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Agosto-Settembre/2008 - Interviste
Forze di polizia - Intervista a Claudio Giardullo
“Le nuove strategie per la sicurezza contraddittorie e poco efficaci”
di Intervista a cura di Paolo Pozzesi

Claudio Giardullo, segretario generale del sindacato
di Polizia Silp per la Cgil, sottopone a un esame critico
i provvedimenti governativi che riguardano l’attività
delle Forze dell’ordine. “Complessivamente registriamo
che ci sono iniziative concrete che non solo vanno
in netta controtendenza rispetto alle promesse
elettorali, ma riducono fortemente le possibilità
di controllo e di intervento degli operatori del settore”


I sindacati di Polizia sono molto critici nei confronti dei tagli economici previsti dal governo, che metterebbero seriamente a rischio l’efficienza delle Forze dell’ordine. Eppure la campagna elettorale condotta dall’attuale maggioranza aveva puntato in larga misura proprio su una diffusa percezione di insicurezza, che si è poi tradotta nei risultati del voto, sul piano nazionale e anche su quello locale, come a Roma. Adesso, alla resa dei conti, in che modo si configurano concretamente le misure contenute nel “pacchetto sicurezza” del governo?
Intanto le misure vanno persino in contro tendenza rispetto a quello che l’attuale maggioranza di governo aveva dichiarato programmaticamente in campagna elettorale, perché la prima cosa che si nota è il ridimensionamento del ruolo della sicurezza pubblica. Poi vedremo che ci sono due tendenze, e cioè da una parte l’impiego dei militari, che poi approfondiremo, e dall’altra il trasferimento graduale di alcuni poteri dalla sicurezza pubblica agli Enti locali. Mentre in campagna elettorale avevano detto “noi rafforzeremo il sistema di sicurezza pubblica, daremo maggiore attenzione alle Forze di polizia”, ora sta succedendo esattamente il contrario, sia sul versante strategico, cioè quello delle misure che vengono adottate, sia sul versante finanziario.
Sul versante strategico, anziché rendere più efficiente, e più efficace, la legge Bossi-Fini, si sceglie la strada della semplice repressione, che però è difficilmente attuabile perché già l’aggravante della clandestinità prevista nel decreto che è stato convertito in legge, il decreto sicurezza, determinerà un notevole aggravio di lavoro sia per il circuito di Polizia sia per il circuito giudiziario.
Se poi dovesse essere approvato quello che è previsto nel disegno di legge, e cioè il reato di ingresso clandestino, allora questi due circuiti, quello giudiziario e quello di Polizia, avrebbero un collasso per l’impossibilità di far fronte al nuovo carico di lavoro che si determinerebbe con tutte le procedure, sia dal punto di vista di accertamento di Polizia sia dal punto di vista giudiziario. Il che è l’esatto contrario di una maggiore efficienza della legge sull’immigrazione. In realtà il vero obiettivo in una moderna politica di governo dei flussi migratori dovrebbe essere puntare prevalentemente sugli aspetti sociali e sul lavoro. Poi, ovviamente, siccome ha una importanza fondamentale anche la legalità, si devono rafforzare e rendere più efficienti i meccanismi di espulsione. In realtà non si affronta questa ultima questione, e va segnalato che con le norme che vengono approvate in questi mesi, quei meccanismi saranno meno efficaci e meno elastici.
Ora bisogna andare al cuore del problema delle espulsioni. In realtà non si riesce ad identificare e ad espellere più del 20% delle persone che vengono fermate e che vengono trattenute nei vecchi centri di permanenza temporanea, come venivano chiamati prima della legge, ora centri di identificazione ed espulsione. Quindi, si riesce ad espellere non più del 20% dei clandestini, il che vuol dire che per il restante 80% delle persone che noi fermiamo e tentiamo di identificare, scaduti i 60 giorni previsti dal pacchetto sicurezza, viene rimesso in libertà nel territorio nazionale. Il che vuol dire che è più facile espellere la persona che, magari, non ha precedenti penali, per i quali non c’è bisogno dell’autorizzazione della magistratura, e ha addirittura i documenti, che non la persona che ha commesso diversi reati nel nostro Paese, e questo a causa delle procedure che sono attualmente in vigore con le quali spessissimo non si riesce a identificare, o ad avere l’autorizzazione dal magistrato, entro il termine necessario.
