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Dicembre/2008 - Interviste
Tattoo
“Il cliente è la mia tela”
di a cura di Eleonora Fedeli

A tu per tu con Emiliano, tatuatore
romano, che racconta la sua
esperienza nel mondo dei tatuaggi.
La gavetta, i pregiudizi, la passione
per un lavoro a metà strada tra arte
e artigianato. E che richiede anche
discrete doti da psicologo


Mentre lo aspetto sul comodo divano in pelle mi guardo bene intorno. Sulla parete rossa ci sono decine di stampe incorniciate con immagini di rose, pin up, volti di Cristo, pugnali. Sul tavolino davanti a me una pila di cataloghi e di riviste specializzate, qualche volantino di un concerto e la locandina di un incontro di boxe. Emiliano mi raggiunge subito, si toglie i guanti di lattice e mi stringe la mano. Mi invita a seguirlo nella sua stanza, ci sediamo su degli sgabelli e iniziamo a conoscerci. Sembra un po’ imbarazzato, soprattutto quando gli punto il registratore sotto il naso e comincio a incalzarlo con la mia raffica di domande. Penso che sia strana tutta questa soggezione davanti a un microfono per uno che ha subito un contatto così diretto con le persone. In fondo ogni giorno mette le mani addosso ai suoi clienti senza neanche conoscerli, tocca la loro pelle nuda e lascia sui loro corpi segni indelebili, che non vanno via col tempo. Da quando ha vent’anni, infatti, Emiliano fa il tatuatore. Oggi ne ha trentadue e ha uno studio nel centro di Roma che condivide con altri due soci dall’altrettanto lunga esperienza. Mi chiede di non menzionare il nome del suo studio, perché «non sempre la pubblicità è una cosa buona». E io accetto, a patto che mi racconti tutto sul suo mondo e sulle persone che lo popolano.


Quando hai iniziato a fare questo lavoro?
Circa dodici anni fa. Avevo vent’anni e una grande passione per i tatuaggi.

E come è iniziata?
In parte per emulazione. Tutti i musicisti dei gruppi rock americani che mi piacevano erano tatuati e forse volevo assomigliargli un po’. Ma volevo anche sentirmi diverso, unico. Quando mi sono tatuato io in Italia non si vedevano tanti tatuaggi. Era ancora un fenomeno di nicchia, legato a un certo tipo di cultura, di ambiente e di gusto musicale.

Oggi non è più così?
Negli ultimi anni le cose sono cambiate parecchio. Il tatuaggio è diventato una moda, l’aumento delle richieste ha determinato non solo una crescita esponenziale dei tatuatori ma anche un livello qualitativo superiore al passato. Se negli anni Novanta in Italia si conoscevano ancora pochi stili e non circolavano riviste specializzate, oggi non abbiamo nulla da invidiare ai nostri colleghi europei e americani.
Il nostro Paese ospita numerose convention alle quali partecipano importanti ospiti stranieri, ognuno con la sua esperienza e il suo stile. Lo scambio e il confronto per noi è fondamentale.

Pensi che anche il binomio tatuaggio-galera sia ormai superato?
In linea di massima sì. Addirittura si cominciano a vedere tatuaggi in parti del corpo tradizionalmente legate all’esperienza del carcere. Oggi non è più così strano vedere un tatuaggio sul collo o sulle mani. Persino tra le Forze dell’ordine non è più una pratica così proibita. E’ solo una questione di tempo.

Eppure i pregiudizi sui tatuaggi continuano ad esistere. In effetti il tatuaggio in passato era appannaggio di un’umanità un po’ ai margini: marinai, prostitute, personaggi del circo. Secondo te il tatuaggio è l’espressione di un disagio?
Più che di un disagio, della volontà di non essere come gli altri, di esprimere la propria diversità in maniera vistosa, manifestandola a tutti sul proprio corpo. E’ la voglia di essere unici, un’esigenza che nasce dall’omologazione. Anche se adesso la maggior parte delle persone è tatuata, la differenza tra chi si tatua per moda e chi è un vero appassionato si vedrà sempre, perché cambia il soggetto, il modo in cui lo porti. Certo, è anche un modo per riconoscersi tra simili. C’è sempre l’esigenza di “fare gruppo”, anche se ci si sente unici. Il bisogno di trovare, in una miriade di persone in bianco e nero, quella colorata come te. Il tatuaggio è un’espressione visiva della propria diversità ma allo stesso tempo un segno di appartenenza a un certo tipo di mondo.

Che ruolo hanno, secondo te, la televisione e il cinema nello sdoganamento del tatuaggio?
Sicuramente hanno reso il fenomeno alla portata di tutti. Ho visto su Sky un reality show sui tatuaggi, Miami Ink, girato in un famoso studio di South Beach.
Un programma come questo porta nelle case della gente nuovi stili, rende note le ultime tendenze in fatto di tatuaggi. Poi vengono da noi ed è quello che ci chiedono.

