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Luglio/2008 - Articoli e Inchieste
Cinema & Politica
Un eccellente “Divo” Ma dov’è il protagonista?
di Belphagor

Un film realizzato da Paolo Sorrentino con grande bravura, originale nell’uso della macchina da presa, incisivo e carico di suspense. Bravissimi gli attori, dal protagonista Toni Servillo, a Paolo Graziosi (Aldo Moro), Flavio Bucci (Franco Evangelisti), Massimo Popolizio (Vittorio Sardella), Carlo Buccirosso (Cirino Pomicino), e a tutti gli altri. “Il Divo” ha ben meritato il premio della giuria al Festival di Cannes, e rappresenta per il cinema italiano un buon esempio di linguaggio nuovo, coinvolgente. Al film, così ricco di pregi, manca una sola cosa: manca il vero protagonista, quello che Sorrentino ha voluto narrare, Giulio Andreotti.
Sarebbe ingeneroso farne una colpa al regista, o agli attori. Neppure chi ha seguito, per interesse politico e motivi professionali, la lunga carriera politica di Andreotti è facile raccontarlo con le parole, figuriamoci metterlo in scena sullo schermo. Il film di Sorrentino è diligentemente documentato, segue un filo ineccepibile di fatti e situazioni che, dal secondo dopoguerra, sono stati i mattoni (a volte crollati) della storia del nostro Paese. E in questo tessuto il regista ha visto uno scontro drammatico, continuo, tra il Male e il Bene. Il Male, naturalmente, è lui, il Divo Giulio, come lo hanno sempre soprannominato amici e nemici, con un misto di malevolenza, ironia, e ammirazione. Il Bene è un’entità indefinita che assume nel corso del tempo connotati mutevoli e sfuggenti.
Eugenio Scalfari, che lo ha conosciuto bene (per quanto si può conoscere bene Andreotti) e lo ha volentieri criticato, dopo aver visto il film di Sorrentino, ha scritto: “Giulio Andreotti è un personaggio problematico, enigmatico, difficilissimo da classificare e da incasellare. Non somiglia a nessun altro. Nella galleria dei politici italiani è un ‘unico’”. E individua un solo precedente in Charles-Maurice principe di Talleyrand, l’abilissimo ministro che attraversò indenne la Rivoluzione, il Terrore, l’impero napoleonico, la restaurazione, fino alla monarchia di Luigi Filippo. “La tipologia è analoga: gusto del potere, cinismo, cattolicesimo, tradizione, trasgressione, ironia”. Il paragone è acuto, e sarebbe del tutto convincente, se non fosse che ad Andreotti è sempre mancata – anzi, ha sempre disdegnato – l’astuta fatuità salottiera di Talleyrand. Saremmo piuttosto tentati da un altro nome, che per la sua ovvietà potrebbe essere facilmente equivocato.
Tanto vale dirlo: Niccolò Machiavelli. Intendiamoci, non vogliamo sostenere che Giulio Andreotti sia stato (e sia ancora) “machiavellico”. No, Andreotti è stato, è e sarà sempre “andreottico” (“andreottiano” ha un significato quasi denigratorio), e nient’altro. Metterlo a confronto con il “segretario fiorentino” significa solo sottolineare la sua indubbia “unicità” collocandola nel contesto dei tempi in cui si è trovato ad operare, ad essere giudicato, e anche frainteso: vi sono personaggi di fronte ai quali non si sa se per valutarli correttamente bisogna fare lo sforzo di innalzarsi ad alte vette, o scendere in un profondo abisso a fare i conti con ciò che gli uomini fanno, e non con ciò che dovrebbero fare. “Già il fine che Machiavelli si prefisse, di innalzare l’Italia a uno Stato, viene frainteso dalla cecità, la quale vede nell’opera del Machiavelli nient’altro che una fondazione di tirannia, uno specchio dorato presentato a un ambizioso oppressore”, scriveva Hegel. Certo, Andreotti ha esercitato il suo potere molto di più e molto più a lungo di quanto abbia potuto fare Machiavelli, ma la sua azione politica ha sempre seguito la rotta indicata da una “filosofia della prassi” talmente sua che non l’ha mai compiutamente rivelata a nessuno (tantomeno ai suoi compagni di partito), convinto che non sarebbe stata né capita né accettata. E in effetti, non di rado quello che è apparso delle sue azioni appariva inaccettabile. O dovremmo dire “incomprensibile”?