Ancora una volta, con i provvedimenti che sono in discussione in Parlamento, non si punta a rendere più efficiente il sistema, non si guarda al perché non si riesce ad espellere più del 20% dei fermati. La soluzione potrebbe essere, tendenzialmente, quella di nuovi accordi bilaterali con i Paesi di origine, quindi un lavoro sul piano diplomatico, soprattutto per rendere più facile il l’identificazione e l’accettazione da parte del Paese di provenienza della persona che è presente irregolarmente nel nostro territorio.
Un’altra cosa che si dovrebbe fare è rendere più veloci, elastiche, anche le procedure con riferimento alle pendenze giudiziarie. Se per espellere una persona che magari ha venti procedimenti penali aperti nel nostro Paese, abbiamo bisogno di venti autorizzazioni di magistrati, è facile che neanche i 60 giorni oggi previsti dal decreto, possano essere sufficienti per identificare e mandare via una persona. Quindi è un lavoro a monte che si dovrebbe fare da questo punto di vista, e cioè rendere aderente, in sintonia, la norma con la realtà del nostro Paese.
Il numero delle persone che vengono accettate con il decreto flussi è assolutamente al di sotto delle esigenze reali. Se il decreto flussi non autorizza un numero sufficiente di immigrati a lavorare nel nostro Paese, penso in particolare agli stagionali, la conseguenza è l’incentivo alla clandestinità, perché le aziende agricole hanno bisogno di raccogliere i loro prodotti in tempi stretti. Dunque, se a monte il decreto flussi non risponde alle esigenze di mercato si trasforma in un incentivo alla clandestinità.
Sul versante strategico, dicevo prima, vi sono nel governo due tendenze di fondo che coesistono con molta fatica, perché idealmente e culturalmente rispondono a principi diversi. Una riguarda l’impiego dei militari in servizio di ordine pubblico e di sicurezza nel territorio. Questa scelta non rafforza il sistema di sicurezza. Al massimo consente solo di abbassare, nel breve periodo, l’allarme sociale. Ma il nodo vero è che operazioni di questo tipo costano tanti soldi ed hanno un’efficacia reale trascurabile, perché quando sono finiti i soldi non lasciano sul territorio alcun presidio permanente di sicurezza. Non lasciano un commissariato in più, un posto di Polizia in più, una Volante in più che possa girare. Mentre proprio di questo il nostro Paese avrebbe bisogno, cioè di interventi strutturali e di un maggior controllo del territorio, più capillare, perché in una società del mondo occidentale, come la nostra, il controllo del territorio non è occupazione militare, ma è soprattutto conoscenza del territorio.
Quindi si sta invertendo con una concezione antiquata e assolutamente superata, secondo la quale è sufficiente una occupazione militare perché le questioni di sicurezza del territorio possano essere avviate a soluzione.
Questa è una delle due tendenze all’interno di questa compagine governativa. L’altra, molto bene identificabile, è quella secondo la quale il sistema di sicurezza pubblica dovrebbe essere progressivamente ridimensionato, attraverso un trasferimento graduale dei poteri verso gli Enti locali. Questo sta già succedendo con il decreto che è stato convertito in legge (per i sindaci). Il problema, ancora, non sono i poteri che in questa tornata sono stati trasferiti ai sindaci e agli Enti locali. Pericolosa è la tendenza in atto, cioè l’idea della sostituzione dei sindaci agli organi di pubblica sicurezza, perché questa fa passare la sicurezza pubblica da questione nazionale, così come prevede il Titolo V della Costituzione, nazionale perché la sicurezza è un potentissimo fattore di coesione sociale, ad una questione prevalentemente locale.