Capiterà anche che chiedano i tatuaggi di Simona Ventura…
Partiamo dal fatto che io non guardo la televisione, quindi non sono molto aggiornato sui tatuaggi dei vip. Però ti posso dire che se a un certo punto i clienti cominciano a chiedermi tutti lo stesso disegno la cosa si fa sospetta. Un giorno una ragazza mi ha chiesto di tatuarle una corona e io ho anche pensato che fosse un’idea originale. Ma in quella stessa settimana altre persone mi hanno fatto la stessa richiesta e allora ho capito che qualcuno nel mondo dello spettacolo si era tatuato una corona [Simona Ventura, n.d.r.]. Di certo per un tatuatore mettere le mani su una celebrità è molto conveniente, perché a quel punto tutti si vorranno tatuare da te. Il tatuatore di Victoria Beckham aveva uno studio piccolissimo in un paesino della contea dell'Hertfordshire e ora, per aver tatuato tre stelline sulla sua schiena, può chiedere cifre da capogiro per un tatuaggio. Spesso i tatuatori dei vip non sono neanche un granché, ma possono pretendere alti compensi per i loro lavori. Chiaramente non posso fare nomi.

Da vero appassionato di tatuaggi che opinione hai di chi se li fa solo per moda?
Io non posso esprimere giudizi. Per me l’unica cosa che conta è fare un lavoro di qualità. Cercare di dare i giusti consigli, di interpretare il gusto del cliente e di valorizzare la sua idea. E’ chiaro, se qualcuno mi porta un disegno orribile e non è disposto a modificarlo, posso anche decidere di non farlo. Perché anche fatto bene un disegno brutto rimane tale.
E’ soprattutto una questione di onestà e di rispetto nei confronti del cliente, ma anche un discorso di marketing. Un brutto tatuaggio è una cattiva pubblicità.

Quindi ti è capitato di rifiutarti di fare un tatuaggio?
Sì, mi è capitato. Se non sono sicuro che da questo studio esca un lavoro fatto bene non lo faccio. A volte, poi, mi sono stati sottoposti soggetti offensivi che non mi sono sentito di tatuare. In linea di massima cerchiamo di rispettare il gusto di tutti. Tra soci spesso ci scambiamo i lavori, così non siamo costretti a fare cose che non ci piacciono.

Quali sono oggi i soggetti più richiesti?
Le donne, soprattutto quelle che si tatuano per la prima volta, preferiscono tatuaggi piccoli e poco impegnativi, come stelline, lettere, brevi frasi. Le stelle vanno per la maggiore anche tra gli uomini. Gli appassionati, invece, preferiscono i tradizionali americani, dal gusto anni Cinquanta, e i tatuaggi giapponesi.
Entrambi gli stili hanno una lunga storia alle spalle, sono immagini dal gusto eterno, che non passano mai di moda, sempre leggibili e affascinanti.

Un appassionato una volta mi ha detto: “I tatuaggi non devono avere significati e se li hanno poi col tempo li perdono”. Tu sei d’accordo con questa affermazione?
In parte. A volte, però, un significato lo acquistano col tempo. Probabilmente se un disegno ti ha colpito in un determinato momento della tua vita tanto da volerlo impresso sulla pelle, un motivo ci sarà. Magari legato a uno stato d’animo o a un evento particolare. Comunque non necessariamente un tatuaggio deve avere un significato: può anche piacerti e basta, può essere un mero fatto estetico. Si cerca sempre di voler dare una spiegazione a tutto, ma a volte non ce n’è bisogno.

Come si diventa tatuatori?
Quando ho iniziato io, bisognava fare la stessa gavetta che si fa nella bottega di un artigiano. Prima si diventa clienti di uno studio, si cerca di stringere amicizia con un tatuatore e si inizia a seguire il suo lavoro. Si impara piano piano, osservando quello che fanno gli altri e provando sui tuoi amici che fanno da cavie. Una volta conquistata la fiducia del tatuatore, all’inizio ti commissiona delle piccole cose e poi, con il tempo, ti lascia veri e propri lavori.

Non c’è un corso? Non devi avere un attestato?
Negli ultimi anni hanno istituito dei corsi della Regione che, a mio avviso, hanno creato solo danni. All’inizio, infatti, erano destinati a persone che già svolgevano questa attività e servivano semplicemente ad approfondire la parte tecnico-sanitaria. Con il tempo, però, questi corsi sono diventati alla portata di tutti, anche di chi non ha mai preso una macchinetta in mano. Persone che non hanno la minima esperienza hanno preso un attestato che gli ha permesso di aprire uno studio, senza avere alle spalle quell’apprendistato di cui ti parlavo prima.
Io credo che la cosa migliore rimanga sempre la gavetta in uno studio, anche perché, essendo molto dura (e soprattutto non remunerata), serve a farti capire se è davvero questo il mestiere che vuoi fare.

