“La vittoria del progetto di ricostruire la leadership politica e morale dell’America, una leadership di cui tutto l’Occidente – paralizzato dalla paura – ha un enorme bisogno”: con queste parole Walter Veltroni ha commentato da Denver il discorso di Barak Obama per la nomination alle elezioni presidenziali di novembre. Intendiamoci, non vogliamo dire che i giudizi e le previsioni di Veltroni siano sempre perfettamente indovinati, ma in questa occasione ci sembra che l’ex ragazzo prodigio delle Botteghe Oscure abbia sintetizzato, unendo ansia e speranza, una realtà che difficilmente potrebbe essere più complessa e intricata. Senza per questo, va precisato “tradire” le sue origini, ma al contrario utilizzando la memoria dei decenni che hanno segnato il secondo dopoguerra. La vituperata, ma anche segretamente rimpianta, “guerra fredda”. Un giocattolo che i due massimi contendenti rimasti sulla scena mondiale avevano fabbricato, con un misto di saggezza e di cinismo, e che poi entrambi hanno concorso a smontare.
La “guerra fredda” era, appunto, fredda. Washington e Mosca erano attentissimi a denunciare con virtuosa veemenza la trave nell’occhio dell’altro, nella convinzione generale che alle denunce non sarebbe seguito nulla di fatto. Gli accordi, o meglio la logica di Yalta (qualcuno ricorda ancora Yalta?) stabilivano la divisione delle due sfere di influenza, che nessuno si sognava di mettere in questione. La Cina era lontana, arretrata, e guardata da entrambi i contendenti con pari diffidenza. Libertà e diritti civili venivano ignorati a Est, e non di rado disattesi a Ovest. Ma se ai polacchi o agli ungheresi veniva in mente di ribellarsi, potevano contare sulla sentita solidarietà occidentale, e lo stesso, a ruoli invertiti, accadeva per il Guatemala o il Cile. E tutto finiva lì.
Nell’Europa occidentale, per quanto riguardava le prospettive in campo internazionale, la situazione era tutto sommato largamente accettabile. Si poteva tranquillamente essere “antiamericani”, nella consapevolezza che comunque non vi erano alternative verosimili all’alleanza atlantica. In Spagna e in Portogallo vegetavano due arcaiche dittature, ma in Italia e in Francia governi di destra o di centro-destra convivevano con grandi e potenti partiti comunisti, in un difficile e ben rodato “gioco delle parti” che consentiva di mantenere (e in qualche caso, come in Italia, a difendere) il tessuto democratico. Del terrorismo islamico non esisteva neppure il nome: se un Osama bin Laden si fosse azzardato a comparire con i suoi appelli jihadisti, americani e sovietici lo avrebbero disintegrato nello spazio di un mattino. Insomma, si viveva un clima di dosata tensione alla quale si era fatta l’abitudine, senza eccessive preoccupazioni. In uno dei suoi abituali scatti di sincerità, Enrico Berlinguer aveva esplicitamente affermato di trovarsi benissimo sotto “l’ombrello della Nato”. Ma il gioco non sarebbe durato per sempre, e forse non poteva durare. Anche se nessuno aveva previsto quello che sarebbe accaduto in seguito.
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L’improvvisa e brutale spedizione punitiva contro la Georgia nello scorso agosto ha segnalato in maniera inequivocabile che Mosca intende tornare ad essere una grande potenza, ha i mezzi per sostenere questa ambizione, e intende usarli. La caduta del muro di Berlino, il disfacimento delle strutture statali sovietiche, lo sganciamento degli Stati satelliti dell’Europa dell’Est, la diaspora di alcune repubbliche europee e asiatiche, appartengono al passato. Dopo quasi dieci anni di sbandamento, di bancarotta, di una traumatica perdita di prestigio, l’andata al potere, nel 2000, di Vladimir Putin e della casta che lo sostiene – in buona parte proveniente dalla burocrazia dei servizi segreti – ha segnato l’inizio della rimonta.
