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Luglio/2008 - Articoli e Inchieste
Giallo storico
Il vero Shakespeare? Era un italiano
di Emilio Belfiore

Alla ricerca della vera identità dell’autore
di “Amleto” e delle altre opere attribuite
all’uomo di Stratford-upon-Avon. Nel saggio
pubblicato da un docente universitario
di Montréal la rivelazione del ruolo avuto
da Giovanni Florio, e dal padre Michel Angelo
con una inattesa partecipazione di Giordano Bruno


E’ molto più di un enigma, o di un intricata vicenda criminale nella quale le figure del colpevole e, persino, della vittima restano avvolte nel dubbio: potrebbe diventare un caso diplomatico (e non un casus belli solo perché le guerre tra Paesi europei non sono più di moda) da portare al Parlamento di Strasburgo. Si tratta, nientedimeno, di William Shakespeare, il Bardo, il Cigno, il drammaturgo e poeta insegna suprema nella nazione britannica, l’uomo di Stratford-upon-Avon, la cittadina del Warwickshire meta continua di devoti pellegrinaggi e sede di paludate manifestazioni teatrali. Shakespeare, insomma.
Ebbene, no. Quel William di Stratford – che si chiamava Shakspere, o Shakspeare, o Shexpir – non ha mai scritto le opere che gli sono attribuite. La sua scarsissima cultura non glielo avrebbe mai consentito, era solo il figlio di un guantaio, che, senza avere nemmeno finito le scuole primarie, era andato a Londra dove era diventato attore, poi impresario teatrale, e una volta raggiunto un certo benessere si era trasformato in proprietario di immobili e terreni, non disdegnando di praticare l’usura.
Certo, qualche dubbio sull’identità dell’autore dell’“Amleto” ha sempre avuto corso fra gli studiosi, e di volta in volta sono stati fatti i nomi del politico e filosofo Francis Bacon, dei drammaturghi Ben Jonson e Christopher Marlowe, del conte di Oxford, dell’esploratore e scrittore Walter Raleigh, del conte di Derby, di Elisabetta I, e di altri. Ipotesi sostenute dagli studiosi “anti-stratfordiani” sulla base delle numerose inverosimiglianze che appaiono nella biografia del Bardo, peraltro molto povera di riscontri precisi, di documenti, di testimonianze sicure. Comunque, anche su questo fronte la paternità delle immortali opere è sempre rimasta saldamente inglese.
Il quadro cambia del tutto con un ponderoso saggio (che riprende e sviluppa una tesi sostenuta nel 1929 dal giornalista Santi Palladino) pubblicato nel febbraio scorso. Autore: Lamberto Tassinari. Titolo: “Shakespeare? E’ il nome d’arte di John Florio” (Editore Giano Books, pagg. 380, ? 23). Laureato in filosofia a Firenze, Lamberto Tassinari si è trasferito nel 1981 in Canada, dove ha insegnato lingua e letteratura italiana all’Université de Montréal. Cofondatore e direttore dal 1983 al 1997 della rivista transculturale Viceversa, è autore di un saggio su Leopardi, e sta lavorando alla regia di “La Tempesta”, l’ultima opera attribuita a William Shakespeare.
Ma, afferma Tassinari, dietro quel nome si nascondevano Giovanni (John) Florio e il padre Michel Angelo, fiorentino, mentre al William Shakspere di Stratford, attore di scarsa reputazione ma abile impresario, sarebbero rimasti – per una serie di circostanze, e grazie a una subdola operazione di “nazionalismo culturale” – il merito e l’eterna fama. I Florio, chi sono costoro? “Stranamente i Paesi scelgono degli individui che non gli somigliano molto – aveva scritto a suo tempo Jorge Luis Borges, profondo conoscitore della lingua e della letteratura inglese – Si pensi per esempio che l’Inghilterra ha scelto Shakespeare, e che Shakespeare è, si può dire, il meno inglese degli scrittori inglesi. Shakespeare tendeva verso l’iperbole nella metafora, e non ci sorprenderebbe che sia stato italiano o ebreo”. Così, unendo istinto e cultura, il cantore di Buenos Aires senza saperlo aveva fatto un ambo secco.

