Ritualità, senso di appartenenza, marginalità
e moda. Ognuno di questi aspetti può essere
utile per spiegare un fenomeno che vanta
un’antica tradizione, ma che nel presente
vive ancora. Suscitando ora disapprovazione
e condanna, ora meraviglia e consenso
Una volta l’attore Claudio Amendola ha detto che se «un indigeno si fa il tatuaggio della sua tribù, un romano si fa il Colosseo». Perché da sempre, in tutte le culture, il tatuaggio è stato soprattutto un segno distintivo, un simbolo di appartenenza al gruppo di simili, con i quali si condivide la stessa classe sociale o l’amore per un certo genere di musica. Ma è stato a lungo anche l’impronta della marginalità e della trasgressione, il marchio della diversità e della non-appartenenza al gruppo, l’immagine vistosa della propria diversità.
Se il tatuaggio in molte culture conserva ancora i suoi significati e le sue funzioni primordiali, legate spesso all’ambito della religione e dei riti iniziatici, nella società occidentale è diventato un fenomeno di moda, svuotato dei suoi contenuti simbolici e reso, in molti casi, un puro fatto estetico. Il che crea interessanti interrogativi e paradossali corto-circuiti interpretativi. Come spiegare, ad esempio, il recupero di una pratica così atavica e primitiva da parte di una società tecnologica e avanzata come la nostra? Considerando, inoltre, la natura permanente del tatuaggio e la moda come un sistema in continua evoluzione, come interpretare il legame tra due elementi opposti per definizione?
Il mestiere più vecchio del mondo
Se sulla mummia di Otzi (3300 a.C. circa), scoperta nel 1991 sulle Alpi Venoste, sono stati ritrovati tatuaggi terapeutici, significa che quello del tatuatore è un lavoro parecchio antico. Non sono poche, infatti, le prove che la pratica di decorare in modo indelebile la propria pelle risalga alle origini del mondo. Ovunque, dal vecchio Continente alle Isole dell’Oceania, dall’Asia all’Africa, intere popolazioni hanno tatuato i loro corpi per proteggerli da pericoli e malanni, per combattere gli spiriti malvagi, per guarire dalle malattie, per identificarsi con i propri simili.
Quando il mercante veneziano Niccolò De Conti tornò dal suo viaggio in Birmania nel 1435, raccontò della strana usanza degli indigeni di «pungere la loro pelle con punte di ferro» e di versare in queste ferite «un pigmento indelebile in modo che rimangano pitturati per sempre». Anche Padre Sangermano, missionario in Birmania dal 1783 al 1806, fu molto colpito dalla consuetudine degli abitanti di tatuarsi le cosce, riempiendo le ferite con il succo nero di una pianta. I tatuaggi allora erano ritenuti magici ed avevano prevalentemente una funzione protettiva, quella di tenere lontani nemici, serpenti velenosi e animali feroci. Nel corso dei secoli, però, assunsero anche altre funzioni, come quella di riconoscimento. Il tatuaggio, infatti, permetteva alle famiglie reali di mantenere il controllo sulle origini delle popolazioni che si mescolavano. Anche gli schiavi venivano tatuati sul collo e sui polsi per poter essere immediatamente riconosciuti. Coloro che detenevano l’arte del tatuaggio erano gli “Shans”, maestri che viaggiavano attraverso il Paese seguiti dai loro apprendisti. Dall’età di otto anni, dopo un rito di iniziazione in un monastero, i bambini dei villaggi venivano tatuati e continuavano fino a trentacinque, quarant’anni. Il procedimento era piuttosto doloroso e richiedeva molto tempo, tanto che ai ragazzi veniva dato dell’oppio per alleviare le sofferenze.
Il tatuaggio era una pratica molto diffusa anche tra numerose tribù che abitavano nelle zone interne del Borneo, dove il tatuaggio assumeva significati diversi a seconda del sesso e della classe sociale. Per gli uomini era una dimostrazione di virilità e di eroismo, un talismano contro demoni e malattie; per le donne, invece, era il simbolo di appartenenza alla propria tribù e la garanzia di accesso al regno dei morti. Secondo queste popolazioni, infatti, nell’aldilà i tatuaggi fungevano da “torce” senza le quali gli spiriti avrebbero vagato nel buio totale. I tatuaggi femminili erano tanto più belli ed elaborati quanto più alta era la classe sociale. Le donne venivano sempre tatuate da altre donne: le tatuatrici ricoprivano un ruolo estremamente prestigioso nella società e venivano riccamente ricompensate per la loro attività. Oggi la popolazione più tatuata del Borneo sono gli Iban. Solo dopo aver partecipato al “Bejalai”, un lungo viaggio intrapreso per ottenere prestigio sociale o un profitto materiale, gli Iban possono conquistarsi il diritto di tatuarsi, operazione che di solito ha luogo prima del ritorno a casa. In questo caso, il tatuaggio ha il valore di un trofeo, ottenuto in seguito a un percorso iniziatico verso l’ignoto, durante il quale l’uomo iban acquistava saggezza e conoscenza del mondo.
