Con i suoi 132 milioni
di visitatori è diventato
il social network più famoso
del mondo. Yahoo lo ha corteggiato
a lungo, Microsoft ha sborsato 256 milioni
di dollari per avere l'1,6% delle sue
azioni. “Un servizio sociale per rimanere
in contato con le persone intorno a te”
recita il suo slogan. Ma a che prezzo?
Un giorno mi sono iscritta a Facebook. Molti dei miei amici hanno un profilo e ho pensato che fosse un buon modo per riuscire a mantenere i rapporti con loro risparmiando sulla bolletta. In pochi giorni ho ricevuto decine di richieste di amicizia, persino da parte di persone che non vedevo da anni. Allora ho cominciato a rovistare nella memoria, alla ricerca di nomi di vecchi compagni delle elementari o del centro sportivo che frequentavo d'estate, scovandoli uno ad uno. Una volta chiesta (e ottenuta) l'"amicizia” era possibile accedere alle loro pagine, sbirciare le loro foto, curiosare tra le loro amicizie, scoprire i loro interessi e i gusti musicali, sapere se avevano o no una relazione e con chi. La cosa diventava sempre più allettante. A quel punto ho tirato fuori vecchie lettere per rintracciare amici conosciuti durante le vacanze, ho cercato in tutti i modi di ricordare il cognome del mio primo fidanzato e di quello che a diciassette anni, dopo avermi giurato amore eterno, era scomparso senza farsi più sentire. Poi mi è venuta la curiosità di vedere se la ragazza più bella del liceo fosse davvero ingrassata come dicevano tutti e se la più brutta avesse finalmente trovato un ragazzo. Nel giro di qualche giorno sono stata letteralmente risucchiata in un vortice di storie e di vecchie amicizie che rimandavano ad altre, scoprendo inaspettati legami tra persone che avevo incontrato in momenti diversi dalla mia vita. Grazie alla pagina principale, poi, potevo costantemente essere aggiornata su eventuali cambiamenti di profilo o sull'aggiunta di nuove foto, avendo la possibilità di monitorare la vita di tutti i miei 87 amici minuto per minuto. Quando, però, mi sono accorta di aver passato un intero sabato sera saltellando da una pagina all'altra, disseminando commenti e rispondendo ai quiz inviati dai miei amici sull'uomo ideale o sul cartone animato al quale assomigli di più, ho pensato che ci fosse qualcosa che non andasse. Alla fine, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una mia foto con tanto di tag (un riquadro con il tuo nome piazzato sulla faccia) pubblicata sulla mia pagina da un mio ex compagno di classe. Una foto impietosa che mi fu scattata in quel periodo infausto in cui una ragazza ancora non va dal parrucchiere e ignora l'esistenza delle pinzette. Il mio amico pensava certo di fare un gesto carino rimembrando i bei vecchi tempi, non sapendo, invece, di avermi praticamente esposto a una pubblica gogna virtuale.