* * *
“Il primo novembre 1550 – scrive Tassinari - un fuoriuscito italiano di origine ebrea, Michel Angelo Florio, ex-frate predicatore valdese ricercato dall’Inquisizione, traversa la Manica e sbarca nel grigiore di Londra. C’è chi dice che abbia con sé la moglie, secondo altri è solo e troverà poco più tardi, tra i fedeli della congregazione italiana di cui sarà pastore, una compagna”. In quegli anni Londra è la capitale di un’Inghilterra che si prepara a diventare un grande impero militare e commerciale, ma è ancora scarsamente popolata (tre milioni di abitanti) e, anche se diventata protestante con Enrico VIII, dilaniata da contese religiose e dinastiche. Il Rinascimento continentale, prima italiano e poi italo-francese, era conosciuto, e ammirato, solo da una ristretta cerchia di nobili colti.
“Michel Angelo al suo arrivo non parlava certo l’inglese, ma piuttosto l’italiano, e conosceva bene il latino e anche il francese e lo spagnolo, oltre all’ebraico e al greco. Insomma un ‘intellettuale’ e erudito che non poteva avere difficoltà a entrare in contatto e a stringere relazione con la crema dell’aristocrazia colta e italofila del momento. La lingua inglese d’altra parte a quell’epoca la cenerentola d’Europa, una lingue che nessuno praticamente parlava sul continente come dirà John, suo figlio, più di un quarto di secolo dopo: ‘passe Dover it (this english tongue) is worth nothing’”. Passato Dover, l’inglese non serve a nulla. E sarà proprio John Florio, con il suo vero nome e sotto lo pseudonimo di Shakespeare, a fornire un rilevante contributo per dare a quella lingua un nuovo vigore espressivo e una posizione di primo piano.
Quando Michel Angelo Florio arriva a Londra, sul trono siede il giovanissimo Edoardo VI, figlio di Enrico VIII. Dopo due anni come pastore della chiesa valdese italiana, Florio – amico di Lord Burghley, che sarà anche il protettore del figlio Giovanni, e di “Shakespeare” – si dedica all’insegnamento dell’italiano, e alla scrittura, sempre in italiano, di opere poetiche e teatrali. Nel 1553, a soli 16 anni, Edoardo VI muore, e tra i gentiluomini raccolti attorno al suo letto ci sarà anche Michel Angelo. Ma a Edoardo succede la sorellastra Mary, detta la Cattolica, e Bloody Mary (Maria la Sanguinaria) per la sua feroce persecuzione dei protestanti, nome rimasto a un long drink, succo di pomodoro e vodka. Nel 1554 il valdese Florio decide di lasciare l’Inghilterra con la famiglia: Giovanni (John) è nato nel 1553.
I Florio torneranno in Inghilterra nel 1571, quando già da tredici anni regna Elisabetta I, la Regina Vergine, che riporta in auge il protestantesimo paterno. In questi anni di peregrinazioni, Michel Angelo ha proseguito i suoi lavori eruditi, in particolare biblici, che trasmetterà al figlio, e Giovanni ha frequentato l’Università di Tubingen. Nel 1576 è insegnante di italiano e francese presso varie famiglie di notabili, e si iscrive all’Università di Oxford, ottenendo nel 1581 una laurea al Magdalen College (dove esiste ancora una Florio Society). Nel 1578 scrive il suo primo libro in inglese, “First fruits”, una raccolta di dialoghi e di proverbi italiani, molti dei quali si trovano riportati nelle opere di Shakespeare. “La vita dei Florio, padre e figlio, è, esistenzialmente, quella dell’autore delle opere di Shakespeare. I Florio, come il Bardo, sono aristocratici di spirito, elitisti senza essere essi stessi di origine nobile, autentici snob convinti assertori che il buon sangue deve dominare, portatori di una visione feudale della società, Ma allo stesso tempo umanisti scettici e aperti ad accogliere ogni forma d’umanità, da quella dei clowns a quella dei re”. Nel frattempo, a Stratford-upon-Avon, il giovane William Shakespere (era nato nel 1564), abbandonata la scuola primaria a causa delle difficili condizioni economiche familiari, aiutava il padre nel suo lavoro di conciatore di pelli per fabbricare guanti. Nel 1582 si sposava con Anne Hathaway, figlia di un fattore, e in tre anni avrà due figlie un maschio, morto a undici anni. Dal 1586 al 1592 la sua biografia, comunque scarna, presenta un buco nero che nessuna ricerca ha potuto riempire. E’ probabile che abbia lasciato la famiglia per cercare lavoro a Londra, ed è altrettanto probabile che si sia occupato in qualche modo negli ambienti teatrali. Secondo alcuni, come “posteggiatore” di cavalli all’esterno dei teatri.