Per gli abitanti delle isole Marchesi, invece, il tatuaggio aveva una funzione prevalentemente ornamentale. Gli uomini più ricchi potevano permettersi di coprire tutto il corpo di tatuaggi che, con il loro color ardesia, finivano per mascherare la nudità, diventando un vero e proprio vestito. Le donne portavano solo piccoli segni intorno alle labbra e alle orecchie, considerati elementi di estremo fascino e sensualità, tanto che chi non ne aveva veniva rifiutata e disprezzata. I ragazzi cominciavano a tatuarsi intorno ai 15 anni, durante una cerimonia che si svolgeva in una capanna appositamente costruita. Per completare un tatuaggio talvolta ci volevano anni e, tra un intervento e l’altro, potevano passare anche dei mesi. Una volta ultimato, il padre di famiglia organizzava una grande festa per esibire in pubblico il frutto di tanto lavoro.
Anche per i Maori il tatuaggio serviva a decorare e ad abbellire il corpo. Il viso veniva coperto di complessi motivi dalla radice dei capelli al mento e da un orecchio all’altro. Questa ornamentazione era chiamata “moko” ed era praticata soltanto da santoni durante un rituale sacro che aveva lo scopo di proteggere dal male gli spiriti del tatuato e del tatuatore. L’usanza di decorare il corpo era un preciso ed elaborato strumento di comunicazione sociale, attraverso la quale esprimere la casta di appartenenza, l’origine sia materna che paterna e il proprio mestiere. Anche qui il tatuaggio era un elemento dalla forte carica seduttiva, tanto che le donne senza segni tatuati intorno alle labbra non erano considerate attraenti.
In Giappone la tradizione del tatuaggio fiorì in seguito alla nascita della società mercantile e di una cultura borghese. Un benessere diffuso e l’alto tasso di alfabetizzazione della popolazione hanno contribuito allo sviluppo della stampa xilografica, che decretò la diffusione di un genere letterario in cui la prosa si alternava a illustrazioni a pagina piena. Il più famoso esponente di questi libri illustrati è stato Katsushika Hokusai, che raffigurava gli eroi delle sue storie decorati da tatuaggi. Queste figure colpirono a tal punto l’immaginario dei lettori che molti di loro le vollero riprodotte sul proprio corpo. Il tatuaggio giapponese nasce, quindi, come emulazione di quello che Hokusai (e successivamente Kuniyoshi) ha dipinto sui corpi dei suoi eroi. Queste illustrazioni sono state tramandate fino a noi da numerose dinastie di maestri tatuatori, rimanendo intatte nei secoli e sfuggendo alle mutazioni del tempo. Esse sono nate dal pennello di un grande artista, sono state prima immaginate, poi disegnate sulla carta e solo in seguito riprodotte sulla pelle di uomini veri. Di fronte ad un tatuaggio giapponese ci si rende subito conto della differenza anche concettuale rispetto a quello occidentale: non si tratta, infatti, di un disegno su una singola parte del corpo, ma di una decorazione che lo ricopre interamente, seguendone e sottolineandone le linee anatomiche e le simmetrie. Nonostante il governo giapponese nel 1870 abbia dichiarato illegale questa pratica perché ritenuta sovversiva, il tatuaggio continuò a fiorire e a prosperare nell’ombra. Nell’ultimo secolo è stato spesso identificato come simbolo della yakuza (la mafia giapponese), che ne ha fatto un vero e proprio oggetto di culto.
Per le donne Maisin della Nuova Guinea nord orientale il tatuaggio è il simbolo del loro “orgoglio etnico”. Sono tra le poche, infatti, a praticare ancora il tatuaggio facciale per sottolineare l’appartenenza alla propria tribù, per mantenere viva la loro origine in un momento in cui le diverse etnie tendono a fondersi e a perdere ogni identità culturale. La tradizione vuole che le ragazze conservino sulla pelle il ricordo del passaggio dall’infanzia alla pubertà. Il tatuaggio Maisin è praticato solo da donne che realizzano ogni volta un disegno diverso, tracciando linee che enfatizzano i tratti somatici di ogni ragazza.