Un po' di storia
Nella sua stanza, fra un esame e l'altro, l'allora diciannovenne Mark Zuckerberg , studente di Harvard, si è inventato (pare scopiazzando l'idea a un paio di amici) Facebook, un sito di social network, dove, cioè, le persone entrano in contatto tramite diversi legami sociali, che vanno dalla conoscenza casuale ai vincoli familiari. Lo scopo iniziale di Facebook era quello di facilitare i rapporti fra studenti universitari (nell'arco di due anni era stato adottato dai maggiori college americani), tanto che il sito, in pochissimo tempo, contava già nove milioni di utenti registrati. Dal 2004 al 2006 il numero di studenti che aggiornava la propria pagina con liste di programmi preferiti o con i nomi delle persone con cui stavano uscendo è aumentato in maniera esponenziale. Durante il giorno rendevano noto quello che stavano facendo o come si sentivano. Dopo ogni festa tornavano nei loro dormitori e caricavano le foto che avevano scattato. La mattina seguente passavano ore a commentare le facce di chi aveva bevuto troppo o era svenuto sul divano, a fare apprezzamenti sulla ragazza che il compagno si era riuscito a portare in stanza o sull'orrendo maglione che aveva indossato il secchione del corso. Ogni fatto, ogni piccolo e insignificante avvenimento era alla portata di tutti, sottoposto al pubblico giudizio, condiviso in ogni istante. Visto il successo, Zuckerberg decise di migliorare il sito, da lui considerato troppo “primitivo”, aggiungendo un'applicazione chiamata News Feed, una pagina in cui compaiono le modifiche dei profili, i commenti che amici scrivono ad altri amici, le foto che hanno uploadato, la loro situazione sentimentale. Il News Feed garantiva un gran risparmio di tempo, consentendo agli studenti di essere sempre aggiornati, senza dover saltare da una pagina all'altra per vedere se c'era qualcosa di nuovo da sapere. Quando gli utenti hanno notato per la prima volta la pagina del News Feed sono rimasti alquanto perplessi. Ogni singola variazione del loro profilo veniva trasmessa in tempo reale a tutta la comunità, incluse notizie come “Tony e Lisa si sono lasciati” o “Mark e Tom non sono più amici” e foto di persone colte nelle situazioni più imbarazzanti. Quel briciolo di privacy consentito dalla iniziale versione di Facebook era stato definitivamente spazzato via. E non c'era nessuna opzione che consentisse agli utenti di impostare il loro profilo come privato. Alcuni studenti cominciarono a sentirsi spiati da una sorta di Grande Fratello che registrava ogni loro singola mossa, tanto che molti di loro chiesero a Zuckerberg di eliminare l'applicazione. Zuckerberg ne aggiunse un'altra che permetteva di selezionare quali informazioni rendere note e quali no, pur consapevole che, superata l'iniziale diffidenza, gli studenti avrebbero presto cambiato idea sul News Feed. E aveva ragione. In poco tempo le preoccupazioni degli utenti sulla loro privacy svanirono nel nulla, soppiantate dall'entusiasmo di sentirsi così intimamente connessi alla comunità dei loro amici.
Fin qui si potrebbe pensare che si tratti del solito fenomeno di voyerismo, alla pari di un qualsiasi reality show o di una di quelle trasmissioni in cui la gente va a raccontare i fatti suoi. Se non fosse che nel 2004, anno di fondazione di Facebook, Zuckerberg ha ricevuto un finanziamento di 500.000 dollari da Peter Thiel, che oggi possiede il 7% di Facebook, per un valore di un bilione di dollari. Thiel, oltre ad essere l'inventore di PayPal, il più noto sistema di pagamento in rete (venduto poi a Ebay per 1,5 miliardi di dollari), è anche un noto attivista neocon, uno il cui motto è “Show me a good loser and I'll show you a loser” (uno che sa perdere è solo un perdente). Il signor Thiel non è solo il prototipo del capitalista avido e calcolatore, ma anche l'autore di un libro (The diversity Myth) che attacca l'inclinazione liberale e multiculturale di Stanford, l'Università in cui si è laureato; inoltre, è tra i fondatori della rivista conservatrice The Stanford Review e fra i membri del gruppo lobbista Thevanguard.org, una comunità di americani convinti che i valori conservatori, il libero mercato e un governo con funzioni ridotte al minimo siano le premesse necessarie per dare anche ai più poveri la possibilità di migliorare la loro condizione. Un sito che propone ai suoi iscritti di “riprendersi la propria patria e anche tutta la rete”. Ed è questo l'intento di Thiel e di altri grossi investitori della Silicon Valley che hanno finanziato Facebook, in cui hanno visto fin dall'inizio non solo un mezzo efficace per diffondere la loro ideologia, ma anche una potente macchina per fare soldi. Come? Sfruttando l'amicizia. Da un punto di vista imprenditoriale, infatti, Facebook è una vera e propria miniera d'oro. Milioni di utenti caricano spontaneamente i loro dati anagrafici, i loro gusti, le loro ide, le loro foto e i loro video, creando un gigantesco e globale contenitore di dati. Non a caso recentemente Coca-Cola, Blockbuster, Sony e Condé Nast hanno stretto partnership commerciali con Facebook, che permette loro di fare pubblicità in maniera molto più mirata.
