Questa frase delle Ecclesiaste è citata
come punto di riferimento dei movimenti
ecologisti ebrei e israeliani. L’impegno
per la difesa della natura è variamente
condiviso in quasi tutte le fedi
religiose, però con una tendenza
al disinteresse nelle correnti più conservatrici
Come può lo 0,2% della popolazione del pianeta arrivare a salvarlo? Questa inusuale quanto interessante domanda è riportata nel sito Bigreenjewish, portale di un’organizzazione britannica il cui scopo è connettere le tematiche legate all’ebraismo a quelle ambientali. “Dobbiamo essere brutalmente onesti riguardo alla possibilità che la comunità ebraica mondiale possa fare la differenza nella protezione dell’ambiente. Gli ebrei sono circa lo 0,2% della popolazione mondiale. Se tutti gli ebrei del mondo riciclassero i loro giornali non farebbe nessuna differenza. E nemmeno se tutte le sinagoghe del mondo si alimentassero ad energia solare o se tutti gli ebrei passassero alle auto ibride. Noi, come ebrei, non possiamo con il nostro cambiamento individuale modificare la situazione. Ma quello che possiamo fare e che abbiamo sempre fatto, è giocare un ruolo vitale nel modificare il modo di intendere la natura umana sul nostro pianeta. Non solo possiamo, ma assolutamente dobbiamo”.
La risposta, onesta quanto rivelatrice, di Nigel Savane, fornisce spunti di riflessione su una realtà ben poco conosciuta. L’attivismo delle comunità ebraiche per la difesa dell’ambiente. Un attivismo a tutto campo che va da Israele alla diaspora, dai gruppi religiosi a quelli laici e, a ventaglio, attraversa tutte le varie aree dell’ambientalismo. Gli ebrei, considerati come gruppo etnico e religioso, sono i più impegnati in assoluto nella salvaguardia dell’ambiente. Non che siano gli unici. Un po’ ovunque esistono gruppi interreligiosi che si occupano della salvaguardia del creato. Usando terminologie teologiche e facendo chiari riferimenti ai testi sacri, diverse associazioni lavorano sul terreno con i propri fedeli al fine di sensibilizzarli alle tematiche ambientali.
Divisi su praticamente tutto, i rappresentanti delle singole religioni sono almeno uniti, pur con varie sfumature, nella difesa del creato. Il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, si è conquistato l’appellativo di patriarca verde dalla stampa per il suo instancabile impegno ecologico. Elliott Norse, presidente del Marine Conservation Biology Institute, ha dichiarato di essere “entusiasmato perché come scienziato non vengo ascoltato, ma quando il patriarca parla, c’è la notizia”. Secondo il Christian Scienze Monitor, la scuola teologica ortodossa nell’isola turca di Halki conduce di continuo seminari sull’ambiente per i preti ed i rappresentanti delle varie chiese ortodosse autocefale dell’Europa dell’Est.
L’impegno verde tra i cristiani non è però uniforme. Se a livello di dichiarazioni di intenti c’è in linea di massima una comunanza di vedute, a livello di azioni concrete sussistono delle grandi disparità. Le Chiese evangeliche, sia negli Stati Uniti che altrove, sono talmente ossessionate dal proselitismo e dall’attivismo antiaborista, antigay e per l’intromissione della religione nella vita pubblica, che l’ambiente sembra, al momento, essere l’ultima delle preoccupazioni di questi gruppi religiosi sparpagliati quanto numerosi e potenti. Interessante è la diatriba interna alla Christian Coalition, organizzazione conservatrice Usa, avvenuta nel 2006. Sia il Washington Post che il Los Angeles Times hanno riferito che il reverendo Joel Hunter, che avrebbe dovuto prendere le redini dell’associazione, aveva rifiutato l’incarico perché il consiglio direttivo si era rifiutato di inserire l’ambiente tra le priorità di azione del gruppo. Il disinteresse nei confronti delle tematiche ambientali, al massimo mostrato sotto forma di dichiarazione di circostanza, sembra essere una costante di tutti i gruppi religiosi conservatori. Anche la Chiesa cattolica, molto presente sulla scena mediatica a causa delle battaglie su temi etici, molto raramente si esprime invece in chiave ambientalista. Non che le prese di posizione del Vaticano o dei vari cardinali e vescovi siano contrarie alle aperture verdi, ma la rarità e la scarsa fermezza delle stesse mostra semplicemente come la natura non sia la preoccupazione principale della Chiesa cattolica.