Detentore di tutti i segreti, a conoscenza di tutte le trame che hanno funestato la storia della nostra Repubblica? Senza dubbio. I segreti non li ha mai rivelati, perché un segreto per definizione deve essere tenuto nascosto, le trame le ha sempre previste, sapendone in anticipo la meschina conclusione. Accusato e sospettato di tutto, a torto e a ragione. Probabilmente più spesso a ragione. Del resto è stato lui a sentenziare: “A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”.
Sembra incredibile, ma Giulio Andreotti non ha mai considerato nessun politico (a parte, forse, qualche democristiano) come un nemico. Questo lo rendeva difficile da maneggiare. Mario Melloni, che era stato nella Dc prima di passare al Partito comunista e diventare direttore di giornali di sinistra, e il mitico Fortebraccio che su l’Unità sferzava implacabilmente tutti gli avversari, di Andreotti preferiva non parlare. A chi gliene chiedeva il motivo, diceva: “Lo conosco bene, è onesto, leale, umanamente simpatico, di un’intelligenza prodigiosa, ma a volte detesto quello che fa”.
Andreotti e Moro: a proposito di ciò che li univa, Scalfari ricorda che entrambi era “inclusivi”, cioè “per rafforzare il potere erano pronti a includervi gli avversari o almeno alcuni di essi… Quando Moro fu rapito, lo stesso giorno in cui quel governo (con il Pci nella maggioranza, n.d.r.) si presentava alle Camere cominciò il suo calvario che si sarebbe concluso con la morte, il disegno politico del presidente della Dc fu di includere le Brigate rosse nel sistema democratico. Riconoscere il partito armato, salvare la propria vita, e dare alla lunga un’altra gamba alla democrazia italiana”. Scalfari aggiunge che “Andreotti era già andato più oltre: non avendo gli scrupoli morali di Moro aveva di fatto incluso nel sistema anche la mafia”.
Quello di Aldo Moro era certamente un errore, giustificato dalla sua drammatica situazione, e diciamo anche che non vi era nulla di “morale” nel legittimare gli assassini delle Br. Ma non è questo il punto. Andreotti, che “sapeva tutto”, sapeva benissimo che i brigatisti, dietro le loro farneticazioni, erano senza esserne coscienti delle marionette destinate presto a sparire. Dare loro un riconoscimento sarebbe stato, e qui citiamo Talleyrand, “peggio di un crimine, un errore”. La mafia era un’entità ben diversa, con la mafia i governi italiani avevano avuto a che fare fino dal 1860, non come fenomeno locale criminal-folkloristico, ma in quanto sistema politico-finanziario. Nell’Italia repubblicana la mafia garantiva voti a tutti i partiti di governo: Andreotti, che nel suo partito guidava una corrente numericamente debole, aveva cercato consensi in una Sicilia a lui del tutto estranea, tramite i suoi proconsoli, Lima e i cugini Salvo: tessere e voti in cambio di appalti e controllo degli Enti locali. Un orrore, ma non un errore: riteniamo che il “segretario fiorentino” avrebbe approvato. Poi, quando la mafia decise di aggiungere agli affari il traffico di droga, Andreotti non esitò a colpirla duramente.
Il film di Sorrentino elenca, con tacita indignazione, tutti i processi dai quali Giulio Andreotti è uscito, alla fine, indenne. E’ vero, e si deve lamentare che questo sia servito ad altri per proclamare una loro innocenza per fatti completamente diversi.
Andreotti non fu mai implicato in Tangentopoli. Le sue “colpe” si collocano su un altro livello, e (purtroppo?) la morale corrente non basta per giudicarle.

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