* * *
Nel 1583, a Oxford, John Florio conosce un personaggio che, pur diversissimo da lui, ha alcuni importanti punti di contatto con la sua storia: Giordano Bruno. Il filosofo copernicano errante attraverso l’Europa, l’eretico che pretende di navigare liberamente tra cattolici, luterani, calvinisti, anglicani, e da tutti è guardato con sospetto, il “mago” dell’Arte della memoria, l’autore di libri innovativi per il contenuto e per lo stile letterario, e di un’opera teatrale (“Il candelaio”) che sembra precorrere quelle del Bardo, ricorda al suo connazionale la condizione di fuoriuscito ereditata dal padre Michel Angelo, e gli apre, con la sua foga unita a un tagliente humour satirico, prospettive nuove, esaltanti. Vari studiosi hanno riconosciuto che nelle opere di Shakespeare – da “Amleto” a “Pene d’amore perdute” – è chiaramente individuabile l’impronta di Bruno. Ma l’uomo di Stratford non ha mai incontrato il filosofo, durante il suo soggiorno londinese (marzo 1583- ottobre 1585) William era un apprendista guantaio nel suo borgo natale, e di Bruno non era certo in grado di leggere le opere, scritte in italiano.
Diverso il discorso per quanto riguarda John Florio. “L’influenza del pensiero e della persona di Giordano Bruno – scrive Tassinari - ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’attività di lessicografo, traduttore e linguista di John Florio, ma, quel che più conta, sul suo lavoro clandestino di poeta e drammaturgo svolto con il ‘nom de plume’ di Shake-speare. In altri e più chiari termini, Bruno è il primo responsabile della metamorfosi shakespeariana di Florio. Le sue idee, la sua lingua, il suo stile sono la fonte di ispirazione più viva e diretta, insieme a Montagne e alle Sacre scritture, che ha favorito il manifestarsi, nel giovane letterato, della travolgente forza poetica, drammatica e filosofica che anima le opere di Shakespeare”. Ancora peggio, per l’orgoglio nazionale britannico: le opere del Bardo sarebbero il frutto della genialità e della sapienza di ben tre italiani: i due Florio, Michel Angelo, la prima fonte, e Giovanni, e Giordano Bruno, lo straordinario, e ingombrante, pensatore finito sul rogo, appunto, per aver pensato troppo.

* * *
Giordano Bruno era arrivato a Londra da Parigi, dove era stato ricevuto – come sempre, con un misto di ammirazione e di diffidenza – alla corte dei Valois, dominata dalla straordinaria, e tremenda, regina madre Caterina de’ Medici. Il re Enrico III – al quale aveva esposto i princìpi della sua Arte della memoria, un sistema mnemonico basato su riferimenti astrologici e mitologici – gli aveva dato una lettera di presentazione per l’ambasciatore francese a Londra, Michel de Castelnau de Mauvissière, nella cui residenza dovrà alloggiare. Con quale incarico? E perché Bruno ha deciso di trasferirsi oltre Manica? Forse un motivo è che la corrente ultra-cattolica capitanata dai duchi di Guisa, già sponsor della famigerata notte di San Bartolomeo dell’agosto 1572, minaccia di riprendere il sopravvento. Ma la prudenza non ha mai condizionato i comportamenti di un uomo uso alle sfide più audaci. In realtà ci si trova di fronte a un giallo nel giallo, che Tassinari sfiora appena, ma altri autori hanno cercato, per quanto possibile, di approfondire.