Cioè, si vuole andare verso una forma di federalismo anche per quanto riguarda gli aspetti della sicurezza?
Sì, nella migliore delle ipotesi, perché poi in realtà il federalismo vero, da questo punto di vista, richiederebbe un sistema come quello statunitense dove c’è a monte una divisione tra i reati. Per cui ai reati locali corrisponde l’attività delle Polizie locali, ai reati federali corrisponde l’attività delle Polizie federali. Quello è un sistema armonico, ovviamente discutibile, ma almeno ha una sua filosofia compiuta. C’è una divisione di reati, c’è una divisione di Polizie tra il livello federale, il livello statale, e il livello locale. Noi, invece, mentre manterremmo, coerentemente con il tipo di ordinamento che abbiamo, il sistema penale unico, senza alcuna distinzione di reati di tipo statale e reati di tipo locale, consentiremmo a diverse Polizie di occuparsi di qualsiasi reato, con gravissimi problemi dal punto di vista del coordinamento, della duplicazione dei ruoli, e in qualche caso dell’impossibilità, soprattutto delle Polizie locali, di occuparsi di reati che ormai richiedono una visione che va al di là dei confini del Comune. Infatti, nessuno deve dimenticare che per quanto poteri si possano riconoscere al sindaco, i suoi poteri hanno un limite territoriale. Sono i confini del Comune. Ora immaginare, nel terzo millennio che si possano combattere i reati guardando esclusivamente ad una dimensione squisitamente comunale o quando anche che fosse nel tempo regionale, significa non avere consapevolezza del fatto che ormai il mondo criminale è sempre più globalizzato, con delle interconnessioni, persino a livello internazionale, che sono fondamentali.
Oggi si fa sicurezza agendo sul piano locale ma leggendo i dati sul piano globale. Quindi un conto è realizzare politiche integrate di sicurezza, per cui accanto all’attività delle Polizie statali si può avere una importante presenza dell’attività delle Polizie locali in settori specifici, ben determinati. Penso alla Polizia amministrativa, per esempio, che non è una Polizia di serie B, ma è sempre più di serie A, che incrocia il gioco d’azzardo, tutte le illegalità edilizie, e incrocia anche il riciclaggio del denaro sporco attraverso il controllo degli esercizi commerciali. Stiamo parlando di una attività di Polizia di primo ordine.

Si riferisce alla Guardia di Finanza?
Non solo. Io la guardavo dal punto di vista dell’attività della Polizia locale. Se si parte dall’idea che nel territorio urbano tutti si possono occupare delle stesse cose, la criminalità diffusa, lo scippo, la rapina nei negozi, ecc., il rischio di duplicazione è inevitabile, come è inevitabile che alcuni settori rimangano scoperti.
Il nostro Paese ha il problema del funzionamento del sistema dei controlli a qualunque livello, per questo puntare sul solo controllo di legalità di polizia e magistratura, vuol dire avere un modello molto vicino a quello sudamericano, e non impedire che il livello di legalità si abbassi, come purtroppo sta avvenendo.