Si guadagna bene?
Direi il giusto, visto che è anche un lavoro di responsabilità. Non stai certo ad imbiancare una parete. Se paragoni il prezzo di una tatuaggio a quello di un paio di pantaloni, ti accorgerai che non costa poi tanto. Considera che è una spesa che fai una volta per qualcosa che ti rimane tutta la vita. Purtroppo tanti per risparmiare preferiscono andare dove si paga di meno a scapito della qualità. Certo, non sempre un tatuaggio costoso è un tatuaggio fatto bene.

Tu ti ritieni un artigiano o un artista?
Mi ritengo entrambe le cose. Tatuare, però, non è come fare un quadro, non solo per una questione tecnica. Io non riverso le miei emozioni o la mia creatività su qualcosa di inanimato come una tela, ma su un corpo vivo. Il cliente è la mia tela.

Il tatuatore deve essere anche un po’ “psicologo”?
Direi di sì. Per aiutare il cliente nella scelta devi capire subito quali sono le cose che gli piacciono, devi osservarlo mentre sfoglia il catalogo e stare attento a cosa lo colpisce, notare le espressioni che ha nel vedere determinate immagini. Molta gente viene qui con un’idea vaga e io devo capire con un’occhiata chi ho di fronte. Non so dirti come avvenga, a un certo punto viene automatico. Il fatto che qualcuno venga nel tuo studio e si affidi completamente a te crea da subito una sorta di legame. Si crea un contatto immediato, tanto che i clienti mi raccontano cose che normalmente non confiderebbero a uno sconosciuto. Il contatto che si instaura è molto intimo, perché è fisico: quando conosco una persona per strada non le metto certo le mani addosso dopo un minuto. Non ho solo un contatto con lei, ma le procuro un dolore, la faccio soffrire. Per fare il tatuatore non devi essere solo una persona empatica, ma anche molto aperta agli altri e alle loro differenze, che non impone il proprio gusto e la propria volontà. E’ un lavoro che non può essere fatto da quelle persone che non si sforzano di capire chi hanno davanti.

E’ possibile fare un identikit del cliente?
Un identikit forse no, ma si possono individuare diverse tipologie. Di solito al primo sguardo capisci subito come catalogare il cliente. A parte i giovani dai 18 ai 30 anni, ci sono anche persone di 40-50 anni. C’è chi, per colpa del lavoro che faceva, non ha mai avuto la possibilità di tatuarsi, poi va in pensione e decide finalmente di farlo; c’è quello che s’è lasciato con la moglie che non glielo lasciava fare e quindi si fa un tatuaggio; c’è quello che dice “le ho fatte tutte, mi manca solo il tatuaggio”; c’è chi, invece, non si era mai tatuato per paura di essere etichettato in un certo modo e, visto che ora le cose sono molto cambiate, decide di farlo. L’altr’anno ho persino tatuato un prete.

Ogni tanto sui giornali si leggono notizie sulle presunte controindicazioni del tatuaggio. Esistono rischi effettivi?
Ho sentito qualcuno dire che i tatuaggi aumentano il rischio di cancro alla pelle, ma probabilmente chi l’ha detto si fuma un pacchetto di sigarette al giorno. La cosa che ho notato è che puntualmente, ogni primavera, giornali e telegiornali danno notizie di persone che si sono ammalate (alcune addirittura sarebbero morte) a causa di un tatuaggio. Anche il divieto fatto ai calciatori di tatuarsi durante il campionato mi sembra esagerato. E’ vero, il tatuaggio è una ferita e come tutte le ferite provoca una risposta immunitaria, quindi debilita il corpo, ma nella misura di una sbucciatura su un ginocchio dopo una caduta, non certo di una ferita da punti.
Per quanto riguarda le malattie, le probabilità di contrarle sono ridotte veramente a zero. Sempre che chi si tatua vada nei posti giusti. Se per un tatuaggio di 20 cm ti chiedono 40 euro qualche domanda te la devi fare. Quindi sta anche al cliente selezionare il posto per limitare i rischi. Le norme d’igiene sono molto precise, le regole da rispettare sono pochissime e molto facili. Una persona che non le segue oltre che a essere un incompetente è anche un criminale. Ma, mi domando, chi è che oggi rischierebbe di ammazzare una persona o di farle contrarre una malattia (e quindi di passare un guaio) per non rispettare delle regole semplicissime? Forse chi si tatua da solo a casa. Dubito che uno studio su strada, che è anche sottoposto a dei controlli, si metta nella condizione di attaccare l’epatite o l’aids a qualcuno. Mi chiedo perché tutta questa paura di contrarre l’epatite non venga quando si va dal dentista. Eppure è capitato che in alcuni studi odontoiatrici gli strumenti non venissero sterilizzati adeguatamente. Ogni tanto parte la caccia alle streghe, perché i pregiudizi sul tatuaggio sono duri a morire.


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