Giordano Bruno conosce John Florio a Oxford, dove si era recato su invito di Elisabetta, accompagnato da Philip Sidney, “favorito” della regina, e lo ritrova nell’ottobre 1583 all’ambasciata francese, anche lui lì alloggiato, con la funzione di insegnante della figlia di Castelnau. I due italiani si vedono ogni giorno, parlano, discutono, confrontano le loro conoscenze, e – miracolosamente, essendo entrambi dotati di caratteri spesso aspri – diventano amici. Forse anche “colleghi”.
In quegli anni, l’ambasciata francese a Londra era considerata dal governo inglese una centrale di complotti, da tenere sotto sorveglianza. Attraverso le sue attività diplomatiche, passavano una serie di manovre, che ruotavano attorno alla scozzese Maria Stuarda, cattolica, e si ramificavano nelle cospirazioni dei “papisti”, sovvenzionati dai Guisa – Enrico III era invece piuttosto contrario all’estremismo sanfedista -, e dalla Spagna. Sir Francis Walsingham, segretario di Stato della regina, e creatore del servizio segreto inglese, disponeva di una fitta rete di spie, fra le quali il poeta e drammaturgo Christopher Marlowe: qualcuno ha ipotizzato che fosse lui il vero Shakespeare, ma Marlowe fu ucciso nel 1593, in una rissa o in un agguato. Quanto a John Florio, il suo secondo incarico, naturalmente ignoto a Castelnau, era quello di intercettare i messaggi di Maria Stuarda, che chiedeva aiuto ai cattolici francesi nei suoi intrighi contro Elisabetta, compresi i progetti di assassinarla e di sostituirla sul trono. E Bruno? John Bossy, nel suo saggio “Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata – Filosofi e spie, eretici e principi, intrighi e congiure nella Londra di Elisabetta I” (Garzanti, 1992, pagg. 366), sostiene che il filosofo agisse anch’egli per conto di Walsingham all’interno dell’ambasciata, con il nome di copertura “Henry Fagot” quando firmava i suoi rapporti scritti in francese. John Bossy è professore di storia all’Università di York, è autore di alcuni studi sulla Controriforma, e il libro su Bruno è stato insignito del prestigioso Wolfson Award. Il filosofo non parlava l’inglese, ma conosceva il francese, e naturalmente il latino (la lingua di cui si servivano i letterati e gli scienziati); con alcuni nobili, come Philip Sidney, parla in italiano, con gli altri, e con la regina, in un misto di italiano latino, e francese. Nelle faccende quotidiane era Florio a fargli da interprete. E’ possibile che lo stesso John abbia servito da tramite con Walsingham, e del resto, nel quadro complesso e agitato della politica europea, le simpatie di Bruno (come quelle di Florio) andavano al fronte protestante, di cui l’Inghilterra di Elisabetta era uno dei capisaldi.
Nel 1585 Bruno deve lasciare Londra insieme a Castelnau, sostituito da un ambasciatore vicino alla fazione dei Guisa, e, dopo un breve soggiorno a Parigi, si reca in Germania, nella luterana Wittemberg, la cui Università è un centro delle dottrine copernicane. Il celebre Ateneo – dove Bruno insegna in qualità di professore straordinario – che qualche anno dopo, quando appaiono le prime opere di Shakespeare, Amleto ricorderà con rimpianto.
* * *
La carriera letteraria di John Florio si svolge ad alto livello intellettuale: traduce in inglese gli “Essais” di Montagne e il “Decamerone”, insegna italiano e stilistica, redige il primo dizionario italiano-inglese (“A World of Words”). Quando nel 1603 Elisabetta muore e le succede Giacomo I (figlio di Maria Stuarda, che Elisabetta aveva fatta decapitare), diventa l’insegnante della regina Anna, consorte del re, e di Enrico, principe di Galles. Nel 1591 pubblica “Second fruits”.