Altre grandi religioni, come il buddismo e l’induismo, non hanno ancora sviluppato un attivismo ambientalista al loro interno, se non in minima parte. Questo però potrebbe essere dovuto al fatto che le nazioni asiatiche, in cui si concentrano la maggioranza degli aderenti a queste fedi, non hanno ancora maturato piena coscienza dei pericoli dell’effetto serra. Anche il mondo islamico non sembra mostrare grande attenzione alle tematiche ambientali. E dire che, ad esempio, gran parte del mondo arabo e musulmano si trova in zone geografiche molto soleggiate e potenzialmente ottime per lo sviluppo su larga scala dell’energia solare. Se le moschee facessero campagne educative di massa nei vari ambiti ambientali per generare cambiamento di stile di vita, si avrebbero davvero dei miglioramenti importanti su larga scala, visto il numero enorme di fedeli dell’Islam. Questo purtroppo non sta accadendo. La manipolazione ai fini politici della religione islamica continua massicciamente con il solo scopo di infondere odio e disprezzo nei confronti del mondo occidentale, quando non di inneggiare apertamente alla guerra santa. Con buona pace degli impianti a biomasse o dell’agricoltura biodinamica.
Ci sono, per fortuna, alcune eccezioni. Come alcuni piccoli gruppi islamici ambientalisti in Indonesia o i vari programmi legati all’energia solare in diversi villaggi arabi musulmani in Israele. Se evangelici, cattolici ed islamici fanno ben poco in materia di attivismo ambientalista l’impegno in tal senso delle chiese protestanti è lodevole. Le Chiese anglicane in Canada, negli Stati Uniti ed in Europa hanno preso molto sul serio la questione. Lanciando programmi per rendere le parrocchie verdi, creando piccoli orti biologici gestiti dalla comunità, installando pannelli solari che procurano energia elettrica alla chiesa o sensibilizzando al riciclo dei rifiuti. La Chiesa d’Inghilterra ha lanciato la campagna Shrinkingthefootprint il cui obbiettivo è di ridurre del 40% entro il 2050 le emissioni di gas serra dagli edifici di proprietà della Chiesa. Inoltre, grazie al privilegio di essere Chiesa di Stato, la Chiesa anglicana ha cominciato ad essere una spina nel fianco di Downing Street, promuovendo l’importanza e l’urgenza di politiche tese alla riduzione dell’effetto serra. La Chiesa di Svezia, di confessione luterana, conduce azioni di sensibilizzazione tese a rafforzare nella popolazione la coscienza dell’importanza dell’acqua, malgrado questo non sia ancora un problema concreto in Svezia. In Norvegia i vescovi luterani delle diocesi costiere hanno espresso la loro inquietudine per l’aumento dell’inquinamento dei mari e le relative ripercussioni sulla via delle comunità locali in un documento inviato al governo.
Negli Stati Uniti, Katherine Jeffers Schori, vescovo presidente della Chiesa episcopale, ha implorato il Senato di “creare il più presto possibile leggi che favoriscano azioni di contrasto ai cambiamenti climatici”. In seno alle Chiese della riforma non solo l’attivismo verde è attivo ma sembra quasi ci sia una positiva competizione tra le varie chiese a chi agisce di più sul terreno.
Altrettanto, se non di più, si può dire per il mondo ebraico. Secondo il Jewish Journal il padre dell’ambientalismo ebraico può essere considerato il rabbino Everett Gendler. Nel novembre del 1978 Gendler è salito sul tetto del Temple Emanuel a Lowell, Massachussets per installare un pannello solare che procurasse energia al ner tamid, la luce eterna dentro la sinagoga. Da allora ci sono stati timidi segnali di apertura alle tematiche ambientali. Ma l’anno che ha segnato la svolta in seno al mondo ebraico è stato il 1992, anno che ha visto lo svolgersi della Conferenza dell’Onu su ambiente e sviluppo a Rio de Janeiro. L’anno seguente è nata la Coalition on the Environment and Jewish Life, una coalizione il cui scopo è creare una risposta ebraica alle tematiche ambientali come le energie rinnovabili, l’inquinamento e la diversità delle specie animali e vegetali. La coalizione ha creato anche il programma Greening Sinagogues il cui scopo va ben oltre il rendere i templi ebraici ecosostenibili. Barbara Lerman-Golomb, direttrice esecutiva associata, ha dichiarato di operare affinché la difesa dell’ambiente “venga percepita come una cosa etica, morale ed ebraica da fare”. La protezione della natura appare citata, direttamente o indirettamente, in diversi testi ebraici. E questo offre una legittimazione di natura teologica all’attivismo verde. Non si tratta però di mere questioni spirituali. Secondo Lee Wallach, co-fondatore della sezione della California meridionale della Coalition on the Environment and Jewish Life, una sinagoga può risparmiare dai 10.000 ai 40.000 dollari all’anno attraverso pratiche di risparmio energetico.