Un branco di pecore
Alla base del successo di Facebook ci sarebbe, secondo l'antropologo francese Andrè Girard, una legge universale del comportamento umano, che consiste nel carattere mimetico (nel senso di imitativo) del desiderio. Noi imitiamo dagli altri i nostri desideri, le nostre opinioni, il nostro stile di vita. In pratica siamo un branco di pecore. Secondo molti sociologi, invece, ciò che spinge le persone a condividere costantemente la propria esistenza con gli altri sarebbe la “consapevolezza ambientale”, un sentimento di intima connessione al ritmo della vita degli altri. A pensarci bene è quello che consente un'applicazione come il News Feed, grazie alla quale possiamo sapere minuto per minuto chi sta avendo una pessima giornata o chi si è preso un raffreddore. Considerate singolarmente queste informazioni non hanno nessun valore e ci dicono ben poco su chi ce le ha fornite. Ma prese tutte insieme diventano un sofisticato ritratto della vita altrui, come migliaia di puntini che formano un'immagine di senso compiuto, fornendo la possibilità di un'esperienza psicologica interpersonale del tutto inedita. Possiamo leggere continuamente nella mente altrui, finendo per realizzare un legame spesso più intimo di quello che si ha con certi familiari che sentiamo una volta ogni tanto. Ma c'è un limite alle persone con le quali possimo avere un rapporto di amicizia? Secondo l'antropologo Robin Dunbar il numero di connessioni sociali che un essere umano può intrattenere non supera le 150 persone. Ma conosco gente che ha più di 400 amici su Facebook. In realtà un social network non innalza il Dumber Number (la soglia massima di amicizie), perché a crescere è solo il numero di conoscenti, persone incontrate nella nostra vita, con cui abbiamo fatto le elementari o che abbiamo conosciuto a una festa, delle quali normalmente non avremmo più sentito parlare. Su Facebook, invece, questi legami, seppure deboli, continuano ad esistere. E questa è anche una cosa positiva. Giorni fa ho ricevuto la richiesta di amicizia di una ragazza croata che avevo conosciuto da bambina durante le vacanze e di cui avevo perso notizie durante la guerra in Jugoslavia. Allargare la propria rete di contatti è sicuramente utile per chi sta cercando un lavoro, per chi vuole trovare una casa in affitto o si vuole sbarazzare di un vecchio motorino a un prezzo stracciato. Ma coltivare rapporti online incide davvero sulla vita offline? Probabilmente per questa domanda non esiste un'unica risposta. Può accadere di leggere sulla pagina di un mio amico che ha intenzione di andare a un concerto e posso decidere di fare lo stesso o, addirittura, di raggiungerlo. E quando lo incontro di persona è come se non ci fossimo mai separati e posso riprendere la conversazione da dove l'avevamo lasciata. Si può anche dare il caso che io voglia andare a vedere una mostra, ma non trovo nessuno con cui andarci. Comunicare questo desiderio a tutti i miei amici simultaneamente potrebbe di certo aiutarmi a trovare qualcuno che mi faccia compagnia. E questo è un altro esempio di due persone che escono dal cyberspazio per incontrarsi in carne ed ossa in un luogo reale. Il pericolo della frequentazione telematica, però, esiste. Guardare le foto delle vacanze dei miei amici, leggere gli aggiornamenti del loro umore, vedere il video della loro festa di compleanno può innegabilmente indurre a una certa pigrizia nella frequentazione reale. Esiste, cioè, il rischio che incontrarsi davvero finisca per essere superfluo, perché il nostro bisogno di socialità viene soddisfatto attraverso i nostri rapporti telematici. Un rischio non trascurabile, poiché è evidente che la frequentazione di persona sia un modo di relazionarsi più sano e più completo. Un abbraccio, un sorriso, un bacio non sono esattamente un dettaglio nei rapporti con gli altri, come non lo è la possibilità di condividere con qualcuno un evento, piuttosto che esserne un passivo spettatore. Il pericolo, quindi, sta nella possibilità di saturare facilmente quel Dunber Number di cui sopra, esaurendo lo spazio psichico a nostra disposizione con chat, messaggi, gruppi ed eventi vari e non avendo più tempo neanche per un caffè al bar.
