollecitazione all’acquisto mirata ad alimentare la produzione. E alla produzione è direttamente legata l’occupazione. Detto alla buona, se nessuno cambia la sua automobile, il suo televisore, il suo computer, il suo cellulare, e così via, le industrie che producono questi beni di consumo si ritrovano in cattive acque, e si profilano licenziamenti. E altrettanto vale per il commercio, un settore che la crisi mette in allarme ogni volta che si profilano inviti al risparmio. D’altra parte, alimentare i consumi con i prestiti è un sistema che ovunque ha provocato situazioni traumatiche, e spesso tragicamente disastrose.
E anche in Italia, fatalmente, l’indebitamento influisce pesantemente sull’immediato futuro delle famiglie. “Sia quello dovuto ai mutui sulla casa, che quello al consumo – dice Enrico Finzi, professore di sociologia, intervistato da l’Unità – E se pensiamo alla massa di precari che non verranno riconfermati, capiamo come molte famiglie perderanno un reddito, per quanto limitato. Ma questo non ha stravolto lo stile di vita degli italiani, lo ha cambiato in modo più intelligente. Si spende con più attenzione, e questo in fondo non è un fatto negativo”. Il professor Finzi, autore del libro “Come siamo felici, l’arte di godersi la vita che il mondo ci invidia”, rileva “il massiccio recupero della componente relazionale”, confermato dall’aumento dei consumi di giochi da tavola per adulti e di libri. E valuta che le fasce più colpite dalla crisi sono “al contrario di quanto si pensi e si scriva, non i più poveri. Per loro Stato sociale e volontariato hanno lasciato la situazione sostanzialmente immutata. In crisi c’è il cosiddetto ceto medio e medio basso. Ma anche i più ricchi, che sono solo il 7%, non se la passano (relativamente) bene. La crisi finanziaria ha eroso, e di molto, il loro patrimonio”. Anche i ricchi piangono? Si suppone, comunque, che non piangano con le tasche vuote.
* * *
“Dietro questa gravissima crisi economica si nasconde lo zampino di Satana”: lo afferma, autorevolmente, Padre Gabriele Amorth, decano mondiale dei sacerdoti esorcisti, sul sito Pontifex.Roma. “Quando accadono divisioni, confusione, crisi – spiega Padre Amorth – il grande tentatore è sempre presente. Lui se la ride e inevitabilmente le crisi e i dissesti economici hanno influenze anche sulla sfera personale. Creano allontanamento e frattura, esattamente quello che vuole Satana. Dunque affermare che la crisi finanziaria internazionale sia anche un prodotto satanico, non è sbagliato”. E in che modo il Signore delle Tenebre può influire sui fatti economici? “Suggerendo ai mercati, agli esperti e agli investitori scelte sbagliate. Se costoro sbagliano e causano disastri, inevitabilmente genereranno confusione, crisi, conflitto, che poi sono gli obiettivi del demonio. Lo ripeto, la crisi economica attuale rappresenta un piano di Satana per dividerci e creare caos, basato su cattivi diabolici consigli”. E’ un’opinione che può anche suscitare perplessità e scetticismo (Padre Gabriele Amorth sostiene che “molti Vescovi non credono al Maligno”), ma indubbiamente pone un problema che andrebbe affrontato in maniera approfondita, per avere risposte nette, comprensibili a tutti.
Ecco, ci si chiede, è possibile individuare i responsabili di questo tracollo mondiale? Quali sono state le scelte sbagliate? E chi è stato a compierle, o a suggerirle? Come mai fino a un anno fa reputati gruppi di “esperti” (finanziari, economici, politici) affermavano che la via dello sviluppo da loro scelta conduceva infallibilmente al successo? Sul numero dell’8 gennaio scorso del settimanale L’Espresso, Moises Naim – studioso e saggista di politica economica di fama internazionale, annuncia che “la crisi finanziaria ha smentito una volta per tutte l’affermazione secondo la quale l’economia merita di essere trattata alla stregua di una scienza”. E constata che “gli esperti semplicemente non hanno idea di quello che devono fare”.
Sarebbe forse lecito chiedersi a che cosa servano degli “esperti” inaffidabili che pontificano su una materia che è essa stessa campata in aria. Naim cita l’esempio di Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve americana, il quale “ha ripetutamente dichiarato che il peggio era passato, per poi ammettere soltanto a posteriori e con un certo imbarazzo che ‘io e gli altri in precedenza ci eravamo sbagliati affermando che la crisi dei subprime sarebbe stata contenuta’. Ancora alla metà di novembre Bernanke aveva riferito al congresso americano di ritenere che le misure e i provvedimenti adottati ‘parevano poter stabilizzare la situazione’, affermazione dimostratasi sbagliata nel momento stesso in cui è stata proferita”.