L’entusiasmo e l’impegno ambientalista non sono però onnipresenti in seno al mondo ebraico. La corrente ortodossa, al momento, non sembra condividere lo stesso interesse delle controparti conservative, reform e recostruzionista. Anche in questo caso sembra valere la regola per cui più una religione o una corrente religiosa è conservatrice, meno si interessa all’ambiente.
Ad onor del vero qualcosa comincia a muoversi in tal senso in seno al mondo ebraico ortodosso. Canfei Nesharim, che in ebraico significa le ‘ali delle aquile’, è la prima ed unica organizzazione ambientalista ebraica ortodossa. Lanciata nel 2003, l’associazione di recente è stata selezionata tra i 50 gruppi ebraici più innovativi da Slingshot, guida curata da giovani filantropi ebrei. Per sensibilizzare le sinagoghe ortodosse alle tematiche ambientali gli attivisti di Canfei Nesharim citano una frase della Ecclesiaste che Dio avrebbe detto nel giardino dell’Eden ai primi umani: “Prendetevi cura del mio mondo e non corrompetelo o distruggetelo, perché se lo fate non ci sarà nessun altro a ripararlo dopo di voi”.
L’ambientalismo verde ebraico comunque fonda le sue basi su una realtà preesistente di impegno sociale delle comunità ebraiche. Se le teorie legate alla cospirazione vedono ebrei concentrati nei luoghi di comando politici ed economici, attribuendo loro la missione segreta di controllo del mondo intero, c’è una realtà ben diversa e poco conosciuta. Se c’è un numero sproporzionatamente elevato di ebrei, questo si concentra nei gruppi umanitari, o nei movimenti contro la povertà. O ancora in seno al movimento delle donne. Tikkun Olam. In ebraico ‘riparare il mondo’. Un detto pensato e vissuto. Concretamente. Ad esempio dagli studenti universitari ebrei organizzati dai vari centri Hillel che hanno partecipato in gran numero alle attività di ricostruzione a New Orleans del dopo Katrina. O dai giovani ebrei in Sudafrica che portano assistenza alle famiglie nere che vivono in estrema povertà nelle townships, come ha ricordato Ruth Messinger, presidente dell’American Jewish World Service al Jewish Telegraphic Agency . In Messico le comunità indigene ricevono assistenza per la gestione sostenibile delle risorse acquifere, in El Salvador le donne rurali vengono aiutate ad apprendere tecniche di agricoltura sostenibile. In India donne che possiedono la terra vengono aiutate ad apprendere una gestione ecocompatibile.
Sono fra i tanti progetti, finanziati all’Ente umanitario ebraico e destinati ai Paesi in via di sviluppo, tesi a conciliare l’indipendenza economica, la lotta alla povertà e il rispetto per l’ambiente.
L’attivismo ebraico per la giustizia sociale è molto importante. Organizzazioni come la Progressive Jewish Alliance, la Jewish Community Action o la Jewish Council for Urban Affairs solo per citarne alcune, lavorano incessantemente per i diritti dei lavoratori, per programmi a favore dell’infanzia, per allargare l’assistenza sanitaria e, non ultimo, per preservare l’ecosistema. Infatti una, se non la più importante branchia della giustizia sociale, è la giustizia ecologica. L’impronta verde ai programmi sociali riveste un’importanza particolare proprio per le ramificazioni sulla vita degli individui in termini di salute ed economici che ha la natura. Il fatto che l’essere umano e la natura siano interconnessi più strettamente di quanto a prima vista non si immagini è ormai un assunto che solo i conservatori che si rifiutano di credere al riscaldamento globale rifiutano di accettare. Le miriadi di iniziative sociali ebraiche sono letteralmente esplose negli ultimi dieci anni al punto che la University of San Francisco ha creato di recente un corso ad hoc dal titolo The Swig Program in Jewish Studies and Social Justice.