Quale dovrebbe essere la linea da seguire?
Occorrono politiche integrate, dove accanto all’azione di Polizia delle Polizie statali ci sia una efficace e coerente attività di Polizia locale, e anche un corretto utilizzo di una risorsa che può essere la vigilanza privata. Però, tutto in chiave armonica. E non, come sta succedendo, mettendo in moto meccanismi normativi che prima o poi finiranno per creare duplicazioni, senza definire bene i campi di intervento, e, tra l’altro, con risorse anche relative. Quei sindaci che oggi rivendicano un potere di Polizia, e che però non avranno a disposizione una rete di intervento, si accorgeranno, infatti, che quel potere può essere un boomerang.
Comune denominatore di tutte e due queste tendenze è il più grosso taglio di risorse che sia mai stato fatto nel nostro Paese a danno del sistema di sicurezza pubblica.
Un miliardo di euro il taglio per la sicurezza, 277 milioni di euro è il taglio finanziario sul personale. La riduzione degli organici porterà in cinque anni la sola Polizia di Stato ad avere 6mila operatori in meno di quelli che ha oggi. Questa riduzione di organico sommata ai 9mila di sott’organico che abbiamo adesso, determinerà una riduzione di organico a regime, fra cinque anni, di quasi 15mila operatori per la sola Polizia di Stato. 40mila operatori tra il Comparto Sicurezza e Difesa. Questo determinerà inevitabilmente una minore capacità del sistema sicurezza nel rispondere alle domande dei cittadini.
Il nostro lavoro si svolge prevalentemente sul campo, la tecnologia ovviamente ci dà un aiuto enorme, sia in termini di efficacia che in termini di efficienza, ma la tecnologia non potrà mai sostituire il fattore centrale di questo lavoro, il fattore umano. E il maggiore taglio avverrà esattamente sul versante del personale. Anche questo è incomprensibile e pericoloso.
Accanto ai tagli che riguardano il personale, enormi sono i tagli alle spese che riguardano l’attività di sicurezza nei diversi ministeri.
Un miliardo per un settore che ha già subito negli ultimi anni una riduzione progressiva delle risorse si farà sentire già dai prossimi mesi. Per questo è necessario che la legge Finanziaria 2009 contenga investimenti significativi in questo settore.

Qual è stata la posizione del ministro dell’Interno Roberto Maroni di fronte a queste decisioni e alle loro prevedibili conseguenze?
Il ministro Maroni, così come quello della Difesa, rispetto ai tagli, da una parte non può disconoscerne l’esistenza, dall’altra, ovviamente, difende l’iniziativa governativa, anche se la subisce. La difende, perché, dicono i Ministri interessati a questo settore, che si tratta di un taglio lineare nei confronti di tutti i Ministeri, e in questa prima fase lo dobbiamo accettare anche noi, per poi recuperare nella fase della Finanziaria.
In realtà il Paese si sarebbe aspettato, pochi mesi dopo una campagna elettorale che si è incentrata prevalentemente sulla questione della sicurezza, un diverso trattamento dei Ministeri che si occupano di sicurezza. Perché la sicurezza è, nel sentire dei cittadini, una priorità, e, dunque nessuno si sarebbe meravigliato se le Forze di polizia non avessero avuto alcuna decurtazione, ed anzi investimenti, perché alle Forze di polizia si chiede una risposta di più alto livello.
Dal governo ci saremmo aspettati una scelta diversa per questi settori Invece si taglia, come se non fossero al vertice della priorità, e poi, si taglia come se questi settori non fossero stati tra i più produttivi di questi anni. Anche questo bisogna dire. Il settore della sicurezza è stato tra i più produttivi perché si è chiesto agli operatori delle Forze di polizia di lavorare di più e in condizioni sempre più difficili: lavoro notturno, lavoro festivo, lavoro in condizioni ambientali a volte estreme. E si sono ottenuti eccezionali risultati. I più emblematici sono l’arresto di Provenzano e di Lo Piccolo, i due maggiori capi mafia del momento, l’arresto degli esecutori dell’omicidio del vice presidente Fortugno del Consiglio regionale in Calabria, assieme ai tanti altri risultati ottenuti in questi anni in tutte le aree del Paese.
Peraltro nella manovra finanziaria, sono previste soluzioni di finanziamento che non danno garanzia di stabilità, di interventi strutturali. Il governo dice che c’è un miliardo e mezzo di beni confiscati alla mafia che potrebbero essere destinati alla sicurezza, ma in realtà sa che questi sono soldi che non possono essere investiti in maniera strutturale nella sicurezza. Perché un anno si può avere un miliardo e mezzo di beni confiscati, e l’anno dopo non avere niente.
Peraltro, proprio la legge sulla confisca dei beni mafiosi prevede già alcune priorità che non possono essere derogate. La prima priorità di spesa per i soldi che provengono dalla confisca dei beni mafiosi è l’utilizzo delle risorse per mantenere in vita gli stessi beni mafiosi confiscati ad evitare che deperiscano in breve tempo. La seconda priorità prevista per legge è il finanziamento del fondo che riguarda le vittime della mafia. Quindi solo dopo aver rispettato le priorità previste dalla le risorse residue potrebbero essere destinate alla sicurezza, ma in una misura che non è certamente preventivabile.
Quindi il governo da una parte opera tagli certi e immediati, dall’altra offre risorse che non possono essere quantificate e che sono eventuali. Il tutto porta inevitabilmente a concludere che per il governo l’obiettivo non è il rafforzamento del sistema di sicurezza pubblica.

