Dal 19 giugno al 14 settembre
il Palazzo delle Esposizioni ha ospitato
la manifestazione che fotografa le tendenze
più significative dell’arte contemporanea
italiana, concentrandosi sugli artisti
che si sono affermati negli ultimi vent’anni
Chiunque quest’estate abbia varcato l’ingresso del Palazzo delle Esposizioni avrà avuto l’impressione di aver messo piede in un mondo meraviglioso. Ad accogliere lo spettatore, tra le colonne e le ampie pareti bianche, un caleidoscopio di colori e di odori, di oggetti disseminati, di suoni confusi provenienti da angoli nascosti. Non si sa quasi da dove cominciare, quale direzione prendere, quale sia l’itinerario da percorrere, quale il “verso giusto”. Non c’è un filo conduttore tra le opere esposte, ogni artista è stato lasciato libero di creare e l’allestimento della mostra ha puntato sulla valorizzazione dei singoli lavori, lasciando al pubblico libertà di giudizio e di azione. Tanto che qualche critico ha subito paragonato questa edizione della Quadriennale a un caotico luna park.
In realtà la manifestazione, nata nel 1927 per offrire una panoramica delle arti visive in Italia, ha solitamente un tema per ogni edizione. Questa, invece, si presenta da subito come un osservatorio variegato ed eterogeneo, a partire dalla commissione che ne ha seguito l’allestimento, formata da cinque curatori e storici dell’arte diversi per esperienze professionali e ambiti d’interesse. Diverse le sensibilità individuali, le tecniche espressive e i linguaggi utilizzati, tanto che gli organizzatori hanno deciso di non forzare sotto un titolo generico i novantanove autori invitati, tutti giovani o mid-career (cioè a metà del loro percorso artistico), che hanno cominciato ad affermarsi negli ultimi vent’anni. Alcuni di loro figurano già in importanti collezioni permanenti, vantando mostre personali in grandi musei d’arte contemporanea e partecipazioni alle più prestigiose manifestazioni internazionali; altri sono giovani emergenti, ai quali le principali realtà espositive del nostro Paese hanno iniziato a dedicare le prime personali. E’ una Quadriennale, quindi, particolarmente incentrata sull’arte emergente, nella quale preminente è la singola personalità dell’autore, con il suo peculiare sguardo alla realtà, la sua capacità di capirla e di interpretarla, ognuno con un’opera molto recente, in alcuni casi creata appositamente per l’evento, talvolta in situ. Tutte a parte una, la scultura Autunno di Luciano Fabro, artista torinese scomparso lo scorso anno, al quale la Quadriennale ha voluto rendere omaggio. La commissione, infatti, ha deciso di dedicare a lui l’apertura della mostra, esponendo nella centrale Sala della Rotonda una delle sue ultime opere, finora mai esposta in Italia. Maestro e innovatore della scultura italiana, Fabro è stato uno dei protagonisti del gruppo Arte Povera e uno dei i fondatori della Casa degli Artisti di Milano, oltre ad aver insegnato per molti anni all’Accademia di Brera. L’omaggio intende sottolineare l’innovatività del linguaggio di un artista il cui lavoro continua ad essere di straordinaria attualità, costituendo un imprescindibile punto di riferimento per molti degli artisti invitati.
L’allestimento, curato da Lucio Turchetta, ha dovuto tener conto della varietà delle opere esposte, estremamente diverse per formato, composizione e di conseguenza anche per esigenze espositive. Il percorso della mostra, quindi, si è allungato per tutti i 3.000 mq del palazzo di via Nazionale, sconfinando persino negli spazi dei servizi aggiuntivi e in piccole sale nascoste ricavate in vari angoli.
Nonostante la difficoltà di riunire sotto un denominatore comune questa generazione di artisti, salta subito all’occhio tra le opere esposte la preminenza della componente video e una forte presenza di istallazioni, spesso a dimensione ambiente. Meno frequente in questa edizione è la fotografia, mentre un cospicuo gruppo di artisti continua a prediligere mezzi espressivi tradizionali come la pittura e la scultura, spesso in dialogo fra loro. Difficile trovare un fil rouge anche nell’ambito dei temi affrontati, che spaziano da problematiche sociali a indagini esistenziali e filosofiche. Alcune rimandano all’attualità, alla guerra e agli armamenti, temi talvolta trattati con dissacrante ironia e con un gusto spiccato per la provocazione, come nel caso di Antonio Riello, che nel suo Elegant Warfare (2007) propone una sequenza ossessiva di carri armati di metallo specchiante, immaginando terribili armi di distruzione come oggetti glamour. La protesta politica è anche nelle fotografie di Vanessa Beecroft, che denunciano le atrocità del genocidio del Darfur, e nel video di Adrian Paci Centro di permanenza temporanea (2007), in cui lo sradicamento dai luoghi di origine e il nomadismo diventano una sorta di condizione universale che tutti noi, in modi diversi, ci troviamo a condividere. Nell’opera ? (2008) del collettivo Stalker/ON l’indagine sociale affonda il bisturi nelle realtà periferiche della Capitale, concentrandosi sul complesso universo delle culture rom e sul loro possibile inserimento nella vita della città. Gea Casolaro, invece, nei suoi scatti (Ai caduti di oggi, 2004-2008) immortala le vittime del lavoro, costruendo suggestive storie fatte di immagini su cui scorrono frasi che ne veicolano la visione.