La panoramica dei gruppi ebraici ambientalisti è enorme. E va oltre i confini degli Stati Uniti. Il Jewish Nature Center of Canada promuove l’attivismo anbientalista sul terreno. Attraverso campagne per la riduzione di prodotti chimici per la pulizia delle case o organizzando orti comunitari biologici. Alcune organizzazioni abbracciano uno spettro ampio di cause ambientaliste. Come Hazon, in ebraico ‘visione’, famosa per le corse ciclistiche a New York ed in Israele, e per il blog vegetariano Jewcarrot. Vegetariani, vegan o onnivori, gli ebrei sempre di più mangiano biologico. Un biologico ovviamente kasher. Hazon è anche all’origine del primo gruppo specificatamente ebraico di agricoltura sostenuta dalla comunità urbana; una nuova forma di mercato in cui le famiglie pagano in anticipo per i prodotti freschi provenienti direttamente dal produttore.
Altri gruppi si occupano di settori mirati. Come il Jewish Climate Initiative che combina consigli pratici all’attivismo politico. O la Jewish Farm School il cui scopo è promuovere le opportunità per far riscoprire agli ebrei il lavoro della terra e la produzione del cibo. Rigorosamente in modo biologico. Simcha Schwartz, co-direttore della fattoria, intende rivoluzionare l’educazione ebraica offrendo esperienze manuali e creative a diretto contatto con la natura. Da notare anche la frequenza e la qualità di articoli, interviste ed editoriali che appaiono sulla stampa ebraica e che trattano dei temi ambientali. Non passa settimana senza che The Forward, Canadian Jewish News, The Jewish Press, solo per citarne alcuni, non affrontino l’argomento. La tematica ambientalista pervade anche pubblicazioni specifiche, come Lilith, periodico delle femministe ebree, che lo scorso autunno ha dedicato un’inchiesta all’impegno multiforme delle donne ebree ambientaliste. E non esiste federazione ebraica o Ente filantropico che non abbia, anche solo parzialmente, progetti o programmi legati in qualche modo all’ambiente.
La galassia ambientalista ebraica è comunque supportata, anche se indirettamente, dagli Enti istituzionali degli ebrei. Come il Jewish Council for Public Affair, che, solo per fare un esempio, si batte affinché ci siano degli studi sugli effetti nocivi per la salute derivanti dall’inquinamento. Hannah Rosenthal, direttrice esecutiva dell’associazione, ha tenuto a ricordare, in merito alle audizioni al Congresso Usa relative alla possibilità di trivellamento in Alaska, che “non si dovrebbe cercare di aumentare l’indipendenza energetica trivellando alla ricerca di petrolio o di gas in aree sensibili dal punto di vista ambientale”.
Su un fronte di natura più politica l’American Jewish Congress lo scorso giugno si è complimentato con Barak Obama per la sua piattaforma in materia di politica energetica. Il senatore, candidato alla presidenza per il partito democratico, aveva dichiarato all’American Israel Political Action Commitee: “E’ ora che gli Stati Uniti intraprendano azioni concrete per mettere fine alla nostra dipendenza dal petrolio, e possiamo unirci ad Isreale, basandoci sul U.S.-Israel Energy Cooperation Act, per approfondire la nostra partnership nello sviluppo delle energie alternative attraverso l’aumento e la collaborazione della ricerca”. Sulla base del fatto che i petroldollari finanziano l’estremismo ed il terrorismo di matrice islamica, minaccia numero uno nei confronti della sicurezza di Israele, le Istituzioni ebraiche spingono a gran voce per una svolta verde da parte dell’Amministrazione statunitense. La cooperazione tra Israele e gli Stati Uniti in materia di sviluppo di energie rinnovabili, grazie all’investimento di oltre 140 milioni di dollari in sette anni, offre un grande aiuto allo sviluppo dell’industria delle energie pulite in Israele e al contempo promuove la ricerca che può essere utile agli Stati Uniti per liberarsi della schiavitù del petrolio.