A proposito di sicurezza e cittadino, c’è una figura che ci si potrebbe chiedere che fine farà in tutto questo, cioè il mitico “poliziotto di quartiere”.
Il poliziotto di quartiere in astratto è una figura positiva in un moderno sistema di sicurezza.
Noi lo abbiamo importato dal modello anglosassone. Diventa più un intervento di facciata quando si pensa di impiegare il poliziotto di quartiere non accanto ma al posto dell’attività di controllo del territorio, come è successo negli ultimi anni.
E’ aumentato, infatti, il numero dei poliziotti di quartiere, ma sono diminuite le risorse per il contrasto dell’attività criminale. Sono aumentati i poliziotti di quartiere ma sono diminuite le Volanti e gli operatori nei commissariati. Ora, questo scambio è molto pericoloso. Il poliziotto di quartiere svolge un’attività che è mirata a far aumentare la fiducia nei confronti delle Forze di polizia, il contatto e l’informazione sono fattori fondamentali per una moderna politica della sicurezza, ma a condizione che siano complementari e non sostitutivi rispetto all’attività di contrasto, perché altrimenti siamo di fronte ad una pura operazione di facciata.
Per cui il poliziotto di quartiere può essere una figura importante, ma a condizione che sia integrato nel sistema dell’attività di prevenzione e contrasto.

Quando si parla di sicurezza in senso generale, spesso si trascura, o si dimentica, l’elemento umano e professionale, che sono i poliziotti, dei lavoratori chiamati a svolgere un’attività molto difficile, e anche pericolosa. Quali conseguenze le misure previste hanno sulle loro condizioni di lavoro, e di vita?
Naturalmente, è bene ripeterlo, non si può prescindere dalle politiche per il personale.
Nel decreto 112 l’altra cosa incomprensibile, oltre ai tagli agli organici ed alle spese, è anche il disconoscimento della specificità funzionale degli operatori di Polizia e delle Forze armate.
Il nostro è un lavoro particolarmente esposto a rischi personali, o anche a condizioni ambientali di grande aggravio psico-fisico, e non si comprende come gli interventi di questi giorni tendano invece ad omologare, e quindi a non riconoscere la specificità di questo lavoro, rispetto agli altri comparti.
Una norma emblematica, che rientra nel piano Brunetta, è quella che fa togliere le indennità operative nei primi dieci giorni di malattia, anche se dipendente da causa di servizio. Questa norma penalizza soprattutto gli appartenenti al Comparto sicurezza e alle Forze armate, che sono più esposti dal punto di vista psico-fisico, e che hanno uno stipendio ormai costruito in buona parte sulla produttività.
E quindi da una parte si chiede maggiore produttività agli operatori del comparto sicurezza, e dall’altra li si penalizza proprio per il loro maggiore impegno. Tutto questo è incomprensibile e inaccettabile.

