L’elezione di Barack Obama ha suscitato
un diffuso consenso nell’opinione pubblica
europea dovuto alla novità epocale
che essa rappresenta per gli Stati Uniti
e per il mondo. Ovviamente non mancano
gli interrogativi, alcuni dei quali
ci riguardano molto da vicino
A pensarci bene, nell’elezione di Barack Obama l’elemento più innovativo non è il fatto che si tratti di un afro-americano. Anche perché afro-americano Obama lo è solo etimologicamente, nel senso che suo padre era un cittadino del Kenia andato con una borsa di studio all’Università delle Hawaii dove aveva conosciuta, e sposata, sua madre, una cittadina americana, bianca. Nella sua genealogia non vi è traccia di antenati schiavi, come è regolarmente il caso per i “veri” afro-americani. E comunque, prima di lui, Colin Powell e Condoleeza Rice, entrambi neri e repubblicani, avevano diretto il Dipartimento di Stato, appena un passo dietro la presidenza, e a volte, nel caso della Rice, un passo avanti. Certo, la novità sta anche nel colore della pelle di Obama, o piuttosto nel fatto che quel colore abbia costituito un fattore positivo, una sorta di marchio di garanzia per le due parole chiave dell’Obamapensiero, “Change” e “Hope”.
Cambiamento e speranza, perché “Yes, we can”, uno slogan inventato dal giornalista del Chicago Tribune David Axelrod, che a Obama non piaceva molto perché gli sembrava eccessivamente pretenzioso. Barack Obama sa usare le parole come pochi, ma alla fine resta attaccato alla realtà dei fatti. “Un idealista pragmatico”, è stato definito, qualsiasi cosa questo voglia significare.
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Non vi è dubbio che la prima carta vincente del candidato democratico sia stata George W. Bush. Un presidente che si è trovato davanti a situazioni tanto più grandi di lui, affrontate e gestite in modo dissennato. Da Bush e dal suo staff, soprattutto dal vicepresidente Dick Cheney, che aveva letteralmente fatto carte false per scatenare – contro il parere della stessa Cia – il disastroso conflitto iracheno millantato come un passo indispensabile nella “guerra al terrorismo”. Con il chiodo fisso dei favolosi giacimenti petroliferi di quel Paese, Cheney e i suoi avevano ignorato due punti fondamentali: primo, il terrorismo di al-Qaeda in Iraq non aveva alcuna base d’appoggio, ma anzi era tenuto rigorosamente al bando; secondo, la caduta di Saddam Hussein avrebbe da una parte ridestato la rivalità tra sciiti e sunniti, e dall’altra aperto la strada alle ambizioni egemoniche dell’Iran degli hayatollah. Risultato: al-Qaeda era riuscita a inserirsi nella sanguinosa baraonda irachena, e quanto all’Iran, tutti possono vedere qual è la situazione. Il senatore dell’Illinois Barack Obama si era dichiarato contrario alla guerra in Iraq, e questo ovviamente ha giocato a suo favore, anche durante la competizione per la “nomination” con Hillary Clinton.
Ma la crisi economica, culminata nel crollo finanziario di Wall Street, è stato l’elemento decisivo. Il cittadino americano medio avrebbe anche potuto sopportare la frustrazione di un secondo “dopo Vietnam” (un’altra guerra assurda, distrattamente iniziata, è bene ricordarlo, dall’osannato John F. Kennedy, e drasticamente risolta dai repubblicani Richard Nixon e Gerald Ford), ma si è sentito perso davanti a un drastico ridimensionamento del suo livello di vita, con la minaccia concreta di una caduta nella povertà. Perdita del lavoro, della casa, di tutto. Altro che “american dream”.
Che cosa aveva, che cosa ha da offrire Barack Obama? Una “new Way”, una nuova strada da percorrere. Al suo avversario, il bravo e onesto John McCain, il settantaduenne eroe del Vietnam (che pessima idea insistere nel ricordare quella guerra!) restava incollata l’etichetta della vecchia strada di Bush e compagni, volente o nolente. Diciamo nolente, dato che McCain da tempo non nutre la minima simpatia per Bush jr, e il quartier generale repubblicano è stato d’accordo che il presidente doveva stare alla larga: con un inatteso colpo di humour, George W. aveva ribattuto parlando con i giornalisti: “Se serve, farò campagna contro di lui”. Divertente, ma non esattamente un clima da vittoria annunciata. Poi a McCain, che ha una meritata fama di “liberal” ecologista e laico - troppo per i neocon e i bigotti delle Chiese evangeliche -, era stata affiancata Sarah Palin, tutta “Dio e fucile”, e trivellazioni petrolifere in libertà nella sua Alaska, l’ex miss che malgrado la sua avvenenza faceva pensare a una riedizione di Terminator in chiave femminile. Proprio mentre il vero Terminator, Arnold Schwarzenegger, governatore repubblicano della California, prendeva le distanze dal suo partito promuovendo una politica rigidamente di difesa dell’ambiente. E il carismatico Colin Powell mollava il Grand Old Party per dichiarare il suo sostegno al candidato democratico. In tale situazione, poteva vincere McCain? E, di conseguenza, poteva perdere Barack Obama?