Moises Naim – che, per pudore o per modestia, parlando degli “esperti” non usa mai la prima persona plurale – ritiene che gli economisti debbano “mettere a punto nuovi strumenti adatti a una nuova era”, aggiungendo alle conoscenze “discipline diverse, quali la psicologia e le scienze politiche”. Questo li distoglierebbe dal “presumere, per esempio, che le corporation si comportano sempre in modo tale da massimizzare i loro profitti, e liquidare invece l’importanza di comportamenti improntati al solo interesse personale da parte di manager mai chiamati a rispondere del loro operato”. Naim si dice fiducioso che “i prossimi anni reintegreranno il capitale intellettuale sul quale gli economisti basano la loro influenza”, e ricorda come dalla Grande Depressione scaturì, grazie alla “perspicacia” di John Maynard Keynes, “una proliferazione di idee economiche innovative”. Certo, riconosce, nella situazione attuale i Keynes non si sono manifestati, ma è auspicabile che non tardi “l’avvento di uno o più suoi emuli, non soltanto per salvare la loro stessa professione, ma anche, cosa di gran lunga più importante, per salvarci da un’ulteriore crisi che le soluzioni a quella attuale potrebbero implicare”. Più che un invito alla speranza ha tutta l’aria di una fosca profezia.
* * *
“Non si tratta di aspettare che questa crisi passi e intanto continuare a spendere, come ho sentito dire da qualcuno. Si tratta di agire. Solo così può nascere, come dice il presidente Napolitano, una società più giusta. E aggiungo io, meno stupida”. Giorgio Ruffolo, anche lui intervistato da l’Unità, da lungo tempo si occupa, da studioso e da politico, delle strategie economiche e delle loro ricadute sociali. Il suo ultimo libro è “Il capitalismo ha i secoli contati”. A differenza di Moises Naim, Ruffolo non si preoccupa del destino degli economisti alla ricerca di un recupero di credibilità. Anzi dichiara subito: “Sarebbe bello se la crisi ci liberasse non solo delle ingiustizie, ma anche dei venditori di frottole, quelli che fino a ieri ci hanno indicato come il colmo della saggezza l’indebitamento finanziario, che hanno esaltato la produzione di denaro per mezzo di denaro, che hanno proposto alla nostra ammirazione come dei grandi manager dei grandissimi imbroglioni, e come finanza creativa gli assegni a vuoto e le catene di Sant’Antonio”.
Secondo Giorgio Ruffolo occorre prendere atto che “il consumismo indecente e ridicolo ha fatto il suo tempo”, e nello stesso tempo “rispondere alle necessità delle persone, che hanno bisogno di disciplina morale insieme a prospettive di sviluppo, miglioramento, felicità”. Individuare nuove prospettive concrete, e Ruffolo, dopo aver ricordato il discorso di Giorgio Napolitano, cita le parole pronunciate da Benedetto XVI, riscontrando “un’oggettiva convergenza tra quanto detto dal Capo dello Stato sulla crisi come opportunità per una società più giusta, e quanto detto da papa Ratzinger. Sono distante mille miglia dalla sua teologia, ma sulla gravità della crisi e sul modo di affrontarla si è espresso in modo ineccepibile. Di fronte alla vastità della crisi, ha detto, occorre mutare radicalmente il modello di sviluppo che l’ha provocata. Insomma non si tratta di aspettare ma di agire in profondità. Si tratta di fare i conti con un tipo di economia che è ecologicamente distruttiva e socialmente ingiusta”.
Cambiare strada, prendere “quella di uno sviluppo che sia radicalmente diverso da quello attuale. E significa anzitutto fare bene i conti distinguendo ciò che aumenta la ricchezza da ciò che la riduce, ciò che è bene e ciò che è male. Noi abbiamo come indice supremo dell’economia il Pil, che è semplicemente assurdo, perché rappresenta lo slogan della Rai, di tutto e di più. Una per tutte: più traffico d’armi? Uguale più Pil. Bisognerebbe definire un quadro di misuratori che esprima i traguardi più significativi. Che poi sono proprio le direzioni lungo le quali realizzare un nuovo modello di sviluppo: l’equilibrio ecologico, cioè abbandonare l’assurdità della crescita illimitata, il principio della cooperazione sociale, cioè la priorità dei beni collettivi, come l’educazione e la salute, sui beni privati, lo sviluppo dell’economia associativa rispetto a quella gestita da mercato e Stato, un’economia che sia rivolta al sapere e all’essere, piuttosto che al consumo e all’avere”.
Nell’immediato, “a essere maggiormente colpiti saranno i più deboli, disoccupati, precari, risparmiatori che perdono i loro risparmi senza avere avuto alcuna responsabilità nella crisi”.
* * *
“Non ignoro la forte preoccupazione che ci accomuna nel guardare all’anno che sta per iniziare”, ha detto Giorgio Napolitano, introducendo il tradizionale messaggio che il Presidente della Repubblica rivolge alla nazione. Quest’anno nel discorso del Capo dello Stato di “tradizionale” c’è stato poco, e si è trattato essenzialmente di un documento, lucidamente realista, di analisi sul presente e sul futuro, dando spazio alle speranze ma non alle illusioni.
