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Luglio/2008 - Interviste
Intervista
“Sono ebreo iracheno, di Montréal”
di a cura di Gianni Verdoliva

Lo scrittore Naim Kattan, in “Addio
Babilonia” parla delle radici di una comunità
oggi emigrata per sfuggire
alla persecuzione. Ma non dispera di vedere
un gorno Bagdad rinascere


Il suo libro più famoso “Addio Babilonia” uscirà in autunno per Lisi Editore. Naim Kattan, ebreo iracheno, scrittore e letterato al crocevia tra oriente ed occidente, è un signore d’altri tempi. Pacato e squisito. Soprattutto umile, malgrado gli innumerevoli riconoscimenti avuti nel corso della carriera.

Quale è il senso dell’addio del titolo del suo libro? Si tratta di un addio accompagnato da speranza, amarezza, tristezza, ecc? C’è un sentimento che predomina?
L’addio del libro è collegato a Babilonia che è stata il luogo di arrivo dei prigionieri ebrei di Nabucodonosor. E’ stata la prima comunità della diaspora e uno dei grandi luoghi dell’ebraismo dove il Talmud fu redatto. Questa comunità era in via di dissolvimento a causa della persecuzione ma anche a causa del presentimento della fine. L’addio è una constatazione.

C’è la Bagdad della sua infanzia e adolescenza e quella di oggi che somiglia ad un luogo maledetto. Si parla spesso del concetto di progresso ma a volte l’umanità sembra capace di fare dei salti indietro come nel caso dell’Iraq. Come scrittore che lezione ne trae?
Ho scritto che la cosa migliore che sia capitata alla comunità ebraica di Bagdad è di essere stata spinta a partire nel 1951. Questo ha permesso ai suoi membri di sopravvivere pur attraversando delle difficoltà. La maggioranza di loro è stata accolta in Israele.
Li incontro (compagni di classe, cugini, vecchi amici) a Montréal, a Londra, a New York e anche in Israele. La maggioranza è stata accolta in Israele. Alcuni hanno avuto successo in campo professionale. Ma l’importante è che ci siano ancora. La storia conosce a volte dei nuovi sviluppi e non dispero di vedere un giorno Bagdad rinascere.

Lei abita a Montréal. Si definisce cosmopolita? Ha un’identità precisa? In che modo questo influenza il suo pensiero ed il suo lavoro di scrittore?
Vivo a Montréal da oltre mezzo secolo. Per me, e l’ho scritto, si tratta di una città natale come lo sono state Bagdad e Parigi. Comincio sempre per dire che sono un ebreo di Bagdad. Poi, il mondo si apre a me. L’identità è composita e in movimento.
Montréal è la mia città ma questo non mi impedisce di essere ebreo, di cultura araba, francofono, canadese, del Québec. Ho scritto una quarantina di libri in cui esprimo la mia identità molteplice attraverso la scrittura.

In quanto ebreo iracheno la sua gente non è stata coinvolta dall’Olocausto che si è abbattuto sugli ebrei in Europa. Eppure la maggioranza delle persone non conosce nemmeno l’esistenza degli ebrei dei Paesi arabi.
Da bambino ho subito il farhoud, il pogrom pro-nazista a Bagdad nel 1941. Lo descrivo in Addio Babilonia. E’ stato traumatizzante. Malgrado ciò sento la Shoà come ebreo perché questo riguarda tutti gli ebrei. Attualmente più di un terzo della popolazione israeliana proviene dai Paesi arabi così come la maggioranza della comunità ebraica in Francia.

Lei è ortodosso e praticante ma di mentalità aperta. Deve lottare per conciliare questi due aspetti o le viene naturale?
In Iraq gli ebrei erano tradizionalisti. Lo sono da un punto di vista culturale e religioso. Non porto l’appellativo di ortodosso. Per me l’ebraismo è un universalismo che non contraddice la modernità.

Attualmente ci sono ancora circa una decina di ebrei che vivono a Bagdad. Ha dei contatti con loro? E se un giorno la situazione ridiventasse normale le piacerebbe ritornare nella sua città natale?
Non ho contatti con i pochi ebrei rimasti a Bagdad. All’epoca mia gli ebrei erano un terzo della popolazione della città. Per me Bagdad era anche una città ebraica. C’era l’idea di andare là a girare un film sulla mia infanzia per una compagnia canadese, ma quando le bombe hanno cominciato ad esplodere mi sono detto che avrei aspettato.

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