Nel 1593 e nel 1594 vengono pubblicati due poemetti, “Venere e Adone” e “Lo stupro di Lucrezia”, dedicati a Henry Wriothesley, conte Southampton da “William Shakespeare”. Però, malgrado tutte le ricerche, non esiste traccia di un rapporto tra l’uomo di Stratford e il conte. “E’ invece un dato storico incontestabile – scrive Tassinari - che il giovane aristocratico italianizzante è stato per lunghi anni prima allievo e poi protettore e amico di John Florio. Nelle pulitissime e compitissime dediche ai due poemetti, ispirati a due opere di Ovidio, ci sono elementi di stile e di senso che rivelano, dietro lo pseudonimo di Shakespeare, la penna di Florio”.Già dal 1592 nei teatri di Londra erano rappresentate opere attribuite a Shakespeare, ma non si sa esattamente quali: probabilmente “Enrico VI” e “Tito Andronico”, ma comunque nessuna era stata pubblicata. Seguendo il filo della tesi di Tassinari, John Florio, mentre avviava con la collaborazione del padre la sua produzione teatrale, senza curarsi di rivendicarne la paternità – anzi, accettando di buon grado che venisse attribuita a un altro, un attore -, aveva voluto usare quello pseudonimo per due raffinate produzioni poetiche, dichiarandosene però l’autore attraverso la dedica, che contiene anche un’allusione alla preparazione del suo imponente dizionario.
Da quel poco che si sa di lui, sembra che nel 1611 il William di Stratford si sia ritirato nel suo borgo, dove aveva acquistato case e terreni, tornando solo due volte a Londra per questioni di affari. Moriva il 23 aprile 1616, e nel testamento dettato a un avvocato, che elencava puntigliosamente tutto ciò che possedeva, fino ai mobili e alla biancheria, non appaiono né manoscritti, né un solo libro, una mancanza certo poco sentita dalle figlie, analfabete, ma incomprensibile per il (supposto) prolifico autore di opere poetiche e teatrali. Nove anni dopo, John Florio lasciava circa quattrocento volumi al conte di Pembroke.

* * *
Concludendo, il saggio di Lamberto Tassinari è categorico. L’italiano John Florio è l’autore di tutte le opere attribuite a un William Shakespeare, nativo di Stratford-upon-Avon, e diventato – dopo essersi trasferito a Londra in cerca di lavoro – prima attore, e poi impresario teatrale. Quel personaggio non aveva assolutamente la cultura, la conoscenza delle lingue e dei Paesi stranieri, degli autori antichi e contemporanei (come Giordano Bruno) che traspare da quelle opere, nelle quali è ricorrente il riferimento ad ambienti e personaggi italiani. John Florio la aveva, e se ne è servito – usufruendo anche della collaborazione del padre Michel Angelo – per una produzione, sotto la copertura di un nome d’arte, parallela, e ben riconoscibile, a quella letteraria che lo aveva reso celebre fra gli aristocratici colti del suo tempo. “Clandestinità, anonimato necessari dapprima e ai quali poi Florio dovette rassegnarsi quando l’appropriazione del beneficiario dell’equivoco, dell’uomo di Stratford, fu confermata dall’opinione generale, poiché uscire allo scoperto sarebbe stato impossibile e pericoloso e, quasi certamente, mai voluto”. In seguito, quando a partire del XVIII secolo, il mito dell’uomo di Stratford, sarebbero rimaste occultate le “prove di ogni natura a dimostrazione di una verità che un esercito di specialisti, da secoli, non ha saputo o piuttosto non ha voluto vedere”.
Aggiungiamo, modestamente una considerazione. Non sappiamo se, nel caso le cose stiano davvero così (e gli argomenti e i materiali presentati da Tassinari sono molti e solidi), i cittadini britannici avrebbero motivo di sentirsi feriti nel loro legittimo orgoglio nazionale, ma, comunque, non ci sembra che noi italiani ne avremmo di vantarci di quella paternità letteraria. Non dimentichiamo che i Florio si trovavano in Inghilterra a causa delle persecuzioni religiose in Italia. E che per le idee espresse genialmente nelle sue opere, Giordano Bruno fu mandato al rogo a Roma.
Vale a dire che, volendo essere obiettivi, ci mancano i titoli per rivendicare una qualsiasi loro eredità.

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