Dal nickname al name
Altra non trascurabile novità di Facebook è quella di rendere noti il proprio nome e cognome. Fino a qualche anno fa, nei blog e nelle pagine personali, la vera identità dell'internauta si celava dietro nomignoli e nickname di ogni tipo. Il fascino della rete, in fin dei conti, era proprio quello di essere un luogo “sicuro” per diventare chiunque si desiderasse, per trasformarsi e reinventarsi. Oggi, invece, sembra che Internet viva dell'identità di chi lo popola, della iper-presenza di tutti i navigatori, che non si limitano a dire chi sono, ma anche cosa fanno, con chi sono sposati e quali amici frequentano. E, anche se io non ho intenzione di rendere noto il mio nome e la mia identità, non è escluso che qualcuno lo faccia al posto mio. Pensiamo alla possibilità di taggare le foto, cioè di metterci una sorta di “etichetta” con il nome della persona ritratta. Almeno un centinaio di persone, ad esempio, ha avuto la possibilità di vedere la foto che mi ritraeva con una capigliatura orrenda e delle sopracciglia incredibilmente folte, senza che io abbia potuto impedirlo (se non a posteriori). A pensarci bene, la cosa ha in sé un che di violento. Pensiamo, inoltre, all'opzione che ti permette di cambiare il tuo stato civile. Se malauguratamente due persone si lasciano e dallo status di “impegnato” si passa a quello di “single”, tutta la rete degli amici verrà informata della rottura. Il che, oltre ad essere un'innegabile invasione di campo nella privacy di ognuno, crea numerosi altri problemi. Come, ad esempio, venire a conoscenza del nome della nuova compagna del tuo ex, vedere la sua foto, leggere i messaggi che gli lascia in bacheca, insomma essere uno spettatore del loro idilliaco menage a deux. E' come abitare in un paesino di poche migliaia di persone, in cui tutti sono a conoscenza di tutto e qualsiasi cosa tu faccia è sulla bocca di tutti i tuoi “amici”.
Vittime di Facebook
Quando Bill Gates, iscrittosi a Facebook per capire il successo del più famoso social network del mondo, ha cominciato a ricevere ogni giorno circa ottomila richieste di amicizia da perfetti sconosciuti, ha deciso di suicidarsi. Intendiamoci bene, non di togliersi la vita, ma di “suicidarsi”, che nel gergo internettiano significa cancellare il proprio account. Come lui, tra il 2007 e il 2008, migliaia e migliaia di utenti hanno cominciato a non sopportare più questa massiccia intrusione nella propria vita privata e hanno deciso di sopprimere una volta per tutte il loro profilo. Ma ben presto si sono accorti che una volta entrati in questo vortice, era difficilissimo uscirne. Fino a pochi mesi fa, infatti, disattivare il proprio account era praticamente impossibile. Al massimo si poteva mettere in “stand-by”, perché le proprie informazioni rimanevano sul server, come recita una clausula del sito: «quando aggiornate i vostri dati, facciamo una copia della precedente versione e la conserviamo per un periodo di tempo ragionevole. Così potrete recuperare le vecchie informazioni». Alan Burlison, un ingegnere informatico inglese, piuttosto bravino in fatto di computer, le ha provate tutte pur di cancellarsi. E dopo lettere di fuoco, in cui minacciava di rendere nota l'intervista rilasciata a Channel4 per denunciare il fatto, è riuscito finalmente a cancellare le tracce del suo passaggio su Facebook. Questa “dedizione” al cliente, al quale si promette di rendere più facile il recupero dei suoi vecchi dati per eventuali aggiornamenti, si spiega leggendo un'altra clausula: «Non possiamo garantire che i contenuti inseriti sul sito non saranno visti da persone non autorizzate. Anche dopo la rimozione, copie di questi contenuti potrebbero essere visibili in pagine archiviate o in copie salvate da altri utenti». In parole povere: i vostri dati, le vostre informazioni demografiche e di comportamento verranno vendute alle aziende di marketing. Anonime, aggregate, ma estremamente