Nel nord Africa, invece, più che una valenza estetica, i tatuaggi hanno lo scopo di prevenire e di guarire le malattie. Uomini e donne si tatuano una stella a cinque punte per spaventare gli spiriti malvagi o un uccello sulla tempia che protegge dal male. Talvolta piccole linee sottili vengono tatuate per circoscrivere un’area “malata” in modo che non si contamini anche il resto del corpo.
Anche l’Italia vanta un’insospettabile tradizione in fatto di tatuaggi. Fino a poche decine di anni fa capitava di vedere spuntare da sotto le maniche rimboccate dei contadini marchigiani dei tatuaggi bluastri. A Loreto, dove si trova il famoso santuario meta di innumerevoli pellegrinaggi, l’usanza di tatuarsi ha un’origine mistica, legata alla volontà di ricreare sulla pelle le stimmate di San Francesco. I tatuaggi, infatti, venivano fatti sull’avambraccio e sulle mani e riproducevano simboli religiosi di ogni tipo. Le spose si tatuavano come segno di augurio e di promessa il simbolo dello Spirito Santo e le vedove un teschio con le tibie incrociate. Secondo alcuni, il tatuaggio lauretano risalirebbe all’epoca delle crociate, in cui i partecipanti si tatuavano simboli religiosi per distinguersi dagli “infedeli” e per avere una sepoltura ecclesiastica, negata a chiunque morisse di morte violenta senza aver indosso alcun simbolo della propria religione. Questi tatuaggi erano realizzati dai frati del santuario, che utilizzavano degli stampini di legno su cui erano incisi diversi soggetti. In realtà, il mondo cattolico ha sempre mal sopportato questa pratica. Nel 787 d. C., infatti, il tatuaggio era stato vietato: solo in alcuni santuari i frati, nonostante il veto papale, continuavano a tatuare croci e piccoli segni ai fedeli come testimonianza del loro pellegrinaggio.
In Europa il tatuaggio arrivò in seguito alle esplorazioni geografiche del XV secolo, grazie alle quali gli abitanti del vecchio Continente vennero a contatto con quelli dei Paesi conquistati. Nei secoli questa pratica si diffuse tra tutte le classi sociali, tanto che da Re Giorgio V allo Zar Nicola di Russia, molti esponenti della nobiltà europea ne subirono il fascino. I primi tattoo shop risalgono alla metà dell’Ottocento e si svilupparono dapprima in Inghilterra, poi in Olanda, Germania e Danimarca. A tatuarsi erano soprattutto marinai, membri dell’Esercito e personaggi del circo.
Tatuaggio e marginalità
Il criminologo Cesare Lombroso, dopo aver studiato i tatuaggi nelle carceri e negli ospedali, concluse che essi fossero un simbolo di rivolta e di asocialità, ostentati da personalità violente, vendicative e capaci di azioni estreme. Chi aveva commesso un crimine sembrava volerlo pubblicizzare sul proprio corpo, dichiarando un’appartenenza a un gruppo che condivideva gli stessi valori, come, ad esempio, la vendetta. Secondo Lombroso, queste prerogative potevano essere estese in generale a tutte le persone tatuate, derivandone la convinzione che il tatuaggio fosse il segno di un’umanità ai margini, crudele e non curante della legge. Addirittura, notando la diffusione del fenomeno tra le prostitute, Lombroso affermò che il tatuaggio era il «segno dell’inferiorità sociale delle donne».
In realtà, il tatuaggio è stato in molte epoche e culture anche un marchio d’infamia, un segno di prigionia e di schiavitù. Plinio e Svetonio, ad esempio, scrivono della pratica in uso a Roma di marchiare gli schiavi con le iniziali dei loro proprietari, che potevano cambiare nel caso questi fossero venduti ad un’altra famiglia. La stessa pena venne inflitta anche a molti martiri cristiani, quando nell’Impero Romano la loro religione era ancora considerata illegale. Più recentemente, durante la monarchia francese, i criminali venivano marchiati a fuoco con un “giglio di Francia” sulle spalle; in un secondo momento, per distinguere il tipo di reato, venne elaborato un sistema di marchiatura per individuare ladri (V, voleur), mendicanti (M) e galeotti (Gal). Anche nella Russia imperiale i criminali venivano tatuati sulle guance o sulla fronte con una scritta che indicava il reato di cui si erano macchiati: Bop (ladro) e Kat (ergastolano). In Inghilterra, invece, i disertori venivano marchiati con un ferro rovente, pratica che rimase in uso fino al 1842. Non stupisce, quindi, che si sia radicata nell’immaginario collettivo l’associazione del tatuaggio a un’umanità ai margini, costretta a vivere in condizioni di degrado, che non trova un posto nella società dalla quale si sente rifiutata.