“Dobbiamo guardare in faccia ai pericoli cui è esposta la società italiana, senza sottovalutarne la gravità, ma senza lasciarcene impaurire. L’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa. Vorrei in sostanza parlare questa sera con il linguaggio della verità, che non induce al pessimismo ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza”.
Il linguaggio della verità ci dice che non dobbiamo esitare “ad affrontare decisamente le debolezze del nostro sistema, le insufficienze e i problemi che ci portiamo dietro da troppo tempo. Facciamo della crisi un’occasione per liberarcene, guardando innanzitutto all’assetto delle nostre Istituzioni, al modo di essere della Pubblica amministrazione, al modo di operare dell’Amministrazione della giustizia”. E’ una visione di largo respiro, profondamente concreta: un Paese deve essere sano e giusto in tutte le sue componenti per poter affrontare validamente i momenti difficili.
Tra gli effetti immediati della crisi, quelli che vengono quotidianamente risentiti da intere categorie di italiani, Giorgio Napolitano ha citato “chi lavora e chi cerca lavoro… le famiglie più bisognose… i lavoratori che temono per la sorte delle loro aziende, e che potranno tutt’al più contare sulla Cassa Integrazione… i giovani precari che vedono con allarme avvicinarsi la scadenza dei loro contratti”, affermando che “parti sociali, governo e Parlamento dovranno farsi carico di questa drammatica urgenza, con misure efficaci, ispirate a equità e solidarietà”.
“Dalla crisi deve, e può, uscire un’Italia più giusta”, afferma il Presidente, che invita a considerare questa contingenza una “occasione”. Nel senso di “rinnovare la nostra economia, e insieme con essa anche stili di vita diffusi, poco sensibili a valori di solidarietà e di lungimiranza… perché l’Italia cresca come società basata sulla conoscenza, sulla piena valorizzazione del nostro patrimonio culturale e del nostro capitale umano… per aprire al Paese nuove prospettive di sviluppo, ristabilendo trasparenza e rigore nell’uso del denaro pubblico”. E un appello, non retorico perché fondato sull’esperienza personale di quelli della sua generazione, che hanno vissuto la durissima, oggi difficilmente immaginabile, prova della ricostruzione nel dopoguerra: “Per l’Italia la prova più alta – in cui si riassumono tutte le altre – è quella della nostra capacità di unire le forze, di ritrovare quel senso di un comune destino e quello slancio di coesione nazionale che in altri momenti cruciali della nostra storia abbiamo saputo esprimere”.
Insomma, il Presidente della Repubblica ci dice che dobbiamo e possiamo farcela. Ed è vero, anche se, nell’insieme, la situazione appare in larga misura confusa, ad esempio negli intrecci, spesso criptici, fra economia (produttiva) e finanza (virtuale). E le difficoltà di ogni giorno consumano buona parte dell’energia e della fiducia necessarie a un impegno comune veramente efficace. Ed essenziale, anzitutto per esigere chiarezza sulle scelte da compiere.
______________________________
Economics
Una lezione (forse a vuoto) per la grande finanza
Alla ricerca di lumi sul presente e di verosimili previsioni per il futuro, proponiamo un brano dell’articolo di Smile, dal numero di dicembre 2008 di “PRIMA Comunicazione”.
“Da quando si sono presentati i primi segni dello tsunami economico finanziario ho provato in più riprese a farmi un’opinione sulle ragioni e sulle conseguenze. Mi sono sbagliato talmente tante volte che ho rinunciato ad avere un’opinione su quello che sta succedendo, ma credo che si possano cominciare a leggere alcune tendenza.
Non c’è dubbio che l’innesco è venuto dalla crisi finanziaria, ma sono convinto che la conseguenza più strutturale non sarà sulla finanza ma sugli atteggiamenti delle famiglie rispetto al consumo e al credito. Si riscriveranno le regole della finanza e poi dovremo solo aspettarci la prossima bolla.
In panchina c’è troppo denaro in attesa di entrare in campo e inoltre, dopo la tecnologia, l’immobiliare, i derivati, si troverà qualcos’altro su cui sovrainvestire e gonfiare un’altra bolla. Come ha ben scritto Gavazzi sul ‘Corriere’, è un fenomeno connaturato col capitalismo. Warren Buffett ha detto più o meno qualcosa come ‘non c’è niente che ottunde la razionalità più di un un lungo periodo in cui si guadagna denaro troppo facilmente’. Non sono convinto che il mondo ricco (oggi solo meno ricco, ma non certo povero) della finanza farà grande tesoro di questa crisi. Al contrario vedremo significativi cambiamenti nella vita di tutti i giorni. Questa crisi che durerà a lungo lascerà cicatrici significative soprattutto nella mente dei consumatori”.
L’imprenditore americano Warren Buffett è, secondo Forbes, il più ricco del mondo con un patrimonio di 57 miliardi di dollari.
|