I tre giorni di sangue di Mumbai, l’ex Bombay, hanno modificato il quadro nel quale si collocano il terrorismo e le sue finalità, mettendone in una luce preoccupante gli intrichi, le connessioni, le complessità. E non solo perché si è trattato di un episodio particolarmente tragico, con 171 morti (anche un imprenditore italiano) e centinaia di feriti. La ricerca di una strategia valida nella “guerra al terrore” è diventata più difficile proprio alla vigilia della presentazione da parte di Barack Obama del suo stato maggiore, e dei suoi obiettivi alla ricerca di una sicurezza in qualche modo “globale”. Mentre George W. Bush, con le valigie pronte nell’atrio della Casa Bianca, riconosceva, per la prima volta, l’errore commesso con la guerra in Iraq.
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Non si sa quanto erano i giovani armati, decisi a uccidere e a farsi uccidere, che hanno attaccato gli alberghi a cinque stelle Oberoi-Trident e Taj Mahal, il centro ebraico Nariman House, la stazione centrale, il grande caffé Leopold, un ospedale, una caserma della Polizia: 25 sarebbe il numero indicato dalle autorità indiane, tutti uccisi tranne uno, catturato. Un commando arrivato sulla costa di Mumbai a bordo di due gommoni. E da dove venivano i gommoni? Certo non da molto lontano, presumibilmente da una nave che si era fermata al largo, e poi era ripartita. E da dove veniva la nave? Sempre presumibilmente, da Karachi, porto pakistano a nord di Mumbai che rivaleggia con la metropoli indiana per l’importanza del traffico marittimo.
Ma le prime stime comunicate dalla Polizia indiana parlavano di un numero superiore di terroristi, alcune decine. E del resto data la contemporaneità degli attacchi, alcuni condotti sporadicamente per distrarre l’attenzione dai bersagli principali, venticinque sembra essere un numero inadeguato. Se è vero che i terroristi morti e il prigioniero sono tutti pakistani, forse non lo erano tutti gli altri, che si sarebbero dileguati scomparendo, o ritornando, nei quartieri musulmani di Mumbai, sede di narcotraffici e di madrasse fondamentaliste. I primi diretti da boss che - dai loro yacht basati nelle acque di Dubai - gestiscono per via satellitare gli affari di droga dei legami di comodo con i talebani (l’oppio afgano) e terroristi vari; le seconde generosamente finanziate dall’Arabia Saudita. Una monarchia, alleata degli Usa, che non ha mai trascurato di foraggiare l’estremismo islamico.
Comunque tutti gli attaccanti erano dotati di armi automatiche, granate, zaini colmi di munizioni, e tutti avevano evidentemente l’ordine di sparare all’impazzata, di colpire chiunque si trovasse a tiro. Alcuni di loro erano dotati dei sofisticati Blackberry, gli smartphone in grado di navigare sul web. “Cerchiamo gli americani e gli inglesi” urlavano alcuni dei terroristi, e Azar Amir Kasab, l’unico arrestato, ha detto che tra i loro compiti vi era quello di “colpire gli ebrei”: in effetti fra le vittime vi sono nove ostaggi israeliani massacrati alla Nariman House, e altri sette stranieri. Tutti gli altri sono indiani.
Kasab ha rivelato di aver seguito in Pakistan mesi di addestramento ad azioni di commando in un campo di militanti islamici gestito da Lashkar-e-Toiba (“Esercito dei puri”), un’organizzazione paramilitare legata ad al-Qaeda dai tempi della guerra contro i sovietici in Afghanistan. Torna, immancabile, l’immagine sinistra di Osama bin Laden, e dietro di lui quella dell’Isi, il servizio segreto militare pakistano che da sempre è lo sponsor, nemmeno tanto occulto, sia dello Sceicco Nero che dei suoi amici talebani. Una struttura che di fatto controlla e condiziona il potere civile, e con la quale anche il nuovo presidente pakistano Asif Ali Zardari, il vedovo di Benazir Butto, è obbligato a venire a patti.