Moda e contro-moda
Negli ultimi anni il tatuaggio sembra essersi scrollato di dosso la sua brutta reputazione e la gran parte dei pregiudizi che lo accompagnavano, conquistandosi un consenso sempre più diffuso. Grazie ai mass media, ai quotidiani e alle riviste specializzate si è sviluppata anche in Italia una cultura del tatuaggio: molte persone ne hanno approfondito la lunga storia e la tradizione, i diversi stili e le tecniche. Accanto a questa schiera di appassionati, se ne è sviluppata una molto più ampia, quella di coloro per i quali il tatuaggio è una semplice moda, l’adesione passeggera a un look che fa tendenza. Si tratta di consumatori più infatuati che convinti, che spesso non azzardano più di piccoli disegni facili da nascondere. Un fenomeno ambivalente, quindi, in parte legato alla riscoperta di una cultura, in parte alla moda. Numerosi esperti, sociologi, filosofi e psichiatri si sono interrogati per tentare di dare una spiegazione alla rivalutazione di questa pratica antica e primitiva, a lungo screditata da una forte condanna sociale e ora così diffusa tra giovani e meno giovani, di entrambi i sessi e di ogni estrazione sociale. Per tutti è chiara la forte componente rituale del tatuaggio, che si conserva anche nei tattoo studios delle città moderne, dove si cerca ancora di riprodurre e reinventare quell’atmosfera cerimoniale, un po’ sacra e un po’ magica, che contraddistingueva l’esecuzione del tatuaggio nelle società primitive. In tal senso, anche il tatuatore moderno conserva le prerogative del suo ruolo, rimanendo una sorta di guida che aiuta il cliente nell’opera di svelamento del sé, nella ricerca del segno che possa riassumere o simboleggiare un evento importante della sua esistenza, il passaggio da una fase all’altra della vita, la sua personalità e le sue aspirazioni. Sulla pelle si cerca, allora, di scrivere una risposta alla domanda che prima o poi ognuno di noi si pone: chi sono io? Una domanda che nella nostra società, povera di certezze e di stabilità, si fa ancora più urgente. Nonostante il rito moderno del tatuaggio sia un’iniziazione di carattere privato che non comporta l’assunzione pubblica di un ruolo all’interno di un intero sistema sociale, ma che può coinvolgere al massimo un ristretto numero di persone vicine o un gruppo di riferimento, esso rimane un potente mezzo per affermare la propria identità, per sottolineare la comunanza con un determinato gruppo e la distanza da altri. Trasportata nella nostra società, la pratica del tatuaggio sembra conservare alcune delle sue prerogative primordiali, quelle legate alle paure dell’uomo, soprattutto quella dell’indefinibile. Unico rifugio dalla minaccia dell’ignoto è la forza simbolica del sacro, che oggi il gesto del tatuarsi ancora in parte conserva.
In realtà, il fenomeno del tatuaggio può essere ascritto anche a quel filone dell’arte contemporanea chiamato body art, nel quale centrale è la modificazione e l’alterazione del corpo, nuovo oggetto della riflessione artistica. Oggi il corpo è liberato dalle inibizioni e dai tabù dei secoli passati, diventato oggetto di consumo e di investimento nella estenuante ricerca della sua perfezione. Nel flusso continuo di variazioni della nostra società, il tatuaggio sembrerebbe contrastare la scomparsa e la dissoluzione che minacciano il corpo, preservandone le capacità comunicative. Variazioni che intaccano anche il sistema della moda, fondata proprio sul cambiamento, ma ormai statica, ridotta a mero revival. Il tatuaggio, come tutte le pratiche di alterazione corporea, potrebbero rappresentare anche una forma di reazione a questa diffusa tendenza di cambiamento continuo.
Non solo moda, quindi, ma anche contro-moda.
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