Non che in Israele stiano con le mani conserte. Secondo il Jewish Global Environment Network, mentre le questioni legate alla sicurezza dello Stato di Israele hanno la predominanza sui media, le questioni sociali ed ambientali non sono certo di scarso rilievo. Per questo il movimento ambientalista ebraico è aumentato esponenzialmente nell’ultimo decennio e lotta contro gravi problemi, in primis la scarsità di acqua potabile e l’inquinamento urbano. E come nella diaspora anche in Israele l’attivismo ambientalista è in piena espansione. Sicuramente occorre ricordare il fenomeno dei Kibbutz, risultato del lavoro e del pensiero dei primi sionisti arrivati nello Stato ebraico. Pur con delle trasformazioni, i kibbutz sono tuttora un elemento centrale nel panorama israeliano. Abbondano però anche altre realtà. Come Greenprophet, blog ambientalista che unisce la riflessione ai consigli per il cambiamento di comportamento in senso ecologico. O i vari gruppi finanziati dal New Israel Fund, un Ente filantropico ebraico statunitense che finanzia molti progetti ambientali tra cui Green Course – Students for the Environment, The Heschel Center for Environmental Learning and Leadership o ancora la Israel Union for Environmental Defense.
La spinta verso lo sviluppo delle energie rinnovabili ha sicuramente anche una matrice politica legata alla particolare situazione di Israele. I regimi teocratici islamici che circondano lo Stato ebraico, incluso l’Iran, avrebbero meno proventi se le energie rinnovabili, in primis quella solare, avessero un impulso importante. Non c’è da stupirsi se Al Gore, nel corso di una conferenza a Tel Aviv la scorsa primavera per ricevere il Dan David Award, dopo aver bacchettato i politici israeliani perché non aveva visto un uso massiccio dell’energia solare pur in una terra così assolata, ha ricordato che le energie alternative sono “buone per gli ebrei”. Proprio alla stessa conferenza Benjamin Ben-Eliezer, ministro israeliano delle Infrastrutture, ha annunciato l’intenzione da parte del governo di varare un piano per arrivare al 20% di energie rinnovabili su scala nazionale entro il 2020.
In attesa delle mosse del governo, dalla base arrivano già progetti sostanziosi. Con un occhio al deserto del Neghev, zona che potrebbe diventare luogo per centrali solari di vaste dimensioni. Yossi Abramowitz, presidente di Arava Power, società che si occupa dello sviluppo del solare in Israele, sostenuta in parte dalla comunità ebraica di Toronto, intende installare oltre 60.000 pannelli solari nei deserti israeliani che riforniranno di energia il 5% del fabbisogno giornaliero in Isreale. A coniugare la difesa dello Stato ebraico alle azioni ecologiste c’è anche la Green Zionist Alliance che può essere definita l’anima verde del mondo sionista. Un’unione di intenti che per altri è anatema. Il Green Party degli Usa, ha varato, lo scorso novembre, una risoluzione tesa al disinvestimento da Israele. Audrey Clement, attivista ebrea del partito, è intervenuta alla sezione di Washington dei verdi per protestare quello che è “antisemitismo subliminale”. Tenendo conto che Israele ha, tra l’altro, la politica ambientale migliore tra tutti i Paesi mediorientali, e che pianta più alberi di quelli che consuma, rimane davvero paradossale e sconcertante l’aver reso Israele oggetto unico di un’azione di disinvestimento. La protesta della Clement e di altre organizzazioni ebraiche hanno cercato invano di correggere un madornale errore. La candidatura di Cynthia McKinney, ex-democratica e famosa per le sue prese di posizione furiosamente anti-israeliane, alla presidenza Usa da parte dei verdi non promette bene. E mostra la totale incoerenza da parte di movimenti che, pur dichiarandosi pro-ambiente, non applicano certo la discriminante ambientale come metro di giudizio.
Rimane da sperare che lo 0,2% della popolazione mondiale continui la sua lotta contro i cambiamenti climatici e per il rispetto della natura con la stessa passione con cui lo fa ora. Fornendo un esempio positivo agli altri. O, almeno, a quelli che hanno a cuore la natura e che sono completamente liberi da qualsiasi pregiudizio antiebraico. Pregiudizio che, forse, potrebbe essere ridotto se il movimento ebraico ecologista, che potremmo definire movimento eco-kasher, fosse meglio conosciuto.
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