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Il web ha pesato, e molto. Con il suo sito - www.barackobama.com - che gli ha permesso di raccogliere voti e soldi, una buona fetta dei 700 milioni di dollari entrati nelle casse della sua campagna, con un’ondata costante di elargizioni da 10, 20, 90 dollari. E la propaganda capillare, interattiva, condotta sui Social Network, Facebook, You Tube, Myspace, per la prima volta diventati protagonisti della battaglia politica, alla pari con i paludati opinionisti dei giornali e dei talk-show televisivi. Tra gli strateghi della campagna di Obama ai primi posti c’era Chris Hughes, 24 anni, uno dei fortunati creatori di Facebook. Anche questo è stato visto come un segnale di novità di cui tenere conto. Non solo negli Usa, naturalmente.
E dire web significa, in primo luogo, dire giovani. Sono loro a seguirlo quasi maniacalmente, a preferirlo alla tv, una scatola autoreferenziale che lasciano volentieri agli “anziani” troppo stanchi e sfiduciati per entrare nel grande girone del dialogo telematico. Obama lo ha capito, o qualcuno glielo ha fatto capire, e i giovani hanno fatto la differenza: il 68% dei nuovi elettori ha votato per lui.
E i neri, ovviamente, gli afro-americani che si sono sentiti gratificati nell’identificarsi in questo senatore di 47 anni, laureato alla Columbia University e a Harvard, professore universitario, avvocato brillante e combattivo, aitante, dotato del fascino misto di un predicatore e di una star del rock. Non un afro-americano, si è detto, secondo la vulgata tradizionale, ma un autentico africano dal ramo paterno, e un autentico americano da quello materno, e dalla nascita nelle sempre suggestivamente esotiche Hawaii. Una figura unica, e nello stesso tempo coinvolgente. Per tutti, per i latinos, per gli asiatici, per ogni minoranza che ha sempre visto ai vertici esponenti della casta Wasp, White anglo saxon protestant. Anche John F. Kennedy, che era cattolico di origini irlandesi, in realtà apparteneva a quella casta, per la ricchezza e il prestigio del nome. E Obama ha forse pensato a questo scegliendo come vicepresidente Joe Biden, anch’egli cattolico. Un connotato che negli Usa non ha lo stesso significato e peso che in Europa, e in particolare in Italia.
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A parte la grande maggioranza dei “grandi elettori” dei singoli Stati, Obama ha ottenuto il 52% dei voti popolari, un dato rarissimo nella storia delle elezioni presidenziali americane. Ma, stando ai sondaggi, se a quelle votazioni avessero partecipato i cittadini europei avrebbe ottenuto l’80%, e forse più. Che cosa significa? Beninteso ogni politico, di governo e no, lo ha interpretato pro domo sua, e pochi hanno resistito alla tentazione di identificarsi in qualche misura con il nuovo astro. Anche quelli che per otto anni avevano entusiasticamente aderito a tutte le iniziative di George W. Bush. Tralasciando questi risvolti in fondo di scarso rilievo, è evidente che buona parte dell’opinione pubblica della vecchia Europa ha visto - o ha voluto vedere - in Obama un personaggio completamente nuovo, un americano simpaticamente anomalo, adeguatamente misterioso, diverso - almeno in apparenza - dai leader di tutte le sponde politiche e geografiche.
E allora, “hope” e “change” per tutti? Ora che Barack Obama è stato, trionfalmente, eletto alla suprema carica degli Stati Uniti, e in una larga misura del mondo intero, ha inizio la verifica, o meglio, hanno inizio una serie di verifiche sulle quali sarebbe difficile avanzare delle previsioni esatte, ma che certamente riserveranno interessanti sorprese.
