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Ottobre-Novembre/2008 - Editoriale
Nulla di nuovo sul fronte delle mafie
di Paolo Pozzesi

Non sapremmo dire quale peso concreto l’appello dei Nobel (due italiani e quattro stranieri) di solidarietà per Roberto Saviano avrà nella lotta alle mafie nostrane. Certo è che, dopo averlo letto, questo documento dovrebbe farci riflettere, e anche vergognare: noi tutti, cittadini della democratica Repubblica Italiana. Perché? Che cosa dice l’appello, firmato con Dario Fo e Rita Levi Montalcini, da Michael Gorbaciov, Gunther Grass, Oran Pamuk, Desmond Tutu?
“Roberto Saviano è minacciato di morte dalla camorra, per aver denunciato le sue azioni criminali in un libro – ‘Gomorra’ – tradotto e letto in tutto il mondo.
E’ minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo Paese.
Il giovane scrittore, colpevole di aver denunciato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere.
Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è solo un problema di Polizia. E’ un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini.
Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008”.

Riflettiamo, dunque. Roberto Saviano dall’ottobre 2006, dopo la pubblicazione di “Gomorra” vive sotto stretta protezione, spostandosi periodicamente da un rifugio all’altro. Recentemente in questa situazione si sono inserite le minacce di morte – per lui e per la scorta – in vari modi fatte arrivare dai boss in carcere. Ed è esploso il caso Saviano. Il giovane scrittore, che solo per aver scritto un romanzo-verità sulla criminalità organizzata, ha raggiunto una notorietà che da due anni lo obbliga a vivere in un regime di semilibertà.
“Ho voluto soltanto raccontare una storia – dice Saviano in un monologo rivolto agli altri e a se stesso, apparso su la Repubblica – la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono. I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua. Colpa, quale colpa? E’ una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?”. E quando a tutto questo si è aggiunta l’ombra dell’attentato, dell’esecuzione mafiosa, lo scrittore ha dichiarato di voler cercare rifugio nell’esilio volontario, lasciare l’Italia. Come per sfuggire a una fatwa, la condanna a morte dell’integralismo islamico, che a noi sembra una barbarie lontana, estranea alla nostra civiltà, alla nostra cultura.
Ma il paragone rischia di essere improprio persino riduttivo. Salman Rushdie, lo scrittore anglo-indiano che da quasi vent’anni è costretto a vivere in clandestinità perché colpito, appunto, da una fatwa emanata da Khomeini per i suoi “Versetti satanici”, ha affermato che Roberto Saviano, da lui conosciuto a New York, “corre un pericolo terribile, dovrà senza dubbio lasciare l’Italia, ma dovrà scegliere con molta prudenza il luogo di destinazione: la mafia pone un problema più grave di quello che io stesso dovetti affrontare”. E una conferma è venuta da una fonte altamente qualificata, il Ministro dell’Interno. A Napoli per un incontro con l’Associazione industriali, Roberto Maroni ha così commentato l’intenzione di espatrio di Saviano: “Non credo sia una buona idea andarsene. E dove, poi? Se la camorra vuole vendicarsi, lo fa, la vendetta camorristica non ha confini”.

Ha ragione Salman Rushdie, ha ragione il ministro Maroni: le mafie – camorra, ’ndrangheta, Cosa nostra – colpiscono quando e dove vogliono. E colpiscono, o minacciano di colpire, nei momenti da loro scelti, per tenere viva, ben presente, l’arma dell’intimidazione. Anche se oggi fingiamo di scoprire qualcosa di nuovo, questa situazione va avanti da mezzo secolo. Se i Casalesi uccidono a Castel Volturno degli immigrati senegalesi, per punire esemplarmente uno sgarro, vengono inviati in zona 500 parà in assetto da guerra, pensando di essere tornati all’ottocentesca guerra contro i briganti, e qualcuno insinua il sospetto di razzismo. Ma i camorristi non sono razzisti, nel razzismo c’è una componente di stupidità del tutto estranea al feroce raziocinio mafioso. E a Casale di Principe lo zio di un pentito, naturalmente italiano, viene abbattuto con diciotto colpi di pistola a poche decine di metri da una postazione della Folgore. Che cosa potevano fare i militari? Nulla. I sicari mafiosi non sono i briganti d’antan, e nemmeno i kamikaze di oggi: sono professionisti della morte. E le mafie, le nostre mafie, non sono nemmeno delle associazioni di serial killer assetati di sangue, ma delle potenti holding finanziarie e imprenditoriali, che prosperano con traffici illegali e imprese legali, in tutta Italia e all’estero, in grado di controllare territori e mercati con la già citata arma dell’intimidazione. Con agganci, a livelli diversi, con la politica e le Istituzioni.
Diciamo la verità, queste cose non sono state scoperte con Roberto Saviano e i Casalesi: le abbiamo sempre sapute. Quando lo scrittore, che ha 28 anni, non era ancora nato, si parlava della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, che con i poteri dello Stato aveva rapporti strettissimi di mutua collaborazione. Cambiano i nomi dei boss, cadono le teste degli esecutori, ma le mafie restano: e siamo talmente abituati a questa presenza che ce ne rendiamo conto solo ogni volta che la camorra, la ’ndrangheta, Cosa nostra, decidono di riaffermare in maniera spettacolare il loro dominio. Dopo l’eccidio dei ghanesi a Castel Volturno, il ministro Maroni ha dichiarato che “quella che si combatte in Campania è una guerra civile che la camorra ha dichiarato allo Stato”. E Ignazio La Russa, ministro della Difesa, lo ha corretto, affermando che si deve parlare “piuttosto di guerra tra bande”. Guerra civile? Guerra tra bande? Entrambe le letture, anche se polemicamente contrapposte, configurano uno scenario inedito, inatteso. Ma se guardiamo indietro nelle cronache dei decenni passati, vediamo che si tratta di ordinaria amministrazione mafiosa.
Insomma, per quanto riguarda la criminalità organizzata, nulla di nuovo sotto gli italici cieli. Del resto, sia la politica - di governo e di opposizione - , sia la cosiddetta opinione pubblica, se ne interessano solo in occasione di episodi eclatanti, mentre la sostanza, la base resta quella che è da decenni. “E’ intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008?” Sì. E dovremmo dirci che anzi è qualcosa di peggio.

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