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“Gli Stati Uniti faranno ricorso a tutto il peso della loro potenza, non solo militare ma anche diplomatica, economica e politica, per affrontare il terrorismo”, da detto Barack Obama presentando, il 1° dicembre scorso, a Chicago, la città simbolo della sua ascesa, la sua squadra per la Sicurezza Nazionale. Tre uomini e tre donne. Prima fra queste Hillary Clinton, nominata dall’ex rivale Segretario di Stato, una carica - equivalente a ministro degli Esteri - che in America ha sempre avuto un grande rilievo. Robert Gates, che due anni fa Bush sostituì a Rumsfeld, è confermato ministro della Difesa: una decisione che conferma la volontà di Obama di cercare l’efficienza superando gli steccati partitici. James Jones, generale dei Marines, ex comandante della Nato in Europa, è Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Janet Napoletano, governatore dell’Arizona, italo-americana, guida il ministero della Homeland Security, la sicurezza interna. Susan Rice, afro-americana (come Condoleeza, ma nessuna parentela) è il nuovo ambasciatore all’Onu. Eric Holder, anche lui afro-americano, ministro della Giustizia, dovrà in particolare gestire il “caso Guantanamo”, il carcere extra-territoriale dove sono rinchiusi, e interrogati in modo a volte “informale”, terroristi e sospetti tali. E a questi sei si aggiunge, beninteso, il vicepresidente Joe Biden, grande esperto di politica estera.
Un team formidabile, è stato detto, e dovrà esserlo considerati i problemi che dovrà affrontare. Quando Obama ha presentato all’America e al mondo la sua squadra si erano da poche ore spenti i fuochi di Mumbai. E nel quadro globale si inserivano nuovi elementi di inquietudine e di incertezza. Al primo posto, come già annunciato durante la campagna elettorale, il ritiro dall’Iraq in 16 mesi: “Penso che sia lo spazio di tempo giusto, ma ascolterò i militari per essere sicuro che non si mettano a rischio i nostri soldati, e gli iracheni”. Certo non è semplice, soprattutto per quanto riguarda gli iracheni.
E su quella guerra - servita solo ad alimentare il terrorismo e a creare nuove tensioni - è intervenuto (in un’intervista a Abc News, riportata da la Repubblica) George W. Bush, il presidente uscente, ora deluso e pentito della scelta fatta. “Il più grande rimpianto di tutta la mia presidenza - ha detto - è certamente il fallimento dell’Intelligence sull’Iraq. Molta gente si è giocata la reputazione su questo, dicendo che le armi di distruzione di massa erano un motivo valido per rimuovere Saddam Hussein. Non solo gente della mia amministrazione. Membri del Congresso e leader stranieri, ancora prima della mia elezione stavano leggendo quei rapporti dell’Intelligence sull’Iraq. Non so se si tratti di rifare qualcosa diversamente, ma vorrei che l’Intelligence fosse stata diversa”. In tal caso ci sarebbe stata la guerra in Iraq? “Domanda interessante. Non lo so, non posso disfare quello che è stato fatto. E’ difficile dirlo”. Dichiarazioni davvero sorprendenti: George W. Bush trascura il fatto che quei “rapporti dell’Intelligence” erano smaccatamente falsi (anche uno di origine italiana), e che né lui, né Cheney, né Rumsfeld, vollero ascoltare chi - e fra questi degli esperti della stessa Cia - lo diceva, e trascura di citare le informazioni, altrettanto false, sui legami tra l’Iraq e il terrorismo islamico. Quanto ai “leader stranieri”, che oggi quasi accusa di averlo indotto in errore, erano i suoi amici Blair, Barroso, Berlusconi, e altri da lui spronati ad unirsi all’avventura irachena. Gli altri, come il francese Chirac, erano considerati dei codardi, o dei sabotatori.
Tant’è, non si può “disfare quello che è stato fatto”. E ora Bush, dopo aver notevolmente peggiorato il problema, può ritirarsi, deluso, nel suo ranch texano. A Obama restano le patate bollenti. Mentre il pericolo terrorista si espande in forme ondivaghe, suscitando interrogativi preoccupanti sui ruoli ambigui giocati da avversari dichiarati e da sedicenti alleati.
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