Ritiene che nel campo della sicurezza vi siano modelli, ad esempio di altri Paesi europei, ai quali ci si potrebbe ispirare?
E’ difficile importare un modello in una situazione sociale, e anche criminale, come quella del nostro Paese. Si parte da condizioni profondamente diverse tra un Paese e l’altro, persino in ambito europeo.
Il nostro Paese, purtroppo, ha un primato negativo. Noi siamo il Paese con la maggiore presenza di mafiosi in servizio permanente effettivo di tutto il mondo occidentale. Questa cosa non può essere trascurata, dal punto di vista dell’impegno in termini di risorse economiche, di risorse umane, tecniche, un impegno notevolissimo, di enorme portata.
Quindi inevitabilmente il modello operativo non può non risentire di questa specificità negativa.
Poi, siamo un Paese cerniera dal punto di vista geografico. Cerniera tra Nord e Sud del mondo, tra Est ed Ovest. Il che vuol dire che siamo al centro di traffici di ogni tipo, come il traffico delle persone, degli organi, degli stupefacenti, delle armi ecc. Per cui è inevitabile che il nostro modello operativo debba tenere conto di questi aspetti.
E siamo un Paese dove sarebbe sbagliato pensare che la minaccia terroristica si sia affievolita, e che non debba più preoccupare.
Quindi il modello deve essere quello di una grandissima attenzione a tutte le grandi illegalità e minacce che sono quelle della mafia e quelle del terrorismo. Con l’aggiunta a una grande attenzione, ovviamente, alla criminalità diffusa e alla sicurezza urbana, la cui preoccupazione di fondo è ormai comune a tutto il mondo occidentale.
Si tratta quindi di integrare diversi modelli, quello nostro nel contrasto alla criminalità organizzata e mafiosa, con un modello che è più di tipo anglosassone, di grandissima attenzione alla sicurezza urbana. Occorre avere grandi capacità strategiche, che non mi sento di riscontrare nelle scelte di governo di queste settimane.

Perché secondo lei l’opinione pubblica sembra percepire meno la grande criminalità che la microcriminalità?
Questo è inevitabile. La criminalità che riguarda direttamente e immediatamente il cittadino è più percepibile. La paura di una rapina quando vai alla posta, o di una rapina in casa, o di una truffa nei confronti degli anziani. Ovviamente sono queste le maggiori paure per il cittadino normale.

Non ci potrebbe essere un fenomeno di assuefazione?
A volte c’è anche assuefazione, ma questo non fa diminuire la paura. Lo dicono i dati di questi ultimi giorni. Sta salendo oltre l’80% l’opinione di quegli italiani che pensano che la criminalità sia in aumento anche quando statisticamente non è così, e che hanno paura della criminalità.
Hanno più paura della criminalità “predatoria”, quella che riguarda l’incolumità fisica, le rapine, i furti, gli scippi. Vedono lontana quella criminalità che un Paese civile non può comunque sottovalutare, quella dei colletti bianchi, quella dei grandi crimini economici e finanziari che hanno, in ogni caso, come vittima il cittadino comune.
Un Paese moderno, che appartiene agli otto Paesi più industrializzati del mondo, che ha la nostra storia, e la consapevolezza di quanto la criminalità mafiosa e il grande crimine finanziario abbiano influito sulle nostre scelte complessive, deve saper tenere alta la lotta a queste minacce alla nostra sicurezza e alla nostra libertà.

Nei fatti, il fenomeno criminale è in aumento o no?
Questa valutazione va fatta guardando al lungo periodo, e nel lungo periodo il numero dei reati è in aumento. Qualcuno ha messo a confronto soltanto gli ultimi sei mesi del 2007, con gli ultimi sei mesi dell’anno precedente, e ha registrato una diminuzione. Però così facendo non si tiene conto di un dato importante.
I secondi sei mesi del 2007 registrano il naturale affievolirsi dell’onda lunga dell’indulto attuato l’anno precedente. Se in quel semestre non ci fosse stato un calo dei reati sarebbe stato davvero preoccupante per il Paese.


FOTO: Claudio Giardullo

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