preziose. I rischi di questa esposizione sono innumerevoli, perché i dati che noi forniamo spontaneamente possono essere usati e strumentalizzati nei modi più svariati. A partire dalla beffa goliardica di cui è stata vittima una mamma inglese di ventidue anni che ha trovato alcune sue foto ammiccanti su FetLife, un sito porno canadese. Accanto alle sue (sapientemente prelevate da Facebook), le immagini di una donna molto simile a lei, impegnata in atti sessuali, con l'esplicita didascalia: «Voglio essere usata e abusata». C'è, poi, la storia della compagnia di assicurazioni statunitense, che ha portato in tribunale le confessioni online prese da Facebook. Queste hanno dimostrato la causa emotiva e non organica della malattia di un cliente che aveva chiesto un risarcimento di spese mediche (che, ovviamente, gli è stato negato). Un procuratore texano, invece, ha provato la colpa di un guidatore che ha ucciso un uomo in un incidente d'auto, allegando le pagine del sito in cui egli affermava di essere un “iper-alcolista”. E la casistica continua. Ventisette dipendenti dell'Automobile Club della Southern California sono stati licenziati per messaggi offensivi nei confronti di altri colleghi, mentre da un sondaggio recente di Viadeo risulta che il 62% dei datori di lavoro britannici darebbe un'occhiata alle pagine di Facebook prima dei colloqui e che un quarto dei candidati sarebbe respinto di conseguenza. L'esercito inglese ha addirittura mandato una direttiva ai suoi soldati al fronte proibendo loro di rivelare informazioni che potessero localizzarli, temendo che al-Qaeda potesse intercettarle. E che dire dei genitori che hanno smesso di sbirciare nei diari dei figli per iniziare a spiare la loro vita online? E' molto più semplice, basta iscriversi e le loro mosse sono a portata di clic. Senza il rischio di essere colti in flagrante.
Ma quanti, tra gli utenti, hanno prestato attenzione alle dichiarazioni del sito sulla riservatezza dei dati? L'economista George Loewenstein ha raccontato che quando lui e i suoi ricercatori hanno posto domande delicate a un gruppo di studenti, dando alte garanzie di riservatezza, solo il 25% di loro ha risposto. Quando, invece, non si faceva accenno alla riservatezza, più della metà degli intervistati era disposto a collaborare. E' quello che gli esperti chiamano “paradosso della privacy”: non evocare rischi rende più tranquilli. Figuriamoci poi davanti a un computer, nella solitudine della propria stanza. La maggior parte degli internauti non si pone il problema, perché nessuno glielo fa notare.
Furto d'identità
Può accadere, poi, che qualcuno ti rubi l'identità. Nel senso che i cosiddetti cracker (cioè dei criminali informatici) possono entrare nel tuo account e mettere, per esempio, un cellulare in vendita a un prezzo estremamente conveniente. Uno dei tuoi amici potrebbe notare l'annuncio e, fidandosi di te, versare la cifra richiesta su una carta di credito ricaricabile. Chiaramente il tuo amico non riceverà mai il suo cellulare e se la verrà a prendere con te, che sei all'oscuro di tutto. Oppure qualche azienda potrebbe incaricare un abile hacker di rintracciare i profili con più amici, introdurvisi e diffondere a tappeto la pubblicità di un prodotto. Del resto, è una delle clausule di Facebook ad avvertirvi: «Non siamo responsabili dell'eventuale violazione degli accordi sulla privacy o delle misure di sicurezza del sito». Ecco perché la Cia e il Pentagono apprezzano tanto la tecnologia, perché facilita le loro attività di spionaggio. Non stiamo parlando di fantasmagoriche teorie cospirazioniste, ma dell'ennesima condizione imposta dal regolamento del sito: «Usando Facebook acconsentite a far elaborare negli Stati Uniti i vostri dati personali. Potremmo essere costretti a rivelare informazioni in seguito a richieste legali o in base alle leggi in vigore». In pratica, la Cia sarà libera di farsi gli affari vostri.
