E’ un'emergente, Elisabetta Pasquali, (Il gusto del picchio, ed. Robin, 2008) a scrivere e stupire con il suo romanzo.
373 pagine che scorrono sotto gli occhi del lettore, capaci di rendere vivide le scene descritte. E' un romanzo psicologico, dove le descrizioni delle espressioni delle due protagoniste fanno vivere il loro percorso interiore e inducono il lettore alla compassione, intesa nel suo senso etimologico.
E' la storia di due donne, Elena e Clara, e delle loro famiglie. Elena è una giovane psicoterapeuta, che accetta di avere come paziente Clara, una ragazza che vive male il ricordo del suo passato e non accetta il suo presente.
Le due donne sono apparentemente diverse, in realtà sono spinte una verso l'altra in maniera compulsiva, arrivando a non potere rinunciare alla loro amicizia, che diventa in breve tempo sempre più ossessiva.
Elena infrange il suo codice deontologico, secondo il quale è vietato entrare nella vita del paziente, se non attraverso la sua mente, durante la seduta, finita la quale non esiste più alcun tipo di rapporto. Sa cosa sta facendo, sa di sbagliare, ma tenta disperatamente di difendere Clara dalla sua stessa mente, facendo lei da scudo. Esattamente il contrario di quello che richiede la terapia psicoanalitica.
Come tutte le ossessioni, anche la loro porta a un finale tragico, che il lettore, fino all'ultima pagina, sente incombere, senza immaginare come si concretizzerà.
Elisabetta Pasquali insegna italiano e latino in un liceo scientifico di Bologna e i suoi studenti non possono che cercare di carpire dalla loro insegnante l'estetica della sua scrittura che, dato l'argomento trattato, poteva risultare pesante e annodata su se stessa.
Musicalità e sapiente uso della parola, sono le componenti essenziali per contraddistinguere uno scrittore. Pasquali, oltre alla trama avvincente, ha saputo fare questo.
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“Se la normalità è una malattia”
Questo è il tuo primo libro, cosa ti ha affascinato nello scriverlo?
Più che affascinato mi ha piacevolmente stupito il “miracolo” grazie al quale la vicenda ha preso corpo ed è riuscita a diventare una storia.
Quando mi sono seduta al computer la prima volta avevo solo una vaga idea di quello che avrei scritto, i personaggi erano appena tratteggiati e non c’era davvero nulla di definito. Poi però, pagina dopo pagina, s’incastrava tutto alla perfezione, fiorivano le idee, la scrittura stessa mi suggeriva immagini e metafore che al di fuori di quel contesto non mi sarebbero mai venute in mente.
Mentre scrivevo, pensavo sempre al libro che mi sarebbe piaciuto leggere. Scrivere significa soprattutto confrontarsi, con se stessi, con gli altri e con la realtà che ci circonda.
Quale delle due protagoniste ti affascina di più?
Clara, la paziente, ha un fascino pesante, impegnativo, difficile da gestire perché connaturato alla malattia e al dolore che la pervade. Elena invece non è un personaggio che definirei affascinante ma di sicuro con lei avverto più affinità.
Anche fisicamente mi assomiglia, a lei ho prestato episodi della mia infanzia e certe mie abitudini che poi hanno finito per caratterizzarla. Per altri aspetti invece è esattamente il mio opposto.
Anzi, a dire la verità, quando ho creato Elena De Pisis sono partita da me stessa e ho provato ad immaginare come sarebbe stato il mio vissuto se le circostanze mi avessero riservato un destino simile al suo.
Per fortuna, però, a me è andata diversamente…!
Freud sosteneva che lì troviamo il nucleo della parte oscura della nostra mente. Esiste, a tuo parere, una normalità familiare?
Non è tanto l’aggettivo “familiare” che metterei in discussione quanto il sostantivo “normalità”.
Che cosa significa essere normali? Obbedire a dei clichet, vivere nel rispetto di un codice condiviso, fare e pensare tutto quello che gli altri pensano e fanno?
Se questo è essere normali sono d’accordo con Eva Robins, che un giorno durante un’intervista mi disse: “la normalità è una malattia di cui spero che non mi ammalerò mai”.
Quella di Clara Schiassi è una famiglia apparentemente normalissima, padre avvocato, madre che vive all’ombra dell’illustre consorte, una bella casa in centro, una vita agiata. Ma il loro armadio è pieno di scheletri, anzi, di cadaveri in putrefazione che puzzano di vergogna.
Al contrario la famiglia di Elena sembra molto più fredda e meno compatta ma in realtà cementata da un affetto vero e profondo che non ha bisogno di trovare conferme in una esteriorità artefatta.
(Intervista a cura di Simona Mammano)
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