Molte sono le opere che hanno una dimensione intima, privata, che s’interrogano su temi quali la memoria, l’identità, il fluire del tempo. Alcune scavano a fondo nel vasto campionario delle emozioni umane, come i dipinti di angelo Bellobono che in Nice to meet you (2007-2008) dà forma ai sentimenti attraverso i lineamenti di un volto colto da un’inquadratura ravvicinata. Carolina Raquel Antich (Di notte, 2007) rappresenta, invece, il mondo dell’infanzia, evidenziandone la natura ambigua di sogno e di ossessione, condizione allo stesso tempo idilliaca e drammatica, età spensierata che porta in sé il germe della paura e dell’angoscia.
Alcuni artisti rappresentano luoghi primordiali e stranianti, prolungamenti del nostro inconscio e delle zone oscure della mente. Nel quadro Da un incerto punto di vista (2008) di Alessandro Cannistrà, grovigli di vegetazione creano scenari irreali, ingoiati dalla coltre di ombre ottenute con delle bruciature. Nella sua opera, invece, Manfredi Beninati costruisce una vera e propria stanza in cui non si può entrare, piena di oggetti d’arredo e di macerie, visibile solo dal vetro sporco di una porta chiusa. E’ un luogo abbandonato della memoria, logorato dal tempo, che appare come un incubo incastonato fra quattro mura.
Non pochi sono gli artisti che si soffermano sulle interazioni tra individuo e spazio, dalle grandi città agli ambienti chiusi, riflettendo sull’impatto che questo esercita sui nostri comportamenti. E’ il caso di Stefano Boccalini che dalla metà degli anni Ottanta lavora sullo spazio non solo come entità fisica e architettonica, ma anche come teatro e specchio delle azioni umane. In Stone Island (2005) ha avviato un confronto tra le sue esperienze e quelle degli anziani di Milano, al fine di migliorare la vivibilità degli spazi cittadini. In Ambiente mobile (2008), Marina Paris costringe lo spettatore a interagire con la sua opera, un tapis roulant che conduce in un’altra sala: lo spazio, infatti, anche se vuoto, sottintende sempre la presenza dell’uomo e il suo agire.
Ricorrente è la riflessione sulla modernità e sulla tecnologia, presente, ad esempio, nel progetto Neural Pro (2008) di Fabrice de Nola, in cui tramite Internet, il video, la pittura e la fotografia si analizzano le reazioni dell’uomo allo sviluppo interdisciplinare delle neuroscienze e dell’ingegneria genetica, immaginando un fantascientifico allargamento cibernetico del cervello.
Altre opere analizzano i meccanismi comunicativi e le dinamiche interrelazionali, alla luce delle mutazioni del mondo moderno; altre ancora si concentrano sulla genesi stessa dell’opera d’arte, come Stone (2007), recente lavoro di Irena Kalodera, che riflette sull’atto creativo di fare scultura con la disposizione di una pietra sotto l’obiettivo di una telecamera.
Non mancano artisti in cui è centrale il tema del corpo e della sua caducità, come appare nell’opera Brain (2007), in cui Luisa Rabbia sembra legare il destino della corteccia di un albero a quello del tessuto nervoso del cervello; o nell’insolita stanza arredata da Luana Perilli con statue parlanti che ribadiscono ossessivamente la loro volontà di non morire mai (“Io non vorrei crepare (tutto è bene quello che non finisce mai)”, 2008).
Una molteplicità di opere, dunque, che sballottano lo spettatore da atmosfere lievi e da sogno a scenari ironici e dissacranti, talvolta lasciandolo abbagliato, talvolta scuotendone i sensi. Si passa in un attimo dalla delicata istallazione di Andrea Mastrovito, fatta di foglietti di carta sui quali viene proiettato un cartone animato in bianco e nero che ci offre una visione della vita e della morte quale condizione dell’uomo assolutamente naturale, all’infima e agghiacciante risata incapsulata in una scatola, quella di Lara Favaretto (Una risata vi seppellirà, 2005).
FOTO: Adrian Paci Centro di permanenza temporanea (2007)
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