Le cause di Facebook
C'è anche un'altra faccia di Facebook. Quella delle iniziative e dei gruppi che sostengono e promuovono cause importanti. Come quella di “salvare” Saviano, lo scrittore minacciato di morte che in un recente sfogo ha dichiarato di voler lasciare l'Italia, un Paese in cui non è più libero di passeggiare, di bere una birra in pubblico, di andare in libreria o d'incontrare sua madre senza la paura che possa accaderle qualcosa. All'indomani della confessione del pentito che ha rivelato l'esistenza di un piano per uccidere Saviano e la sua scorta, prima ancora dell'appello di Repubblica e dei sette Premi Nobel, si sono moltiplicate sul famoso social network decine di gruppi e di pagine a lui dedicati. Migliaia di messaggi e di manifestazioni di solidarietà hanno letteralmente intasato il profilo dello scrittore, tanto che il suo staff è stato costretto a porre un limite alle innumerevoli richieste di amicizia, arrivate in breve a quota 4.846. Al momento i gruppi dedicati allo scrittore campano sono più di 100. Con i suoi 83.000 iscritti, “Nessuno tocchi Saviano” sta raccogliendo adesioni per una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al quale si richiede di farsi sostenitore e garante di un'attività legislativa contro le attività mafiose e camorristiche. Il gruppo “Proponiamo Roberto Saviano per il premio Nobel per la pace” dichiara il suo intento fin dal titolo, mentre “Proteggiamo Saviano dai Casalesi”, creato da un utente di Marano di Napoli, propone di radunare più gente possibile e di scendere in piazza a manifestare. Una grande partecipazione arriva anche dall'estero: un ragazzo spagnolo ha creato il gruppo “Piattaforma di solidarietà per Saviano”, mentre è di un utente francese la pagina “Sostieni Saviano”. Solo poche decine di membri hanno aderito a “Saviano…Vittima o popstar?”, un gruppo che vede nella mobilitazione a favore dello scrittore una mera operazione di marketing con il fine di far lievitare le vendite del suo libro. Qualche voce fuori dal coro, perché la rete è dalla parte di Saviano, diventato il simbolo di una legalità che deve essre tutelata e protetta a tutti i costi.
Seppure non con la stessa eco, numerosi altri gruppi si fanno sostenitori di cause altrettanto importanti, come quelle che raccolgono fondi per gravi malattie. “SMuovilavita-onlus”, ad esempio, è una fondazione che ha l'obiettivo di favorire la ricerca scientifica sulla sclerosi multipla e di dare un sostegno a malati, famigliari e amici, al fine di rendere meno difficile la loro quotidianità. Esistono, poi, gruppi che raccolgono firme e promuovono vere e proprie campagne di sensibilizzazione. “Abbasso il silenzio... la violenza sulle donne non deve rimanere impunita!!” si propone di dare un sostegno alle giovani donne che incontrano la violenza in tutte le sue forme e di suggerire il modo per reagire psicologicamente e per trovare la via d'uscita a un simile problema. “Abolish the Death Penalty” con i suoi 31.000 membri raccoglie firme per la petizione contro la pena di morte, mentre “Stop animal testing” promuove una campagna di sensibilizzazione contro le industrie cosmetiche che sperimentano l'efficacia dei loro prodotti sugli animali.
Insomma, sul più popolare sito di social network non solo un “gregge” di curiosi e di voyeur, ma anche un popolo di internauti che si mobilita, si informa e si appassiona a cause importanti, che non si limita ad essere uno spettatore ma che interviene facendo sentire la sua voce.
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Vocabolario
NEWS FEED = Applicazione che permette di ricevere in tempo reale tutti gli aggiornamenti pubblicati sulle pagine degli utenti “amici”.
SOCIAL NETWORK = Spazio di aggregazione virtuale in cui condividere idee, proposte di lavoro, interessi. E' un fenomeno nato negli Stati Uniti che si è sviluppato attorno a tre grandi filoni tematici: l'ambito professionale, quello dell'amicizia e quello delle relazioni amorose.
UPLOADARE = In italiano caricamento, l'azione di invio alla rete di un file.
TAGGARE = Dall'inglese “tag”, contrassegno. Apporre una sorta di “etichetta” ad un file.
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