“Ho fiducia in Barack Obama. Non so quanto potrà fare, ma forse con lui potremo davvero dire addio alla pena di morte”, ha dichiarato Curtis McCarthy, 43 anni, americano, venuto a Roma nel novembre scorso in occasione della Giornata Mondiale delle Città contro la Pena di Morte, nata per iniziativa della Comunità di S.Egidio, alla quale hanno aderito quasi mille centri urbani in 71 Paesi.
All’età di 20 anni, nel 1985, Curtis McCarthy era stato condannato alla pena capitale con l’accusa di aver ucciso Pamela Willis, una ragazza sua amica. “Ero un ragazzo ribelle – racconta McCarthy – non ascoltavo i consigli della mia famiglia e dei leader della mia comunità. Ero un tossicodipendente, e cominciai a commettere piccoli crimini quando avevo 15 anni. Tutto questo fornì una scusa perfetta alla Polizia per arrestarmi per un delitto che non avevo commesso. Al momento della condanna mi sono sentito tradito. Cresci credendo in quello che ti viene detto sin da piccolo, che il sistema è dalla parte dei cittadini. Gli Stati Uniti dichiarano di essere una grande democrazia, mostrano un’enorme fiducia verso le proprie Istituzioni, ritengono infallibile il loro sistema giudiziario. Ma è soltanto una grande montatura. Molto dipende dall’immagine e dalle condizioni economiche di chi viene processato: se sei ricco o povero, se sei integrato nel sistema o un outsider, se hai o no la possibilità di assumere grandi avvocati. In base a tutto questo cambiano molto le possibilità di essere giudicato colpevole o innocente” Si tratta di un problema fondamentale. Di fronte a un delitto e a una persona sospettata di averlo commesso, l’atteggiamento degli inquirenti è: Abbiamo abbastanza prove per condannarlo? Invece la domanda dovrebbe essere: E’ stato lui?”.
Dopo la condanna Curtis era stato rinchiuso nel “braccio della morte” del carcere di Oklahoma, in attesa di un’esecuzione sempre rinviata, e sempre presente. “I primi due anni provai una rabbia profonda, che si trasformò in frustrazione. Poi mi resi conto che dovevo reagire, e cominciai a sfruttare tutte le possibilità che mi venivano concesse per diventare una persona migliore, per istruirmi, per studiare, e anche fare qualcosa per gli altri. Mi accorsi che il mio caso non era un’eccezione, un’anomalia di un sistema perfetto, ma che al contrario era abbastanza comune. Presi a insegnare a leggere e a scrivere ai miei compagni di prigionia analfabeti, a studiare legge, e a condividere con gli altri quello che imparavo”.
Nel 2000, quindici anni dopo la condanna, si scopre che il perito della Polizia, la cui testimonianza era stata determinante in Tribunale, aveva falsificato le prove presentate contro McCarty, e quando gli avvocati della difesa chiedono una nuova perizia quelle prove risultano scomparse. Quindi, se ne conclude che Curtis è stato condannato senza prove valide, ma questo non gli impedirà di restare fino al 2007 nel “braccio della morte”. “Sono stati gli anni più duri. Ero innocente, avevamo dimostrato che le prove contro di me erano false, ma continuavo a restare chiuso lì dentro. Il sistema non poteva ammettere di avere sbagliato, di avere volutamente condannato un innocente alla pena di morte”.
Nel 2007, l’associazione Innocence Project riesce a far sottoporre alla prova del Dna McCarthy, che viene ufficialmente riconosciuto innocente e scarcerato. “Avrei dovuto essere felice, e invece mi sentivo furioso. Mi hanno rubato la gioventù, sono diventato adulto nel “braccio della morte”. Per questo continuerò a raccontare la mia esperienza, quello che mi è accaduto, a parlare con le persone per convincerle che il nostro sistema giudiziario deve essere radicalmente riformato”.
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