L’Urss è defunta, ma la Russia è velocemente rinata: più snella, economicamente forte e ricca di riserve valutarie, militarmente potente (anche grazie all’ingente bagaglio nucleare ereditato), libera anche formalmente da vincoli ideologici. Niente più ingombranti “partiti fratelli”, niente più costose alleanze con Paesi in via di sviluppo con l’illusione di farne dei validi alleati. Quanto al comunismo, nei decenni sovietici in Russia se n’era visto tanto poco che nessuno ne aveva sentito la mancanza. Così la nuova nomenklatura del Cremlino ha messo a punto un sistema capitalistico in tutto simile a quello dei Paesi occidentali, tranne su un punto: la democrazia. Vladimir Putin e i suoi accoliti hanno astutamente valutato che una parvenza di libertà sarebbe stata largamente sufficiente per il popolo russo, che in fondo, nella sua storia, una vera libertà non l’aveva mai conosciuta. Di qui un pluralismo fittizio, elezioni al limite della farsa, ferreo controllo dei mezzi di comunicazione, mano pesante (fino all’omicidio) contro qualsiasi soffio di opposizione, e di conserva la nascita di una classe di supermiliardari, autentici “nuovi ricchi” strettamente legati al potere statale e agli ingenti profitti che ne derivano. Tutto questo coperto dal mantello nazionalista di un ritrovato splendore imperiale. Quello di Lenin e Stalin? No, quello degli zar, da Pietro il Grande in giù. Persino il vecchio Solgenitzin, l’emblema venerato delle aspirazioni democratiche di un popolo oppresso, prima di morire ha pubblicamente lodato Putin e il suo regime che “ha restituito l’onore” alla madre Russia. Del resto, anche dalle nostre parti qualcuno si è affrettato a dichiarare la sua solidale ammirazione all’“amico Vladimir”.
L’attacco alla Georgia – seguito a un pesante, e sbagliato, intervento del governo di Tbilisi contro i separatisti dell’Ossezia del sud -, e il riconoscimento dell’indipendenza della provincia ribelle, e di quella dell’Abkhazia, sembrano essere solo il primo passo, un gesto di sfida a chi vorrebbe dettare alla Russia delle regole di comportamento nei rapporti internazionali. E’ l’applicazione di una strategia a tutto campo, e a geometria variabile. Il fatto che la Polonia accetti di ospitare uno scudo spaziale diretto a controllare l’Iran è considerato un’ingerenza alle frontiere della Russia, e quindi Mosca annuncia la rottura dei rapporti di collaborazione. L’intervento nel Caucaso e il contenzioso polacco sono nel contempo un monito agli ex satelliti, all’Ucraina, alla Bielorussia, ai Paesi Baltici. Forte del suo seggio permanente al Consiglio di sicurezza, Mosca può intervenire liberamente nei contenziosi internazionali, e alle critiche, largamente interlocutorie, dell’Unione Europea risponde ricordando che è lei a tenere aperti o chiusi i rubinetti di gran parte del gas e del petrolio di cui abbiamo bisogno, e che potrebbe essere sbagliato fare conto, ancora una volta, sull’aiuto d’oltre Atlantico.
Con gli Stati Uniti, Putin è in qualche anno passato da un atteggiamento amichevole a un sempre più pronunciato antagonismo. Glielo hanno consentito anche otto anni di una presidenza che ha commesso errori disastrosi, primo fra tutti la guerra in Iraq, che hanno drasticamente indebolito il prestigio e la leadership dell’America. Quello che sembrava dover essere il “secolo americano”, rischia di vedere un declino che può creare solo timore e incertezza. Considerando i pericoli rappresentati da un terrorismo che si manifesta in fasi alterne, ma costanti, la difficilmente decifrabile incognita della Cina, e altre ancora.
Le elezioni presidenziale americane dovrebbero dirci se, e come, gli Stati Uniti recupereranno la loro posizione di guida e di garante. Chi sarà il più adatto a questo compito? Barak Obama o John McCain? In realtà sappiamo poco sia dell’uno che dell’altro. Ed è sempre opportuno astenersi dai paragoni con i presidenti di un passato che era completamente diverso dal mondo d’oggi. Purtroppo, o per fortuna, la scelta non spetta a noi. Noi possiamo lasciarci andare ai pronostici, alle speranze, e, volendo, ai rimpianti.
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