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“America first”, anzitutto gli interessi dell’America. Uno slogan antico, sempre al primo posto nel decalogo del patriottismo di marca Usa, che però Obama completa aggiungendo “… e degli americani”. Vale a dire, non solo dei potentati industriali e finanziari, della top class, di quelli che ce l’hanno fatta, ma anche dei ceti che da sempre sono rimasti ai margini del potere e del benessere. Una ridistribuzione della ricchezza, programma finora tabù in una nazione dove l’iniziativa individuale è sempre stata vista come il perno del successo. E maggiori garanzia per tutti: 40 milioni di americani sono totalmente privi di assistenza sanitaria. In questo campo gli Stati Uniti sono molto indietro a tutti i Paesi europei, compresi quelli dell’ex blocco sovietico, e alla nemica Cuba che - con tutte le vistose magagne del regime castrista - dispone di un ottimo e gratuito sistema medico-ospedaliero.
Come questo possa essere realizzato Obama non lo ha ancora espresso nei dettagli. Si ipotizza un nuovo sistema fiscale che incida maggiormente in senso progressivo nella tassazione del reddito. E sul tappeto c’è anche la spinta verso tecnologie “pulite”, ecologiche - sull’esempio della California di Schwarzegger -, anzitutto per l’industria dell’auto, un settore che sta affrontando un preoccupante calo di vendite. Durante la campagna elettorale Obama ha affermato che è possibile unire sviluppo economico e ecologia, però realizzare questo virtuoso matrimonio in tempi di crisi profonda non richiede solo volontà. Occorrono investimenti, e una pianificazione nazionale più che perfetta in grado di evitare scompensi pericolosi per l’occupazione. Certo, gli americani, e non solo quelli che hanno votato per Obama, accettano che lo Stato intervenga più massicciamente nell’economia, ma chiedono che lo faccia per difendere anzitutto i loro interessi.
Ed aleggia una parola che già preoccupa sia gli europei, sia i Paesi asiatici emergenti: protezionismo. Sarà anche una brutta parola, per alcuni una bestemmia, ma se, come si è sapientemente commentato, Barack deve realizzare sull’esempio di Franklin Delano Roosevelt un New Deal, sarebbe bene ricordare che nel 1933 quel grande presidente avviò proprio una politica protezionista. E Obama non ha mai respinto la possibilità di ricorrere a questo strumento. Si possono ridiscutere le regole del sistema economico mondiale tracciate nel 1944 a Bretton Woods, fermo restando che “America first”.
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E si arriva al capitolo che maggiormente interessa noi europei, noi italiani, tutti fieri della nostra cultura della nostra storia, delle nostre radici (anche se nell’identificarle non siamo d’accordo nemmeno a livello municipale), della nostra intelligenza sperimentata da secoli di astuzie fallimentari. Quale sarà la politica estera di Barack Obama?
Il nuovo presidente l’ha annunciata come “multilaterale” (invece dell’unilateralismo dell’amministrazione Bush), aperta alla discussione e alla trattativa. Entro certi limiti. Le truppe americane lasceranno l’Iraq, probabilmente con un ritmo più serrato di quello preordinato. Sostanzialmente lasciando i sunniti (largamente riabilitati) e gli sciiti a vedersela tra loro, contando sull’amicizia dei curdi - da tempo autonomi di fatto -, e ripromettendosi di portare l’Iran a più miti consigli. Come? Non è stato detto chiaramente. Forse coinvolgendo maggiormente Arabia Saudita, Giordania, Egitto, e cercando di rompere l’ambiguo sodalizio Siria e Iran. Questo conduce alla Palestina, e a Israele, a un “problema” che da sessant’anni è servito da alibi di molti regimi, più o meno dittatoriali e corrotti, dei Paesi arabi. Quale posizione prenderà Obama? E’ un altro interrogativo in attesa di risposta.
Pur dissentendo dalle scelte e dai metodi di Bush nella lotta al terrorismo, Barack Obama non dimentica al-Qaeda e i suoi epigoni. Anzi, si è detto pronto a intervenire militarmente in quelle zone del Pakistan che ospitano delle basi del terrorismo islamico. E in Afghanistan, dove talibani e qaedisti sono sempre più minacciosi, ha deciso di vincere una volta per tutte. Con il concorso accresciuto dei partner europei. La Nato, che in Afghanistan gestisce due diverse missioni, l’Isaf e Enduring Freedom - spesso tra loro divergenti per modi e finalità -, secondo Obama deve superare “una discrepanza tra l’espansione delle sue missioni e le sue ridotte capacità”; quindi “gli alleati devono contribuire alla sicurezza collettiva con più truppe, e investire maggiormente nella ricostruzione e stabilizzazione”. Chiaro e preciso.
Sì, Barack Obama è una novità per alcuni versi insondabile. Di una cosa però possiamo essere certi: il nuovo inquilino della Casa Bianca, il suo “american dream” lo condurrà avanti con gli occhi ben aperti.
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